martedì 19 novembre 2019

Zoya Pirzad, “Spengo io le luci” ed. 2019


                                                            Voci da mondi diversi. Iran
      storia di famiglia

Zoya Pirzad, “Spengo io le luci”
Ed. Brioschi, trad. A. Vanzan, pagg. 364, Euro 20,00

    Abadan, cittadina sul confine tra Iran e Iraq, sede di un’importantissima raffineria di petrolio che fu distrutta nei primi anni ‘80 durante la guerra con l’Iraq e poi ricostruita. Fa sempre caldo, ad Abadan, grazie alla sua posizione sul golfo Persico, contrariamente al resto dell’Iran. Il tempo della storia del romanzo di Zoya Pirzad non è definito se non da accenni che ci fanno capire che è prima della rivoluzione, che ci sono fermenti sociali e insoddisfazione per le disuguaglianze del regime dello Scià (mai menzionato). Le donne non hanno il capo coperto, non portano l’abaya, indossano abiti corti e senza maniche- oggigiorno è un sogno del passato. Senza tempo sono pure le vicende della famiglia, raccontate in prima persona da Claris- una donna giovane che racconta una vita quotidiana fatta di cure ai figli e al marito, di colazioni e merende, di cene per ospiti che si autoinvitano, di nuovi vicini di casa. Potrebbe essere una trama come tante, ma non lo è. Ci irretisce subito e, mentre Claris termina la fiaba serale alle figlie gemelle con il refrain, e dal cielo caddero tre mele: una per chi ha visto, una per chi ha raccontato, una per chi ha ascoltato, ricordiamo di aver letto le stesse parole nel bel libro della scrittrice armena Narine Abgarjan- Claris e Artush (ingegnere impiegato nella raffineria petrolifera) sono armeni, lo sono tutti i loro amici, ce lo rivelano i cognomi terminanti in ian, le usanze e i cibi (come il pane lavash), una piccola comunità che parla armeno ed è legata con un filo sottile alla madrepatria.
chiesa armena di Abadan
    Claris e Artush sono sposati da diciassette anni, hanno tre figli, un maschio adolescente e le bambine gemelle. La madre e la sorella di Claris fanno parte della famiglia, sono sempre presenti. Si scherza sulla golosità di Alis, sorella di Claris, sul suo gettare un occhio su ogni uomo libero da poter sposare. Sembra quasi di leggere Jane Austen in versione armeno-iraniana. Il nuovo vicino di casa non si chiama Darcy ma Emile Simonian. È vedovo, ha una madre autoritaria e altera, una figlia che diventa amica delle gemelle e che si rivela cattiva- proprio cattiva, spingendo amici ed amiche a compiere azioni riprovevoli. Ma Emile è affascinante, è sensibile e garbato, pieno di attenzioni, il contrario di Artush. È lo stereotipo del possibile amante vs marito? Poco importa. Claris non è la prima moglie un poco frustrata ( e non sarà l’ultima) a sentirsi attratta da un altro.
      La penna di Zoya Pirzad scorre leggera, il tono è vivace, la voce di Claris è autoironica, amiamo sentirla parlare di sé sdoppiandosi e facendosi da sola censura e autocritica, attenta alle necessità della famiglia, preoccupata dall’amore adolescenziale del figlio, dubbiosa e poi contenta per la sorella quando un improbabile pretendente olandese compare sulla scena, gelosa irrazionalmente (e lo riconosce) della bella bionda divorziata che è arrivata da Teheran.
moschea di Abadan
L’apice e il punto di svolta del romanzo è un avvenimento insolito che acquista un significato metaforico: un’invasione di cavallette che lasciano gli alberi spogli e coprono il terreno di un tappeto scuro di piccoli cadaveri. E Claris non osa dire a nessuno che non si è spaventata perché non era sola in casa. MA. Mors tua vita mea. Qualcosa finisce, qualcosa incomincia. La paura e lo sfacelo causati dalle cavallette sono la ricchezza dei poveracci che vengono a raccoglierle con grossi sacchi: le venderanno, le cavallette arrosto sono un cibo prelibato. E la fine del romanzo sarà fonte di lacrime e di sospiri di sollievo.

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