sabato 5 aprile 2014

Donatella Di Pietrantonio, "Mia madre è un fiume" ed. 2012

                                                                    il libro ritrovato



Donatella Di Pietrantonio, “Mia madre è un fiume”
Ed. Elliot, pagg. 177, Euro 16,00


      Le pecore si facevano beffe di me i primi tempi che le accompagnavo al pascolo da sola, non sapevo guidarle. Se sconfinavano mi avvicinavo in modo troppo diretto e le fetenti invece di retrocedere si addentravano nell’erba proibita. Quel giorno dovevo ricondurle all’ovile per una stradina che tagliava i campi di un vicino piuttosto irascibile. Si fermarono a brucare il trifoglio novello,le spingevo di qua e di là senza riuscire a riportarle sul sentiero. Disperata, ti ho visto poi da lontano, viene a salvarmi, ho creduto. Invece eri furiosa per il ritardo e mi hai colpita con uno schiaffo dietro la testa.
  
      Una madre. Una figlia. Un amore forte eppure difficile, aspro come il paesaggio della terra d’Abruzzo in cui vivono. Un affetto che sembra nascondersi dietro il pudore, proprio come la bellezza schiva di una regione troppo spesso dimenticata.
“Mia madre è un fiume”, opera prima di Donatella Di Pietrantonio, è la storia di questo rapporto, una storia che diventa anche storia di famiglia e che inizia quando è più che mai necessario ‘fissare’ questo amore, mettere delle pietre miliari, incollare i ricordi perché non vadano perduti. Perché Esperia- la madre- sta perdendo la memoria. Ha solo sessantadue anni, ma rivela i sintomi della più crudele delle malattie- quella che ti ruba il cervello, che ti fa dimenticare un attimo per l’altro quello che stai facendo, che ti fa smarrire il senso delle azioni quotidiane. Che può portarti perfino a non riconoscere più chi ti è accanto. Ecco perché lei, la figlia, ha incominciato a raccontarle quello che un tempo sua madre ha raccontato a lei, accumulando frammento su frammento di ricordi.     

Esperia era stata la prima dei figli di Fioravante e Serafina. La prima di sei sorelle. Figlia della prima licenza di Fioravante partito per la guerra. Poi- più o meno ogni licenza, un figlio. Anzi, una figlia. E a tutte Fioravante aveva dato nomi insoliti: dopo Esperia c’era Valchiria, e Diamante, Clarice, Clorinda…Erano ricchi solo di figli, Fioravante e Serafina, ma non erano neppure poveri, c’era sempre da mangiare per tutti. Magari le scarpe buone si calzavano solo quando si entrava a scuola, togliendosi quelle infangate dalla camminata per arrivarci. Erano contadini, avevano terra e pecore da portare al pascolo.
     Il racconto che la figlia fa alla madre non è lineare, la somma dei ricordi non è una semplice addizione. Ogni tanto la figlia rievoca episodi dell’infanzia materna- e poi della madre adolescente, del suo amore per il cugino che avrebbe sposato-, ogni tanto scava nei ricordi della sua infanzia, quando soffriva per l’incapacità della madre di mostrare il suo affetto per lei, per parlare dopo del tempo presente, del dolore di assistere impotenti al disfacimento di una persona, quando si cerca di recuperare il tempo perduto in un rapporto, prima che sia troppo tardi. E, ad un certo punto, quasi ad offrire una spiegazione tardiva al distacco che la figlia avvertiva da parte della madre nei suoi confronti, affiora anche il penosissimo ricordo delle molestie paterne su Esperia. Eppure Esperia nulla aveva detto alla figlia bambina, per non sciupare il suo attaccamento al nonno.

    Sullo sfondo di questa famiglia, l’Abruzzo. Non ci viene mai permesso di dimenticare che Esperia vive in Abruzzo. E a volte dobbiamo sostare un attimo e sforzarci per ricordare che Esperia è nata durante la seconda guerra mondiale, che quello che ci narra, di una vecchia casa senza elettricità e con il gabinetto all’aperto, dei chilometri da fare per arrivare a scuola, delle pecore da portare al pascolo, di una quotidianità fatta di dura fatica e di essenzialità- che tutto questo avveniva non molto tempo fa: l’Italia è più grande e diversificata da come pensavamo. Dalle pagine occhieggiano paesaggi molto belli e scabri, che sembrano trovare una corrispondenza adeguata nel sentimento che pervade tutta la narrazione, in bilico tra la poesia che ricopre di luce soffusa il passato, il rimpianto per qualcosa che si è perso, l’orgoglio per le mete raggiunte e la pena, la pena infinita, la pietas per la donna in cui la luce si sta spegnendo e che ha ancora fiato per dire alla figlia: “Meno male che sei venuta, ti ha parlato l’angelo all’orecchio”.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

 
Donatella Di Pietrantonio

   

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