giovedì 9 ottobre 2014

John Williams, "Stoner" ed. 2012

                                               Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                         il libro ritrovato


John Williams, “Stoner”
Ed. Fazi, trad. Stefano Tummolini, pagg.322, Euro 17,50

       “Stoner” non è un bel libro. “Stoner” è un libro splendido. Se avete dei dubbi, leggendo che è la storia di un uomo che non si è mai allontanato più di un centinaio di chilometri dal luogo dove è nato e che ha insegnato per quarant’anni nella stessa università dove ha studiato, dissipateli immediatamente. Una volta tanto lo strillo di copertina preso da Le Figaro, “Questa è grande arte”, dice la verità. Perché con uno stile limpido e pulito John Williams (nato nel 1922 in Texas da una famiglia di contadini, diventato lui stesso insegnante universitario e morto nel 1994) ci parla di un uomo che impariamo a rispettare e ad amare, che ci fa soffrire della sua dignitosa sofferenza e da cui ci accomiatiamo, alla fine, rimpiangendolo, per quello che ancora avrebbe potuto darci, ammirandolo una volta di più per il suo quieto stoicismo, per la lucidità spietata con cui guarda al suo passato, riconoscendosi come un fallito.
    Eppure, mi riesce impossibile considerare un fallito William Stoner- lungo tutto il romanzo sarà sempre chiamato semplicemente ‘Stoner’, e pensiamo alla durezza della pietra, stone in inglese. La moglie ogni tanto lo chiama con un improbabilmente affettuoso ‘Willy’, l’amante lo chiamerà Bill. Era nato nel 1891 in una fattoria nel Missouri. Il padre era un agricoltore, fino alla morte avrebbe avuto il nero della terra sotto le unghie. William Stoner si era iscritto alla facoltà di agraria su consiglio dell’ispettore della contea. Era un sacrificio economico per i genitori, era un sacrificio anche rinunciare al suo aiuto nei campi, ma era stato loro detto che si sarebbero avvantaggiati dei suoi studi. Soltanto che, dopo aver frequentato le lezioni di letteratura inglese che erano un pro-forma per il suo corso di studi, Stoner aveva cambiato indirizzo, incantato suo malgrado dal mondo delle parole svelato da un burbero insegnante.

   Possiamo immaginarlo, questo contadinotto mal vestito e sgobbone, solitario e goffo che vive in un’altra dimensione leggendo le opere dei grandi scrittori. Un ragazzo così insicuro di sé non può fare delle amicizie- in tutta la sua vita avrà solo due amici, e uno dei due muore in guerra, subito dopo essersi arruolato. Era quello che aveva detto che l’università è una casa di riposo “per vecchi e malati, per gli infelici, o gli inetti di ogni genere”. Aveva ragione, riconosciamolo. Stoner è protetto in quel mondo recintato dalla cultura, dove neppure si avvertono gli echi della competizione capitalista. C’è un’altra sorta di competizione in un gioco in cui non ci sono vincite di soldi ma di potere dell’intelletto. Quando Stoner si rifiuta di promuovere uno studente handicappato, sostenuto da un collega pure lui handicappato, perché una menomazione non deve giustificare l’impreparazione, la sua carriera viene stroncata dal suddetto collega. Non si parla di una carriera che frutta un vantaggio economico, ma di una retrocessione ad insegnare in corsi per matricole dove ci si abbrutisce nel cercare di rendere meno rozzi gli studenti. Frustrato il lavoro di ricerca, gli approfondimenti, i voli della mente. Stoner subisce. Forse è questo l’unico difetto che vediamo in Stoner. Stoner è passivo. E se ben poco può fare per rimediare all’infelicità del suo matrimonio con una donna vittima dell’ignoranza sessuale delle ragazze per bene dell’epoca, potrebbe imporsi, però, per ‘salvare’ la figlia dalle grinfie gelose della moglie. Potrebbe lottare per difendere il suo amore, quando- e ne siamo così felici per lui- lo incontra in una delle studentesse che seguivano le sue lezioni. Ma Stoner non è un lottatore. Stoner non parte per nessuna delle due guerre, e non perché sia un vigliacco, ma perché la violenza non appartiene al suo mondo.
    La storia di Stoner è quella di un uomo buono. E c’è sempre un buon grado di passività in un uomo buono, per quello gliela perdoniamo. E’ un uomo integro e corretto, nei confronti di tutti. Quando- e lui è già vicino alla morte che guarda in faccia senza paura- la moglie si riavvicina a lui con affetto, tiriamo un sospiro di sollievo. Non morirà solo, qualcun altro oltre a noi lettori si è accorto del suo valore e gli vuole bene.

    Un libro imperdibile. Da leggere e rileggere, certi che ogni rilettura sarà un arricchimento.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net





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