giovedì 1 ottobre 2015

INTERVISTA A LAURA LIPPMAN, autrice de "I morti lo sanno" 2008

                           voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                            cento sfumature di giallo


INTERVISTA A LAURA LIPPMAN, autrice de “I morti lo sanno”


Abbiamo incontrato Laura Lippman, autrice di “I morti lo sanno” e famosa negli Stati Uniti per una serie di romanzi che hanno per protagonista Tess Monaghan, giornalista che è diventata investigatrice.

Baltimora è l’ambientazione del suo romanzo: che città è Baltimora? E’ l’ambiente adatto per dei romanzi polizieschi?
    Persin troppo. Vivo in una delle città più violente degli Stati Uniti. A Baltimora ci sono 600.000 abitanti e circa trecento persone all’anno vengono assassinate. Ogni 18 ore qualcuno viene ucciso, circa un giorno sì e uno no, un po’ più spesso, anzi. A metà di novembre c’erano già stati 250 omicidi. La maggior parte riguarda il mondo dei poveri e dei giovani, gente che ha a che fare con la droga o ha la sfortuna di capitare per caso in quegli ambienti. Chi appartiene alla mia sfera sociale può vivere tranquillamente, senza essere sfiorato dal dramma, ma i più poveri sono sempre a rischio. Questa è la mia città, la mia casa, e io scrivo storie di indagine poliziesca perché, a differenza di molti miei amici, non mi vedo distaccata da questo  mondo: ne faccio parte e, in un certo senso, vorrei capirlo meglio.
Alla fine del libro Lei parla di un caso simile, di due ragazze scomparse che però non furono ritrovate, e dice pure che il 1975 era l’anno giusto per la sua storia: perché?
     Volevo scrivere un romanzo ambientato negli anni ‘70, perché sono gli anni in cui sono nata, per me era un tempo affascinante di grandi cambiamenti che riguardarono la famiglia. Era l’epoca in cui per la prima volta si diffuse l’idea che se i genitori non sono felici, neppure i figli possono esserlo, l’epoca che mise l’auto-realizzazione in testa a tutto, “il tempo dell’IO”, della compiutezza del sé. Sì, anche oggi è così, allora era però una ricerca più spirituale e ideologica, ora si parla di una felicità che dipende di più dal consumismo. Quando ho costruito la famiglia del romanzo, ho pensato alla generazione un poco più giovane dei miei genitori, troppo vecchi per godere della libertà della fine degli anni ‘60, abbastanza per ricordare la Grande Depressione e lo spirito di sacrificio. Mi sembrava che, in quei genitori, ci fosse un desiderio inconfessato di essere senza figli, di come poteva essere la loro vita senza figli, e poi il destino gli mostra che cosa in effetti significhi essere privati dei figli.

Mi è parso che ci fosse anche una ragione “tecnica” per la scelta del 1975, per poter rendere più ardua l’identificazione della donna che riappare dopo trent’anni…

    E’ vero, adesso le storie di delitti si basano molto sull’indagine scientifica: io non potrei mai scrivere quel tipo di romanzi. Apprezzo la scienza ma non penso che serva veramente nella letteratura, la scienza non può portare avanti la storia. D’altra parte la maggior parte dei delitti in realtà non vengono risolti dalla scienza ma da detective in gamba che parlano con la gente. A me piace risolvere un’indagine come fosse un puzzle. Per esempio, nel caso delle ragazze Bethany: non potevo semplicemente far sì che un incendio distruggesse la documentazione delle loro dentature, ad esempio. Per il semplice fatto che, per me, il loro dentista era “il mio” dentista di quando era ragazzina e non potevo proprio fargli bruciare lo studio. Ho pensato a mio padre che aveva un’ossessione contro le radiazioni e si opponeva alle lastre del dentista. E se mio padre era così, chissà come era Dave Bethany! Dunque, il 1976 era impossibile come anno perché gli Stati Uniti compivano 200 anni nel 1976 e la gente avrebbe pensato che uno scrivesse un’allegoria degli USA. Il 1974 era pure impossibile perché aveva visto la fine della guerra del Vietnam- non volevo nessun anno con degli avvenimenti a cui non avrei potuto fare a meno di fare dei riferimenti.


Nel 2006 una ragazza austriaca, Natasha Kampusch, rapita all’età di 10 anni, riuscì a fuggire dall’uomo che l’aveva tenuta prigioniera: aveva anche lei in mente, quando ha scritto il libro?
Natasha Kampusch
     Avevo appena finito di scrivere il mio libro quando si è diffusa la notizia di Natasha Kampusch e ho letto avidamente di lei, perché il suo caso non era così diverso da quello del mio romanzo. Ci fu un altro caso che venne reso noto quando avevo già finito di scrivere il romanzo, di un uomo che aveva rapito un bambino di dieci anni e lo aveva tenuto prigioniero. Quando poi il bambino era divenuto troppo “vecchio” per i suoi gusti e non lo interessava più, aveva preso un altro bambino. Fu allora che il primo decise che non poteva permettere che succedesse ad un altro quello che era successo a lui e organizzò la fuga per entrambi. Sono stata una giornalista per tanti anni e scrivo questo genere di libri perché so che la gente legge di queste cose terribili che accadono e pensa che a loro non potrebbero mai accadere. Alcune persone lo fanno in maniera poco umana e comprensiva. Io ho letto di questi due casi e ho pensato, “può succedere, è così”. Lavoro pensando che, se uso una grande empatia, le cose che scrivo saranno credibili. Credo che, se crei un essere umano, un personaggio ben definito, e cerchi di vedere attraverso i suoi occhi, se hai abbastanza empatia, vedrai le cose giuste.

Oltre al personaggio principale, la donna la cui identità è incerta, gli altri personaggi sono l’ispettore di polizia, l’avvocato e l’assistente sociale. Non sono i personaggi tipici del romanzo poliziesco: voleva così mettere in risalto Heather Bethany perché questa è la “sua” storia?
     Avevo in mente un’idea, nello scrivere di Kevin e di Kay, il detective e l’assistente sociale. Volevo mostrare due prospettive- riguardo a Kevin, volevo far vedere che nonostante il successo e la soddisfazione del suo lavoro, lui non cambia molto. Però c’è un breve momento, durante il party, in cui attacca discorso con Kay, ed è conscio di parlare con una donna che non lo interessa sessualmente: ecco, ha imparato una piccola cosa che lo rende diverso. E così Kay, una persona sola che permette al dramma di riempirle la vita. Kay è una lettrice avida e il suo ruolo è di fare da guida al lettore, di essere il doppio del lettore, di farlo pensare “questa è la storia, ma non è la mia storia”.
Quanto all’avvocato, Gloria, appare anche in altri tre miei libri e non è mai il personaggio principale, può darsi che lo diverrà in futuro. Ma non mi interessa quello che passa per la testa di Gloria- è un avvocato che non si lascia toccare dall’emozione nel suo lavoro.

Il suo romanzo dice anche qualcos’altro a tutti quelli che- me stessa inclusa- pensano che il passato era meglio del presente, che nel passato non si doveva essere sempre in guardia come oggi. Pensa che i media concedano troppo spazio alla criminalità oggi, in modo che sembra che quello sia la cosa più importante che accada?

    Sì, penso che abbiamo pervertito il nostro attaccamento alla nostalgia. Vivo in una città che è agganciata alla nostalgia e la nostalgia richiede un’imbiancatura del passato. Sappiamo di più, ci viene detto di più di quello che accade. Ma, come giornalista, mi fa infuriare vedere come i media diano importanza a certi fatti, a scapito di altri. Un esempio: sappiamo tutto della bimba scomparsa in Portogallo - un caso penoso e tristissimo, ma non certamente più importante della guerra in Iraq.


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