mercoledì 17 aprile 2024

Angelo Del Boca, "Italiani, brava gente?" ed. 2005 - recensione e intervista

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

                                                           


    
C’è un punto interrogativo nel titolo del libro dello storico Angelo Del Boca, “Italiani, brava gente?” (ed. Neri Pozza, pagg. 305, Euro 16,00), che innesta il dubbio che la risposta possa essere “no”. Una risposta difficile da accettare, eppure i fatti accertati e documentati da Del Boca, riguardo al periodo storico che va dall’unità d’Italia alla fine della seconda guerra mondiale, parlano chiaro, i numeri sono più eloquenti delle parole, le fotografie archiviate sono un evidente atto d’accusa. E inoltre la realtà degli eccidi perpetrati dagli italiani non è stata neppure tenuta nascosta, anzi è stata all’epoca motivo di vanto, soprattutto durante il fascismo in quanto un comportamento così spietato corrispondeva agli insegnamenti inculcati per un nuovo modello di italiano: disprezzo per l’avversario, assenza di qualunque sentimento di pietà, esaltazione della “bella morte”. Il libro di Del Boca vuole sfatare il mito secondo cui gli italiani sono bonaccioni, gli italiani non sono crudeli, non infieriscono sui nemici, non sono neppure paragonabili agli “altri”, sono sempre stati bene accetti nelle terre occupate. Un mito di comodo e tuttavia allarmante in quanto ci autoassolve e rimuove un passato che va affrontato. I fatti che Del Boca illustra sono divisi in capitoli, come dei flash che rivelano uno scenario di morte in una luce cruda e impietosa. Si parte dalla lotta al brigantaggio dopo l’unificazione (fuorviante quel chiamare “briganti” gli insorti, visto che erano soldati dell’esercito borbonico), per passare poi in Cina, durante la rivolta dei boxer, e alle varie campagne in Africa. Ci sentiremmo meno offesi dalle parole di un Gheddafi se fossimo più informati e ricordassimo la prosopopea del “posto al sole”, il disprezzo contenuto in frasi come quelle del generale Baldissera nel 1888, “l’Abissinia ha da essere nostra, perché tale è la sorte delle razze inferiori; i neri a poco a poco scompaiono, e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli Abissini ma per noi”, l’ignoranza totale della cultura e dei costumi della gente che ci apprestavamo a soggiogare, l’insulto contenuto persino nelle parole delle canzoni in voga, Faccetta nera, bell’abissina

E soprattutto se conoscessimo i nomi dei luoghi di infame memoria, il penitenziario di Nocra (detenuti incatenati su tavolacci, 300 gr. di farina a testa, 10 di tè e 20 di zucchero, acqua salmastra- e razionata- da bere), la piazza del Pane a Tripoli con la forca per le impiccagioni esemplari, i lager (“Soluch come Auschwitz”) in cui Graziani fece deportare 100.000 persone (la metà degli abitanti della Cirenaica), la “liquidazione completa” (la stessa espressione usata dai nazisti) dei monaci di Debrà Libanòs sospettati di connivenza con i ribelli- e la scena è fin troppo simile a quella degli stermini degli ebrei, con le vittime sul ciglio di una fossa in attesa dell’esecuzione: 2033 i morti. E ancora, le responsabilità di Cadorna, lo schiavismo bianco, la pulizia etnica in Slovenia, le 300 tonnellate di iprite sganciate tra il 1935 e il
1936 in Etiopia. Le cifre non hanno bisogno di commenti, l’accurata bibliografia a chiusura di ogni capitolo degli orrori non lascia margine di dubbio sulla veridicità dei fatti. Stilos ha intervistato il Professor Del Boca a Torino, dove vive.

 

Nel capitolo introduttivo del suo libro ci sono citazioni di quello che è stato scritto sull’Italia da visitatori stranieri, a partire dal 1600. E’ sconfortante osservare che quelle osservazioni negative sono le stesse che leggiamo tuttora sulla stampa straniera: dobbiamo pensare che, nelle parole di Heine, “il popolo italiano è intimamente malato e inguaribile”?

     Diciamo subito che anche i giudizi degli italiani sugli italiani non sono confortanti, anzi, forse sono ancora più cattivi, come quelli espressi da Leopardi. Come per tutti i popoli, ci sono delle stigmate, dei difetti che sono difficilmente guaribili. Nelle mie citazioni sono partito dal ‘600, ma sarei potuto risalire anche a prima. E purtroppo, quando capita di uscire dall’Italia e prendere contatto con altri intellettuali, ci si sente dire delle cose che non sono certo belle e che feriscono, soprattutto perché sono vere.

 Lei analizza come un certo tipo di uomo italiano sia stato “forgiato” dall’indottrinamento mussoliniano, dal martellamento di slogan che miravano a creare un modello di uomo forte, spietato, combattivo. Sarebbe possibile forzare un altro tipo di modello, incline allo spirito critico che porta alla disobbedienza come capacità di scegliere?


     Indubbiamente Mussolini è riuscito a creare un italiano duro e brutale ma, verso metà della guerra, parlando con Ciano, aveva osservato, “ahimé, questo italiano è peggiore di quello della prima guerra mondiale”, intendendo che aveva in parte fallito perché gli uomini si mostravano meno audaci. Se Mussolini, usando gli strumenti della sua epoca, è riuscito solo parzialmente a creare un italiano diverso, un italiano non mandolinista e timido, se è riuscito solo nella parte più negativa, a fare cioè un uomo brutale, una macchina da guerra, usando gli strumenti di oggi si potrebbe tentare di fare di meglio. Certo non può farlo Berlusconi, con la sua idea del mondo e della società consumistica. Ne uscirebbe un italiano mediocre, scarso di idee, privo di autocritica. Guardo alle sinistre e mi chiedo quale capacità possano avere. Ci vorrebbero dei decenni, ma le sinistre potrebbero almeno dare agli italiani il senso della misura, un rispetto maggiore per se stessi, una capacità di discutere e dialogare con gli altri. Mi basterebbe già questo.

 Il suo libro rompe un lungo silenzio: pensa che verrà accolto come una doverosa informazione e un equo riesame della storia, o che verrà accusato di voler denigrare l’Italia?

     In genere dopo la pubblicazione di ogni mio libro di storia coloniale ho ricevuto sia lodi sia attacchi. Lodi da chi accettava una revisione della storia e attacchi da nostalgici del fascismo e da elementi conservatori. Non è una sorpresa dunque vedere il giudizio diviso in due. Questa volta però, nelle recensioni pubblicate fino ad ora, non c’è un solo attacco e neppure ci sono obiezioni. D’altra parte è un libro conciso, in calce c’è un archivio che non può essere contestato. Che poi il libro possa servire a mutare delle opinioni su alcuni fatti- me lo auguro. Il libro contiene un messaggio preciso: non dobbiamo assolutamente accettare il titolo del libro, non ci meritiamo questa definizione così decisa, così sicura, non siamo “brava gente”. Spero che smetteremo di autoassolverci come abbiamo sempre fatto.

 Pensa che, inquadrando le azioni di violenza commesse dagli italiani in Africa e altrove nell’atmosfera del tempo, nel contesto della guerra, sia possibile renderle accettabili o per lo meno comprensibili?

     Secondo me in tutte le conquiste in Africa e in Asia, le violenze erano scontate, soprattutto dopo che, nel congresso di Berlino del 1884, si era codificata la spartizione dell’Africa. La violenza è ammessa, ma c’è uno spartiacque, ed è quello delle violenze inaccettabili che io documento. Ho fatto una scelta di episodi limite. Capisco che un esercito faccia una guerra per impadronirsi di territori, ma che bisogno c’era di usare l’iprite quando c’era già una superiorità di armi? Lì vedo la violenza, la barbarie inaccettabile.

 Perché non c’è stato nessun tribunale per i crimini di guerra italiani?


      Qualcuno ci ha tentato- nel 1946 Hailé Selassié ha inviato alle Nazioni Unite l’elenco di 970 criminali di guerra italiani chiedendo venissero sottoposti a processo. La cosa tragica è che, a impedire a Hailé Selassié di mantenere questo impegno, sono stati gli americani. Erano loro che mantenevano il paese in vita e con un preciso ricatto hanno impedito ad Hailé Selassié di fare un processo- avrebbero sospeso gli aiuti se avesse insistito a chiedere l’estradizione di quei personaggi. Gli americani non avevano interesse che venisse processato un Badoglio che per loro era un primo ministro che si era schierato a fianco degli alleati. Anche Tito ha fatto un elenco delle persone da estradare per processarle, ma gli è stato impedito da Roma e gli italiani hanno fatto un controelenco in cui il primo da processare era Tito. In realtà gli italiani non hanno voluto una loro Norimberga: se avessero chiesto l’estradizione di tutti i tedeschi criminali di guerra, nel momento in cui si cercava di portare la Germania dalla nostra parte, non sarebbe piaciuto né agli americani né all’Occidente. Così non c’è un solo criminale di guerra italiano che sia stato condannato. Soltanto Graziani ha avuto 19 anni ma ne ha scontato di meno per amnistie varie, e Graziani era non solo Ministro della Guerra di Salò, ma anche il “macellaio” degli africani.

 Nel libro si parla di Montanelli, di come abbia sempre negato le azioni criminose italiane in Africa, compreso l’uso dei gas: era in buona fede?


      Penso che fosse in buona fede quando è andato volontario in Africa. Non so invece, quando continuava a insistere con me- e la polemica è durata 35 anni- dicendo che lui c’era e non aveva mai sentito l’odore di mostarda del gas, che l’iprite non era mai stata usata. Più di una volta gli avevo  indicato i faldoni negli archivi italiani con i documenti che provavano il contrario. Mi accusava di essere antiitaliano e fazioso. Dopo 35 anni di queste battute, ho suggerito un arbitro a dirimere la questione: Susanna Agnelli, che era Ministro degli Esteri, e il generale Corcione, Ministro della Difesa. Dopo una serie di interrogazioni alle Camere, il ministro Corcione ha fatto una dichiarazione che demoliva la tesi di Montanelli: il nostro esercito aveva usato i gas in maniera continuativa e massiccia. Allegava alla dichiarazione il rapporto in cui Badoglio dichiarava che, dopo la battaglia di Amba Aradam, aveva scagliato tutta l’aviazione dell’Eritrea sull’esercito in fuga di Ras Mulughietà e aveva scaricato 60 tonnellate di iprite. Montanelli, da galantuomo, ha accettato la sconfitta e nella sua rubrica ha scritto “i documenti mi danno torto”, chiedendo scusa a me  e ai lettori. E’ stata un’ammissione importante, eppure ancora oggi tanti sono convinti che siano tutte fandonie, che noi italiani siamo brava gente.

 C’è un capitolo un po’ anomalo nel libro, quello sul generale Cadorna.

     Non è poi tanto anomalo, perché, dovendo elencare una serie di violenze al limite, Cadorna assomma in sé due forme di criminalità: nelle 12 battaglie dell’Isonzo ha mandato a morire centinaia di migliaia di soldati non perché avesse una precisa idea strategica, ma perché si era intestardito ad usare quei disgraziati come maglio contro le fortificazioni austriache. Questo è il primo grosso addebito che gli faccio, pure pensando ad altri generali che hanno usato gli uomini come carne da cannone. Ma c’è un’altra cosa da addebitare a Cadorna: la proibizione a che lo Stato italiano invii viveri ai prigionieri in Austria, al punto che 100.000 nostri soldati sono morti di fame e di stenti, mentre Francia e Inghilterra hanno inviato pacchi in maniera continuativa e hanno avuto un numero di decessi di gran lunga inferiore. Perché? Per creare una tale paura di cadere prigionieri da spingere i soldati a combattere fin all’estremo.


 C’è una somiglianza tra la velleità di portare la civiltà in Africa nel periodo coloniale e la presunzione di portare oggi la democrazia in Iraq e in Afghanistan?

     Certo che c’è una somiglianza: è una continuazione di questa presunzione dell’Occidente di possedere la verità e sapere quello che è bene, e la mistica di doverlo portare agli altri a prezzo di enormi sacrifici dei nostri, in cambio naturalmente di ricchezze materiali.

 C’è stato qualcosa di buono, di costruttivo, di civilizzatore, che hanno fatto gli italiani all’epoca delle conquiste in Africa?


     Non possiamo dire che sia stato un grosso regalo fatto agli africani, di aver costruito strade, ospedali, qualche scuola: finché eravamo là, servivano agli italiani. Penso che, se qualcosa di positivo è stato fatto, più che i governi siano stati i singoli italiani a farlo. Molti italiani hanno contribuito allo sviluppo di questi paesi, in particolare in Libia, facendo una specie di scuola di lavoro ai libici che erano alle loro dipendenze, anche se con risvolti di interesse. Invece nel Web Shebeli, in Somalia, gli indigeni che lavoravano nella piantagione erano trattati veramente come schiavi, tanto che lo stesso federale fascista Serrazanetti denunciò queste violenze a Mussolini in tre rapporti. Per quanto riguarda l’Etiopia, è probabile che la presenza italiana abbia in un certo senso inciso favorevolmente sullo sviluppo agricolo, lo ammettono anche alcuni storici etiopi.

 Che tipo di legame aveva creato l’esercito italiano con i corpi degli ascari?

     Gli ascari sono stati i reparti più fedeli all’esercito italiano, si sono svenati per gli italiani, ne sono morti 50.000 per l’Italia, in varie guerre. Durante la rioccupazione della Libia, dopo il ‘21,  i reparti erano quasi tutti di ascari. Graziani usava questi soldati per le loro capacità combattive, perché sapevano adattarsi meglio al terreno e al clima. A Cheren nel ‘41, durante l’offensiva inglese contro gli italiani, gli ascari hanno avuto più perdite che gli italiani. Eppure sapevano che la guerra era finita anche per loro.


 Perché questa dedizione estrema?

    Per fedeltà, perché speravano che l’Italia avrebbe dato loro una certa autonomia, combattevano per una pre-indipendenza. Devo dire che nel protonazionalismo eritreo c’è un coefficiente dato da questa dedizione degli ascari agli ideali italiani. E dire che gli ultimi ascari, ormai poche decine, hanno avuto una liquidazione finale di pochi soldi, invece della pensione.

Recensione e intervista sono state pubblicate nel 2005 dalla rivista letteraria "Stilos"

 

                                                                                          

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