lunedì 3 maggio 2021

Filippo Boni, “Muoio per te. Cavriglia, 4 luglio 1944” ed. 2021

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   seconda guerra mondiale

Filippo Boni, “Muoio per te. Cavriglia, 4 luglio 1944

Ed. Longanesi, pagg. 372, Euro 19,00

     Luglio 1944. La guerra è nella sua fase conclusiva. Lo sperano tutti. Lo spera l’esercito italiano allo sbando dopo l’armistizio del settembre 1943, lo spera la gente comune estenuata dalla fame, dalla paura, dalle bombe, dalle fucilazioni dei nazisti incarogniti, furiosi nei confronti degli ex-alleati traditori. Gli Alleati sono sbarcati ad Anzio a gennaio e stanno incalzando i tedeschi in ritirata. Per questi è di primaria importanza ritardare l’avanzata degli Alleati, bloccarli al di qua della Linea Gotica che corre dal fiume Magra a Pesaro. E, oltre a difendere le loro postazioni, si trovano a dover fronteggiare gli attacchi dei partigiani, sempre più numerosi sull’Apennino toscano.

    Il 5 luglio 1944 191 uomini, di un’età compresa tra i quattordici e gli ottantacinque anni, furono rastrellati, mitragliati e bruciati in cinque frazioni del comune di Cavriglia, in provincia di Arezzo- un massacro, un’azione preventiva, un’intimidazione, una rappresaglia.


     Filippo Boni, giovane giornalista e studioso di Storia del Novecento, ci consegna la ricostruzione di quel giorno in cui fu l’innocenza a morire insieme a quei 191 che non erano stati neppure interrogati, semplicemente uccisi senza discernimento, perché abitavano lì, nei pressi di quelle montagne, covo di quelli che per i tedeschi erano terroristi oppure, per italiani e Alleati, patrioti che difendevano la patria dall’invasore. Filippo Boni ha una forte motivazione per scrivere del massacro- nel 1996 suo nonno, 72 anni, prima di morire di cancro gli aveva consegnato dei fogli con degli appunti. Perché suo nonno Giuseppe era là, quel 5 luglio. Aveva vent’anni, era scampato all’eccidio. Il padre di Giuseppe, il macellaio Annibale, era morto- dapprima era riuscito a nascondersi, poi, quando una voce errata gli aveva detto che il figlio era tra le vittime, si era consegnato ai tedeschi. Gli era impossibile continuare a vivere se il figlio minore era stato ucciso.

    È questa la storia che Filippo Boni racconta, dei cinque paesini, di povera gente, lavoratori della miniera, contadini, della macelleria del bisnonno, della numerosa famiglia Boni composta da otto figli. Giuseppe, suo nonno, era il più piccolo e soffriva perché gli sembrava di non riuscire mai a parlare con suo padre. Avrebbe voluto dirgli che lui, Giuseppe, pensava fosse giusto raggiungere i partigiani sui monti- la loro lotta era anche la sua. E tuttavia perfino il sacerdote del paese gli aveva fatto notare che il suo posto era al lavoro accanto al padre, che il suo compito era quello di fornire il cibo ai compaesani e ai combattenti.

    In qualche maniera arcana si avvertiva il peso incombente della minaccia tedesca sul comune di Cavriglia. Già avevano reclamato un quadro prezioso del Beato Angelico per quell’avido collezionista di Goering (e per fortuna era stato nascosto). E tuttavia, quando i camion con i soldati arrivarono, di prima mattina, colsero la gente di sorpresa. Filippo Boni ci aveva fatto conoscere gli abitanti delle frazioni, le donne, gli uomini e i bambini. Ci aveva presentato anche i sacerdoti a cui andrà la nostra ammirazione per il loro coraggio. E, quando il peggio succede, quando iniziano i rallestramenti, quando le donne e i bambini vengono allontanati, non sono più degli estranei per noi. Non sono personaggi di carta, ma persone vere quelle che pensano che si tratti di un controllo di routine- dopotutto loro non hanno fatto niente-, quelle che verranno falciate dalle mitragliatrici dell’Unità Hermann Goering sotto i gelidi occhi spietati del comandante Wolf che ascoltava Mozart mentre la gente moriva, che ordinava l’esecuzione del soldato che si era rifiutato di sparare su gente inerme. Per poi ordinare di dare tutto alle fiamme.


     Qualcuno si era salvato- il marito di una sorella di Giuseppe si era travestito da donna, un altro si era nascosto in un grande tino, altri si erano gettati nel vuoto al di là di un muretto rotolando per una scarpata. Si erano salvati per ricordare, per testimoniare, per portare il lutto per sempre, per cercare giustizia per un crimine di guerra che rimase impunito.

   Tredicimila pagine, oltre novecento fascicoli che contenevano la storia tragica di oltre quindicimila persone coinvolte nei crimini di guerra commessi durante l’occupazione nazifascista in Italia sono rimasti nascosti fino al 1994 in quello che è stato chiamato l’Armadio della Vergogna. Le motivazioni per questo occultamento, per quanto sotto un’apparente giustificazione razionale dettata dalla politica del tempo, sono altrettanto vergognose quanto i delitti che avrebbero dovuto essere perseguiti. Ecco perché il libro di Filippo Boni è importante. Per fare giustizia almeno sulla carta. Per preservare la memoria.

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