domenica 6 gennaio 2019

INTERVISTA A FLAVIO VILLANI, autore di "Nel peggiore dei modi". 2019


                                        Casa Nostra. Qui Italia
                                     cento sfumature di giallo


     A Milano il cielo è limpido, spazzato da un vento freddo, il pomeriggio che incontro Flavio Villani, autore del romanzo “Nel peggiore dei modi”. Non c’è la nebbia in cui si aggira Rocco Cavallo- ma sono anni che non c’è più nebbia in città. Forse in periferia. Ed è ancora un giorno di vacanza, per me di certo e probabilmente anche per lo scrittore che mi ha assicurato di avere tutto il tempo necessario per le mie domande.

“La cosa più interessante della vita è la morte”, dice nella prima pagina del libro l’esergo tratto da Turgenev. Ho pensato che medici e polizia criminale abbiano questo in comune- la morte. Che cosa ha spinto un medico a scrivere romanzi di indagine poliziesca?
       In realtà non ho scelto di scrivere romanzi di indagine poliziesca. Sono prima di tutto un medico che è stato spinto a scrivere- scrivo da tanti anni, per me scrivere è una componente esistenziale, scrivere è indipendente dal genere. Ho sempre provato piacere a scrivere, ho sempre avuto la voglia di scrivere della realtà che ci circonda, e il genere ‘giallo’ te lo permette. Sono arrivato al ‘giallo’ in maniera casuale. Da ragazzo leggevo sempre i gialli Mondadori. Ho iniziato a scrivere un racconto che poi si è espanso ed è diventato qualcosa di più. Direi che, quindi, la scrittura per me è fondamentale e poi dipende da quello che voglio raccontare- il ‘giallo’ si adatta bene ai grandi temi che mi interessano. La forma mentis dell’investigatore non è poi così diversa da quella del medico, il metodo scientifico di approccio alla realtà è lo stesso- sul corpo nel caso del medico, rivolto all’investigazione criminale in quello dell’investigatore. Sono un medico neurologo e, in quanto tale, ho un approccio investigativo al caso di un paziente- credo ci sia assonanza tra queste due realtà.

Rocco Cavallo. Come si è presentato alla sua mente questo personaggio che ha lo stesso nome del Rocco Schiavone di Antonio Manzini e che, però, è quasi il suo opposto in tutto?
    Non ho avuto una folgorazione, un personaggio si costruisce passo dopo passo. Ho in mente un nucleo e poi il personaggio si sviluppa da quello. E più che a Rocco Schiavone pensavo a don Ciccio Ingravallo del “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana” di Gadda, un personaggio con una sensibilità diversa, un personaggio della strada, non intellettuale, che viene anche da un’epoca diversa.
Il mio Rocco Cavallo è più introspettivo, più teorico, almeno nella prima parte della sua vita. Ha frequentato l’Università, ha una formazione che lo rende diverso da quello di Gadda. Mi interessava avere un investigatore e poi ho capito come doveva essere strutturato. Rocco è un idealista, non è un uomo d’azione, ha un’idea della verità che si scontra con la realtà dei fatti. Si è caratterizzato a poco a poco: è un camminatore, conosce la città, la palpa, è in grado di leggere le persone. Volevo uscire dal cliché dell’anti-eroe: molti dei protagonisti dei romanzi del genere poliziesco hanno delle problematiche lontane da quelle dell’uomo comune. Mi interessava che Rocco fosse simile a noi, uomini normali- non è un ubriacone, non si droga, non è corrotto. Forse, dopotutto, non è così normale, forse si allontana dalla normalità in questo senso.

“Nel peggiore dei modi” spazia dal mondo della mafia a un periodo del passato politicamente complesso, quello degli ‘anni di piombo’. Gli anni ‘70 sono nello sfondo anche del romanzo precedente, “Il nome del padre”. Lei era molto giovane, allora. Che cosa l’ha così colpita di quegli anni, da ritornarci sopra in due romanzi?
      Ero giovane, sì. Nel ‘77 però cominciavo a rendermi conto di quello che stava succedendo, c’erano i picchetti a scuola, la polizia all’interno dell’edificio, la professoressa che ci faceva restare in classe per paura di quello che poteva succedere. Ricordo una serie di fatti a Porta Vittoria, fatti di violenze dall’una e dall’altra parte, violenze tra fazioni diverse e all’interno della stessa fazione. Ricordo il rapimento di Moro, tutta una serie di eventi- è stato un periodo molto importante per l’Italia. La serie di Rocco Cavallo ha questo senso, ricostruire questa serie di fatti in modo non troppo giornalistico. Anche gli anni ‘90 sono importanti, un decennio fondamentale- per capire quello che avviene bisogna capire quello che abbiamo alle spalle. Quello che intendo fare con i romanzi di Rocco Cavallo è una ricostruzione storica. L’atmosfera di quel periodo mi è rimasta attaccata, a ripensarci è terribile- c’è stata in media un’aggressione al giorno di matrice politica.

Come ha fatto a raccogliere tutte le informazioni necessarie per parlare del mondo della mafia? Ed è chiaramente voluto il riferimento ad un noto giornalista, quando si fa il nome di Pietro Colaianni?
      Ho letto molto per informarmi. Libri, articoli di giornali, resoconti, interviste. No, non ho avuto informazioni di prima mano e sì, il nome che appare nel romanzo e che chiaramente allude ad un giornalista di Milano, è proprio lui, un giornalista scrittore a cui sono debitore perché i suoi articoli mi hanno istruito parecchio.

Presente e passato si alternano in questo romanzo, in quello precedente il passato ha addirittura un duplice piano temporale. E’ una sua maniera di essere- di Lei, dottor Villani- di vivere il presente con uno sguardo al passato?
     Non è un caso. E sì, è una mia modalità. Il ricordo, la ricostruzione del passato ritorna nella mia maniera di vedere le cose. I ricordi storici mi hanno sempre affascinato.
Anche nel mio primo romanzo “L’ordine di Babele” ho seguito la mia propensione di andare a ritroso e ricostruire i passi. Mi piace, anzi, per me è fondamentale. Non comprendiamo che cosa siamo oggi se non sappiamo che cosa è avvenuto prima. Ne “L’ordine di Babele” era più difficile entrare in questa alternanza di capitoli, di presente e di passato, lo è di meno nei romanzi di Rocco Cavallo. E’ come per le scatole cinesi: ogni racconto ha la potenzialità di tirare fuori altre storie, potremmo andare avanti all’infinito, ci sono incroci a sé stanti. Noi siamo memoria. Sento la necessità di tenere la memoria delle cose che sono passate- il mio stesso lavoro mi guida in questa direzione. La memoria e la vita vanno di pari passo, ricostruendo la nostra autobiografia noi abbiamo coscienza di noi stessi. Questa è una componente molto forte nella mia scrittura.

I personaggi femminili del romanzo non sono delle ‘belle’ persone, tutte queste donne hanno delle ombre, ad eccezione di Rosa. “Chi” è Rosa, la perfetta compagna di Rocco Cavallo?
       Rosa è un personaggio che entra relativamente nella storia. Di lei sappiamo poco ma scommetterei che anche lei abbia le sue problematiche, ha un vissuto di cui non sappiamo molto. Ma sì, è un personaggio positivo. Non entra nella giostra, questo non è il suo mondo. Però ha cose non dette che andrebbero sviluppate. Non escludo neppure che potrebbe assumere un ruolo più rilevante altrove. Rocco Cavallo non si esprime molto nei sentimenti. Ci deve essere qualcosa di irrisolto in Rosa, di certo gli altri personaggi femminili sono più a fuoco e più problematici. Io credo che la donna, da un punto di vista esistenziale, sia più sfaccettata, l’uomo è più semplice. In questo romanzo mi interessava la ricostruzione di Giacomo Riva attraverso la visione delle donne: Giacomo Riva è una promessa non mantenuta… Mi piace che sia un personaggio problematico. Vedendolo da ragazzo non si poteva immaginare, la parabola di un uomo si può ricostruire sui fatti del passato.


Ho letto “Il nome del padre” dopo aver letto “Nel peggiore dei modi”. Avevo conosciuto un Rocco aitante di mezza età e l’ho ritrovato anziano. E’ molto insolito iniziare con un personaggio vicino alla pensione e farlo ringiovanire. Come mai? E’ stato difficile?
     Non è semplice. Ogni epoca della vita di questo personaggio ha sue proprie caratteristiche.. L’idea, ne “Il nome del padre”, era di ricostruire la parabola partendo dal fondo, in effetti è particolare. Mi piacciono i personaggi alla fine della corsa. Anche Calogero, in “Nel peggiore dei modi”, è alla fine della corsa, si capisce che sta abbandonando le armi. Messo come punto fermo dove un personaggio deve arrivare, vado a ritroso.

Dopo aver letto i due romanzi con Rocco, mi sono procurata “L’ordine di Babele”, il suo primo libro. Mi incuriosiva molto l’ambientazione così diversa, in Vietnam, e poi, leggendolo, mi ha riportato in mente l’atmosfera di “Un americano tranquillo” di Graham Greene, che avevo molto amato. Perché il Vietnam?

   Perché le epoche storiche descritte nel romanzo sono momenti di grande passaggio. Mi ha sempre affascinato la storia dell’Oriente e il rapporto tra Oriente e Occidente. Il 1954 è per l’Oriente il passaggio dal colonialismo di tipo patriarcale a quello successivo, di stampo americano. E sì, avevo letto “Un americano tranquillo” nel periodo in cui pensavo di strutturare “L’ordine di Babele”: Graham Greene è uno scrittore che anche io ho amato molto. Ho scritto quel primo romanzo in un lungo arco di tempo, ha avuto una lunga incubazione. Prima è nata la storia dell’Indocina, poi è stato difficile incastrare tutti gli elementi. E, dopo di questo, il tema del tradimento e della vendetta ritorna anche negli altri romanzi.

Può farci qualche anticipazione sul prossimo romanzo con Rocco Cavallo?
     Ho iniziato a scriverlo. Mi interessa la strategia della tensione negli anni ‘60 e ‘70. Mi limito a dire che mi piacerebbe ricostruire dei fatti e fare indagine su un delitto…Nel prossimo romanzo Rocco sarà tra i 50 e i 60 anni, poi la mia idea è di chiudere il cerchio tornando alla fine da dove la serie è iniziata, con Rocco che sta per andare in pensione. Pensavo di scrivere quattro romanzi con Rocco Cavallo, non una serie infinita.

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