domenica 3 aprile 2016

Jonathan Coe, "La pioggia prima che cada" ed. 2007

                                Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda


INTERVISTA A JONATHAN COE, autore de “La pioggia prima che cada”


La prima cosa che osserviamo leggendo “La pioggia prima che cada”, è che un romanzo molto diverso dai suoi precedenti. Che cosa l’ha portata a questo cambiamento?
     Avevo bisogno di un cambiamento. Volevo trovare un modo per dire una storia in maniera diversa da come avevo fatto prima. Il primo cambiamento è stato nel titolo: in tutti i miei altri libri il titolo è stato la prima cosa a cui ho pensato, il resto scaturiva da questo. Qui sono arrivato a tre quarti della composizione del libro senza avere ancora un titolo. Tutti sanno dei miei strani gusti musicali- quando avevo 17 anni ed ero a Firenze, ero entrato in un negozio ed avevo comprato un disco di Gary Burton, e su questo album c’era una canzone dal titolo “La pioggia prima che cada”. Non ho ascoltato molto questo disco negli anni successivi ma, di recente, ne avevo scaricato il contenuto sul mio iPod, e, una sera che non riuscivo ad addormentarmi, ascoltavo musica in una selezione casuale. Ad un certo punto c’era questa canzone, con quel titolo: ho pensato subito che fosse il titolo giusto per il mio libro- quindi i passaggi del romanzo che si riferiscono ad esso sono stati scritti dopo, per spiegare sia al lettore sia a me stesso perché il titolo sia così appropriato. Mi piace perché ha una specie di bellezza poetica, si riferisce a qualcosa di inesistente- non sono esperto di meteorologia ma la pioggia, prima di cadere, non esiste perché non è pioggia. E quando, alla fine, queste parole vengono usate, simboleggia il  tentativo di comprensione, una comprensione che a Gill sfugge.

Questo libro è diverso anche sul piano della struttura: Ne “La famiglia Winshaw” o ne “La banda dei brocchi” la narrazione è in terza persona, il tempo va avanti e indietro, le storie vengono raccontate in funzione dello sviluppo delle personalità dei personaggi.  Qui non c’è un solo io narrante, anche se c’è spesso la prima persona- la voce della zia incisa su nastro, ma poi anche i dialoghi delle nipoti che intervengono e poi ancora le lettere. E’ una specie di gioco di scatole cinesi, in un tempo però che si svolge lineare- dal passato al presente. Come mai questa struttura così complessa?
     Harold Pinter una volta disse una cosa riguardo alla scrittura, che ogni opera è un tipo diverso di fallimento. In questo libro mi interessa vedere in che modo ho fallito, volevo impostare una narrativa lineare, non volevo punti di vista multipli, cercavo quasi di ribellarmi contro la mia natura di scrittore. Cercavo di scrivere un libro semplice. Ma è sempre vero che mi interessano la diversità di prospettive e poi il tempo, un tema importante in tutti i miei libri, soprattutto in questo libro. Qui c’è il tema della memoria, di come la memoria ci inganni, di come cambino i nostri ideali e le nostre aspirazioni con il passare del tempo. E se volevo fare una cosa diversa dagli altri libri, in definitiva le differenze tra questo e gli altri libri sono a livello superficiale.

Come mai ha scelto una donna, e una donna anziana, come protagonista e voce narrante?
     Penso che diventerei monotono per me per i miei lettori se scrivessi sempre di uno scrittore di 47 anni che vive a Londra: sarebbe mettere una camicia di forza all’immaginazione. Non sono d’accordo che sia difficile per uno scrittore uomo scrivere con una voce femminile e viceversa. Mi pare più difficile dare la voce a qualcuno che appartiene ad una classe sociale o ad una etnia diversa.
Per me è stato un piacere scrivere di un personaggio che ha vissuto negli anni ‘70, perché quello è il periodo che ha avuto la produzione cinematografica che io preferisco, e sono i film di quell’epoca che mi sono serviti da ispirazione per il modo di parlare che è proprio del tempo.

La donna anziana si chiama Rosamond, la giovane Imogen: come ha scelto il nome delle sue protagoniste? Soprattutto Imogen ci pare che abbia un suono perfetto per un’eroina tragica…
     Il nome di Rosamond è un omaggio ad una scrittrice che amo molto, Rosamond Lehman. Non è molto conosciuta e forse questo è uno dei motivi per cui la amo. Come scrittore non ci si può confrontare con gli scrittori di grande fama, meglio quelli con cui ci si può mettere sullo stesso piano. Quanto a Imogen, la scelta è stata del tutto casuale. Qualcuno mi ha anche chiesto del parallelismo tra Imogen e Edipo, per il tema della cecità e dei segreti in famiglia- non ci avevo assolutamente pensato e poi, quando me lo hanno detto, mi sono reso conto che c’era qualcosa di vero nell’osservazione. Il mio subconscio deve esser all’opera per fare certe scelte- il funzionamento di una mente creativa ha i suoi  misteri.
Rosamond Lehmann
 In apparenza questo è un libro sulla famiglia, c’è tuttavia anche un esame delle conseguenze di certe situazioni socioeconomiche di cui le premesse erano ne “La famiglia Winshaw”: il rapporto genitori-figli si è complicato, è difficile dare ai figli degli strumenti per affrontare la vita.
     In Gran Bretagna la pubblicazione di questo libro ha suscitato delle critiche, dettate dalla delusione perché non parlo della scena politica. Non è che non voglia più occuparmi di temi politici, il fatto è che mi trovo in difficoltà sul come farlo adesso, perché la situazione è mutata rispetto a quando lavoravo su “La famiglia Winshaw” quindici anni fa. I romanzi in genere rappresentano i conflitti, così ne “La famiglia Winshaw” è rappresentato il conflitto ideologico degli anni ‘80; ora pare che questi conflitti siano stati messi da parte. Il sistema politico che si è affermato è quello, e non pare esserci alternativa. Forse uno scrittore come Malkani, autore di “Londostani”,  ha dei temi più urgenti da proporre di quanti ne abbia io, se vogliamo parlare della scena politica in Gran Bretagna.
Non credo che, come scrittori, possiamo sfuggire ai temi che ci interessano: ho parlato dell’importanza del tempo nei miei libri, ma c’è anche il tema dei deboli. Nei miei libri c’è chi detiene il potere e ci sono le vittime. Anche nella famiglia viene messo in evidenza questo tema: il contesto famigliare rappresenta una prospettiva chiara. I genitori sono in una posizione di responsabilità ma spesso abusano del loro potere- e questo è quello che c’è nel libro, una madre che abusa del suo potere sulla figlia.

Dalle registrazioni della zia si scopre che aveva vissuto con una donna: è stata dunque una scelta volontaria, quella di sottolineare i problemi di una coppia omosessuale, sia nell’essere socialmente accettata sia nel desiderio frustrato di adozione?
    Le generalizzazioni sono sempre pericolose, ma direi che nel Regno Unito l’atteggiamento verso l’omosessualità è molto più rilassato che in Italia, ormai è accettato che coppie omosessuali adottino bambini- e mi pare giusto. Nel libro la bambina Thea è trascurata dai genitori e questo avrà conseguenze sulla sua vita. Ci sarà un intermezzo di due anni in cui la bambina è affidata alle due donne che convivono: è il periodo più felice per lei. Proponendo questo contesto, non intendevo dire cose controverse, mi interessa però vedere come i lettori recepiscano questo come una proposta radicale. Spero che i lettori pensino quanto sarebbe naturale e sensato che Thea fosse affidata alle due donne che la amano e con cui si trova bene.

Lei non interviene mai con un giudizio morale davanti alle tragedie che accadono: è una sua decisione come narratore di parlare solo dei fatti, senza intervenire con un giudizio?
    C’è una forte vena moralistica nel romanzo inglese, da Fielding a Dickens, persino Orwell; la letteratura inglese è scritta anche per dare un punto di vista morale. Io ho assimilato questa tradizione. C’è sempre un punto di vista morale anche nei miei romanzi. Quando viene descritto il comportamento delle madri, non c’è dubbio quale posizione assumere nei confronti di questi comportamenti, ma non voglio assolutamente dirigere l’atteggiamento del lettore. Io ho avuto un’infanzia felice e non ho esperienza personale di questo tipo di sofferenza. Nel libro appaiono storie che mi sono state raccontate da amiche, del loro rapporto con la madre- sono vere per quanto incredibili, anzi ho dovuto attenuare la realtà.


Come ci si sente ad essere uno scrittore inglese di primo piano quando uno scrittore su due che scrive in inglese è indiano?
     Il mondo diventa più piccolo e la cultura più globalizzata. Noi inglesi non siamo necessariamente i migliori a raccontare storie. La tradizione da cui vengo ha avuto un ruolo dominante, poi, quando l’impero è crollato, la Gran Bretagna ha trovato ancora il suo posto nel mondo. La stessa cosa è successa per la cultura: c’è una varietà di voci stimolanti e non è a scapito di quello che faccio io, ma insieme a quello che faccio io.

Recensione e intervista sono state pubblicate su www.stradanove.net



                                                                                                   
  


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