martedì 10 novembre 2015

Raphael Luzon, “Tramonto libico” ed. 2015

                                                                         Diaspora ebraica         
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                FRESCO DI LETTURA

Raphael Luzon, “Tramonto libico”
Ed. Giuntina, pagg. 135, Euro 12,00



   “Tramonto libico. Storia di un ebreo arabo” incomincia e finisce nel luglio 2012, con Raphael Luzon, il narratore e autore del libro, chiuso in una cella del campo militare di Bengasi, incerto sulla sua sorte, sopraffatto dall’onda dei ricordi di un altro tempo, di un’altra paura.
Nel giugno del 1967, mentre in Israele si combatteva la guerra dei sei giorni, gli ebrei libici sperimentavano la versione araba del pogrom. Si respirava aria di pericolo, a Bengasi, dove vivevano i Luzon. Dal nulla, all’improvviso, spuntavano minacce. Raphael aveva solo tredici anni quando, dal barbiere per farsi dare una sforbiciata ai capelli, gli avevano sussurrato all’orecchio, “Attento, ragazzino, che prestano vi sgozzano tutti quanti voi ebrei.” A scuola le lezioni erano state sospese. Perfino la loro fedele domestica, Zaineb, se n’era andata con le lacrime agli occhi. C’erano stati disordini, incendi, la sistemazione provvisoria in baracche fuori città. La partenza, infine: una valigia e venti sterline libiche era tutto quello che ognuno aveva il permesso di portare. Sembra un dejà vu di quello era successo agli ebrei tedeschi con l’avvento di Hitler.

C’è un tono epico nelle parole di Luzon, c’è l’epopea dell’ebreo errante, “e così partimmo, senza niente, lasciando dietro di noi i morti, ignorando la sorte dei nostri parenti, abbandonando le nostre case agli arabi, con i cuori affranti e le nostre tradizioni, i nostri affetti, i nostri ricordi nel fragile bagaglio della nostra memoria.” E’ importante che la memoria continui a salvaguardare i ricordi del passato, la storia di famiglia. E Raphael Luzon ci parla dei nonni, del padre importatore di prodotti farmaceutici, della madre coraggiosa, dell’eccidio della famiglia dello zio, prima di continuare con le vicende di tutti loro dopo l’arrivo in Italia insieme agli altri 4100 ebrei libici che scelsero questa destinazione, il campo profughi a Capua dapprima e poi Roma, per acquistare stabilità, per rimettere radici in un’altra terra.
Bengasi
    C’è una cosa che mi stupisce sempre e che mi riempie di ammirazione, ogni volta che leggo una storia come quella di Raphael Luzon, ed è la capacità che sembrano abbiano sempre gli ebrei, che fa parte dei loro geni ormai per una forzatura storica, di rialzarsi dalle cadute, di ricominciare da capo, di andare avanti e di farsi strada nel nuovo mondo dove sono stati trapiantati. Non è per loro come per gli altri migranti, o immigrati, o esuli, che per lo più si lasciano alle spalle una situazione disperata in cui non hanno nulla da perdere. Molto spesso, quasi sempre, gli ebrei di cui leggiamo abbandonano una situazione economica fiorente, perdono tutto per riiniziare dal nulla. Senza lasciarsi abbattere. Un’altra cosa ho ammirato, nel libro di Raphale Luzon. Il tono pacato con cui racconta, l’assenza di ribellione davanti ai colpi della fortuna- perché la sua non è stata una vita facile, neppure quando sembrava che il peggio fosse passato. Sua moglie morì due anni dopo aver messo al mondo la loro bambina, Raphael emigrò in Israele per esaudire il desiderio della moglie- che la figlia crescesse laggiù-, ci fu poi la sua malattia e un’operazione. Ci fu anche, però, il ritorno in Libia su invito di Gheddafi- felicità e dolore. Felicità per rivedere un luogo amato e dolore nel vedersi precluso l’ingresso in quella che era stata la loro casa e la sinagoga trasformata in una chiesa copta.
Sinagoga di Tripoli
Eppure, nonostante la brutta esperienza di quell’imprigionamento nel 2012, Raphael Luzon non riesce a soffocare l’amore per la Libia, la sua naturale disposizione d’animo lo induce a pensare che “le forze buone insite in tante persone potranno alla fine prevalere se soltanto non perderemo la speranza, se soltanto faremo in modo di non lasciare spazio nelle nostre anime alle ombre buie della disperazione e dell’odio”. Raphael Luzon teme per la Libia, ha paura della potenza dei movimenti islamici e l’ultimo suo grido generoso è, “Non lasciamo solo il popolo libico”.

     Con la prefazione di Roberto Saviano, un piccolo libro che vale la pena di leggere.


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