martedì 8 maggio 2018

Auður Ava Ólafsdóttir, “Hotel Silence” ed. 2018


                                                               vento del Nord

Auður Ava Ólafsdóttir, “Hotel Silence”
Ed. Einaudi, trad. S. Rosatti, pagg. 188, Euro 15,72

        Per una strana coincidenza ho letto, uno dopo l’altro, due libri di scrittori che vivono alle due estremità opposte del mondo, o quasi. In Islanda e in Giappone. Ed entrambi i libri sono due favole, o due parabole che contengono un messaggio positivo di forza vitale, di incoraggiamento ad andare avanti nella vita, qualunque siano le avversità. Il protagonista del romanzo di Auður Ava Ólafsdóttir, “Hotel Silence”, è Jónas, quarantanove anni, divorziato da sei mesi. La moglie, prima di lasciarlo, gli ha detto che la figlia- che Jónas adora- non è sua. A Jónas è crollato addosso il mondo. Se aggiungiamo che sua madre, in un ricovero per anziani, non ci sta più tanto con la testa- il quadro è completo. La vita gli sembra senza scopo, senza futuro. Jónas pensa di uccidersi, si fa imprestare il fucile da caccia dal suo vicino di casa. Peccato che Jónas non abbia mai sparato un colpo in vita sua. Pensa di impiccarsi. Ma non vuole che, come sarebbe probabile, sia Vatnalilja a trovarlo. Vatnalilja che significa ninfea. Jónas si è fatto tatuare una ninfea bianca sul petto. Soluzione: partire, andare a morire altrove. Senza bagaglio, soltanto con la cassetta degli attrezzi, perché non riesce a lasciarla a casa, lui che aveva imparato a fare ogni genere di piccola riparazione per le sue tre donne e che ora non è capace di riparare la sua vita. Con i quaderni dei suoi diari, perché non vuole che qualcuno li legga, se li gettasse nei rifiuti. Parte per uno dei paesi che riempiono le pagine dei giornali con notizie di guerra, dove la morte è una banalità quotidiana.

    Succede quello che possiamo aspettarci, proprio perché la morte non stupisce più nessuno nel paese dove atterra l’aereo di Jónas, dove tutti pensano che lui sia andato sotto copertura, per qualche missione speciale, dove l’hotel Silence è miracolosamente rimasto in piedi, gestito da fratello e sorella. Ci sono altri due ospiti arrivati inaspettatamente insieme a Jónas: è segno che la vita sta riprendendo? C’è anche un bambino nell’albergo, è il figlio di Maì, la ragazza. Non ha conosciuto altro che spari e bombardamenti, aveva smesso di parlare. Succede che, dopo che Jónas ha rimesso in funzione la doccia della sua stanza pulendo i tubi dalla sabbia, iniziano a chiedergli di fare piccole riparazioni. Passa un giorno dopo l’altro e Jónas non si è ucciso.

    Non voglio raccontarvi tutto il libro la cui trama è prevedibile, così come è chiaro il messaggio: scegliere la morte laddove l’odore della morte impesta l’aria, dove la morte non è una scelta, è un obbrobrio, un sacrilegio. Eppure la qualità della prosa di Auður Ava Ólafsdóttir, pulita, con qualcosa di musicale e poetico, ci conquista e leggiamo, pur sapendo che non avremo sorprese nel finale. Se eravamo pronti a cogliere qualche dissonanza nella voce di un personaggio maschile tratteggiato da una penna femminile, dobbiamo ricrederci. E ci piacciono le piccole descrizioni delle sorprese che aspettano un islandese in un paese malato di guerra che certamente si affaccia sul Mediterraneo. Ci piace la descrizione dei piatti cucinati con inventiva da chi non niente da cucinare. Ci piace il rapporto padre-figlia che non cambia affatto dopo la sconvolgente rivelazione della ex moglie di Jónas- anche Vatnalilja era stata messa al corrente dalla madre e non le importava affatto. A questo Jónas dovrebbe pensare prima di tutto, tirando le somme della sua vita: è stato ed è un buon padre. E apprezziamo che Auður Ava Ólafsdóttir eviti facili pennellate rosa di storie d’amore che salvano dalla depressione.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook





Nessun commento:

Posta un commento