mercoledì 11 novembre 2015

Orlando Figes, “Qualcosa di più dell’amore” ed. 2012

                                       Voci di mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                 la Storia nel romanzo
      il libro ritrovato

Orlando Figes, “Qualcosa di più dell’amore”
Ed. Neri Pozza, trad. Serena Prina, pagg. 378, Euro 17,00
Titolo originale: Just Send Me Word  

     Lev si aspettava di essere rilasciato nei giorni immediatamente successivi. Adesso che il momento era arrivato, non provava l’euforia che avrebbe potuto aspettarsi. In qualche modo, era persino triste all’idea di partire. C’erano le amicizie che aveva intrecciato che gli sarebbero mancate, persone come Strelkov, che erano malate e che non voleva perdere, come ebbe a spiegare a Sveta nella sua ultima lettera dal campo di lavoro. Se avesse numerato tutte le lettere degli otto anni appena trascorsi, sarebbe stata la seicentoquarantasettesima.

      I numeri per una storia d’amore straordinaria, extra-ordinaria: 1246 lettere, 647 quelle di lui a lei, 599 di lei a lui. La prima, di lui, porta la data 12 luglio 1946. L’ultima, sempre di lui, è del 23 novembre 1954. I luoghi per questa vicenda talmente fuori dal comune che pare impossibile vista con lo sguardo frettoloso dei nostri giorni: il campo di lavoro di Pečora in Siberia e Mosca. I nomi, infine: Lev Glebovič Miščenko e Svetlana Ivanov.
     Orlando Figes, la cui profonda conoscenza del mondo russo abbiamo già apprezzato nello splendido libro “La danza di Nataša”, ci racconta di Lev e di Svetlana attraverso le loro lettere, e, nello stesso tempo, senza inventare nulla e con un’eccezionale documentazione di prima mano, ci parla del Terrore stalinista, della vita nel Gulag e di quella a Mosca nella decina di anni in cui l’amore di Lev e Svetlana fu messo alla prova nella maniera più dura- la lontananza, la possibilità di vedersi una volta all’anno e con mille difficoltà, la lotta quotidiana contro la disperazione per continuare a sperare, per non lasciarsi vincere dal sistema. E’ più facile vivere con la speranza o senza di essa?- è la domanda posta da Svetlana per prima, che Lev riprende e che ricorre periodicamente nella loro corrispondenza. Dei due, è Svetlana la più fragile, anche se a volte è come se si raddrizzasse con uno scossone, consapevole di avere una posizione privilegiata e di non potersi abbandonare allo scoramento. Ma Svetlana ascolta anche il ticchettio biologico del suo corpo, sa che sarà vicino ai quarant’anni quando Lev avrà finito di scontare la pena, che potrebbe non avere mai i figli che desidera da lui.

    Il loro primo incontro era avvenuto nel 1935, all’università di Mosca che non era ancora il vistoso edificio nello stile gotico stalinista che Svetlana descriverà a Lev in una lettera, uno delle ‘sette sorelle’ intesi a celebrare i secoli di esistenza della capitale. Non c’era nessun accordo preciso tra di loro quando Lev si era arruolato volontario nel 1941, allo scoppio della guerra. Il perché e il come Lev fosse finito in un campo di lavoro a scontare una pena di dieci anni per tradimento sembrano quasi una beffa. Perché il fatto che Lev fosse stato preso prigioniero dai tedeschi lo rendeva sospetto, che lui, conoscendo il tedesco, fosse stato usato come traduttore dal nemico lo trasformava in una spia. Soltanto nel 1946 Lev cerca di mettersi in contatto con Svetlana, pieno di timori sull’opportunità di farlo. Inizia la loro corrispondenza, continua e matura il loro amore.

    Leggere le lettere degli altri è come spiare nelle loro anime. Leggendo le lettere di Lev e di Svetlana (lui la chiama con una dozzina di diminutivi, di vezzeggiativi dolcissimi, accorcia il suo nome in ‘Svet’ che significa ‘luce’) non possiamo non stupirci, non ammirarli, non invidiarli anche un poco. Perché non è da tutti essere capaci della costanza e del coraggio che dimostrano. E’ da pochi riuscire a mantenere la dirittura morale di Lev in condizioni di vita estreme- lui stesso dice che l’esistenza nel Gulag tira fuori il peggio della natura umana nella lotta per la sopravvivenza. E allora Lev, che riesce ad instaurare rapporti di amicizia che dureranno anche dopo la liberazione, che chiede a Svet di mandare acido ascorbico e vitamine per curare qualche altro prigioniero che si è ammalato di scorbuto, che mette il massimo impegno nel suo lavoro di schiavo perché è la sua dignità che glielo impone, che ama senza egoismo, che descrive la durezza del campo senza autocommiserazione, che scrive, scrive, scrive per otto anni e quattro mesi (la morte di Stalin e un sistema di punteggi contribuirono a diminuirgli la pena), ci sembra un eroe. Da parte sua Sveta, pur con qualche cedimento, non è da meno- basta ricordare l’audacia nell’escogitare i sotterfugi per entrare di nascosto nel campo di Pečora.
         Con la precisione di uno storico, Orlando Figes ci ha regalato un libro che è una bellissima storia d’amore e un saggio di sociologia sull’Unione Sovietica del dopo-guerra.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it






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