giovedì 24 febbraio 2022

Max Gross, “Lo shtetl perduto” ed. 2022

                              Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

      Diaspora ebraica
     ucronia

Max Gross, “Lo shtetl perduto”

Ed. e/o, trad. Silvia Montis, pagg. 406, Euro 25,76

    Uno shtetl? Perduto? Quanti ‘goy’, non ebrei, sanno ancora che cosa era uno shtetl? E in che senso perduto?

Ce lo dice Max Gross, giovane scrittore americano, in questo romanzo tra ucronia, commedia, Storia vera e Storia possibile o impossibile.

    Supponiamo che un villaggio ebreo, in un’area lontana dalle vie di comunicazione in Polonia, non registrato su nessuna mappa (le motivazioni per questo ci verranno date nel corso del romanzo), sia sfuggito a tutti i rastrellamenti, si sia sottratto a quella enorme tragedia che è stata la Shoah.

    Immaginiamo un personaggio del tipo di John di “Coraggioso nuovo mondo” di Huxley, di Candide, di Gulliver, dello yankee di Mark Twain, precipitato però, non come questo in un mondo passato ma nel nostro mondo contemporaneo dopo essere rimasto ancorato ad una realtà vecchia di cento anni- si chiama Yankel Lewinkopf questo personaggio, il mamzer, il bastardo, il giovane di cui lo shetl può fare a meno (nel caso gli succeda qualcosa), protagonista de “Lo shtetl perduto”.


   Il romanzo inizia, però, con una storia di amore che amore non è, piuttosto di un matrimonio improbabile fin dall’inizio, tra la bellissima Pesha e Ishmael. Un legame così infelice che, a torto o a ragione, dopo scene da tragicommedia, Pesha chiede il divorzio. Lui glielo rifiuta. Lei lo ottiene e poi fugge da Kerskol per sottrarsi alle sue ire. Scompare anche lui, il marito. E se l’avesse uccisa? Bisogna denunciare il fatto alle autorità.

   Ecco che entra in campo il mamzer che viene mandato nella città più vicina a seguito della carovana di zingari che gli faranno strada.

   Le avventure di Yankel in città sono un piccolo romanzo a sé, esilaranti, ricche di humour- in un certo senso la scoperta di un mondo che Yankel non ha gli strumenti per capire, a cui non è stato preparato attraverso passaggi graduali, è una scoperta anche per noi lettori attraverso la lente dell’ingenuità e della curiosità. Le automobili, prima di tutto. Come fanno a spostarsi da sole? E poi tutto, proprio tutto. Televisori e telefoni, lavatrici, capi di abbigliamento a dir poco scostumati all’occhio di Yankel, Coca-cola e il cibo che gli viene offerto (lui non si azzarda a mangiare nulla: sarà kosher? e che cosa significa kosher, ribattono gli altri) e tutte le centinaia di cose a cui siamo abituati e a cui neppure facciamo caso. La lingua, poi. Yankel parla yiddish, ha solo imparato a memoria un paio di frasi in polacco.


   Finirà che, per un incidente, Yankel è ricoverato in ospedale e diventa oggetto di studio da parte dei medici, proprio come, in seguito, l’intero shtetl diventerà oggetto di studio, quando, in una scena grandiosa, quello che pare un uccello di ferro riporta Yankel a Kerskol. È forse il Messia l’uomo barbuto che lo accompagna?

    Immaginiamo un intero paese che non sa nulla di Ben Gurion, di Israele, di Trump. Non sa niente di niente. Tantomeno sa di Hitler e dello sterminio degli ebrei. Questo è il punto cruciale del libro. Perché la grandiosità del Male è incomprensibile per i buoni ebrei di Kerskol. Yankel aveva liquidato la faccenda giudicandola impossibile- ma come? non ci sono più ebrei in Polonia? in Europa? Solo il sopravvissuto con i numeri tatuati sul braccio (un altro piccolo romanzo dentro il romanzo), che arriva in paese e racconta storie che spaventano i bambini, riuscirà in parte a convincerli. Solo le fotografie delle cataste di cadaveri ci riusciranno. E qualcuno finirà quasi pazzo dopo aver appreso della Shoah.


   Si metteranno in moto i meccanismi per colmare i cento anni di arretratezza per portare Kerskol nella contemporaneità. È davvero a loro vantaggio?

Nel frattempo, mentre una piccola rivoluzione è in atto a Kerskol, la storia della fuggitiva Pesha (facile indovinare che cosa si sia ritrovata a fare per vivere) prosegue e arriva ad una conclusione, chiudendo il cerchio in un finale disturbante con il ricordo di una Yiddishland perduta.

     Offre molti spunti di riflessione, il romanzo ‘e se…?’ di Max Gross- sul senso di identità e appartenenza, sui valori o non valori della modernità, sulla religiosità e sulla lingua. Soprattutto mette in luce il pericolo di negare la tragedia del passato, perché, mentre scompaiono gli ultimi testimoni, l’enormità di quanto è accaduto può sempre più sembrare impossibile, un’invenzione di menti amanti del macabro.

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