Tolkien non era ancora stato tradotto in italiano. L'attore che impersona Frodo sul grande schermo non era ancora nato. Leggevo in inglese "Il signore degli anelli", c'era un temporale, era saltata la luce. Ricordo di avere acceso una candela ed aver proseguito la lettura: per me quell'immagine- io che leggo a lume di candela- è diventata il simbolo della mia passione. Io leggo, sempre, ovunque. E amo parlare di libri, per farli amare dagli altri.
giovedì 25 dicembre 2025
mercoledì 24 dicembre 2025
Laura Imai Messina, “Le parole della pioggia” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Giappone
Laura Imai Messina, “Le parole della pioggia”
Ed.
Einaudi, pagg. 132, Euro 16,00
L’idea della donna-ombrello era venuta ad un
anziano dirigente alle soglie della pensione. Aveva pensato che sarebbe stato
bello organizzare un servizio che avrebbe offerto un accompagnamento con
l’ombrello a chi ne era sprovvisto ed era stato sorpreso dalla pioggia. Sarebbe
stato bello fare la strada sotto l’ombrello di una donna, invece che affannarsi
in un combini per comperare un
ombrello da quattro soldi. E così era nata l’agenzia, fare la donna-ombrello
era diventato un vero lavoro. C’era una sorta di parola d’ordine con cui esordivano
le donne con un grande ombrello aperto, in attesa del cliente che le aveva
prenotate. Era la frase “Sono nata in un giorno di pioggia”, perché dovevano
farsi riconoscere.
È qualcosa di diverso da un romanzo, “Le parole della pioggia” di Laura Imai Messina. È piuttosto una favola, un racconto leggero, fresco come la pioggia di aprile. In quella incredibile lingua giapponese che Laura Imai Messina, la scrittrice italiana che vive in Giappone da una ventina di anni, ci ha insegnato ad amare rivelandoci la ricchezza di parole, la sottigliezza delle sfumature di significato e il ‘segreto’ che si cela dietro la scelta dei kanji, non c’è una sola parola per dire ‘pioggia’. C’è la pioggia del cuore che suggerisce un turbamento interiore, c’è la pioggia profumata (chi di noi non ha sentito come se i polmoni si allargassero, respirando il profumo che sale dal terreno dopo una pioggia di primavera?), c’è la pioggia dell’inquietudine e la pioggia sottile come il pelo di gatto, c’è la pioggia abitudinaria (è quella che cade frequentemente, quella che ci stanca) e la pioggia demoniaca (viene giù con forte intensità), la pioggia di sakura o dei fiori di ciliegio che cade insieme ai petali (immaginate la meraviglia di guardare questa pioggia rossa attraverso un ombrello trasparente). Ci sono tanti tipi di ombrello- la provvista di ombrelli viene aumentata regolarmente, le donne-ombrello sono invitate a comprarlo, se ne vedono uno insolito o particolarmente bello. E deve essere grande, per riparare due persone.
Non c’è una trama vera e propria in questo libro che ha la pioggia come protagonista principale e una donna-ombrello che acquista una maggiore importanza- è Aya, l’unica che è nata veramente in un giorno di pioggia e che ha una storia d’amore delicata con Toru, il giovane pugile che si allena a correre per la strada più ripida della città. Non vince, Toru, ma nella vita non è necessario vincere sempre, anche chi cade ha una lezione da impartire.
Di
che cosa parlano, la donna-ombrello e il suo cliente, camminando sotto la
pioggia? Parlano di niente e di tutto, ma in ogni caso quello che si dicono
deve restare un segreto e solo ogni tanto le donne-ombrello accennano a
qualcosa, a qualche confidenza. Il ruolo delle donne-ombrello si fa duplice,
impedire che il cliente si bagni e impedire che si tenga pensieri e
preoccupazioni solo per sé, perché è facile parlare con una sconosciuta che non
si rivedrà più. E poi Tokyo ha una bellezza insospettata sotto la pioggia, è
come se ci fossero più di una sola Tokyo nei riflessi delle pozzanghere o
attraverso una cortina di acqua.
Bellissime e suggestive le illustrazioni di
Emiliano Ponzi.
sabato 20 dicembre 2025
Ragnar Jónasson e Katrín Jakobsdóttir, “Reykiavík” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Islanda
cento sfumature di giallo
Ragnar Jónasson e Katrín Jakobsdóttir, “Reykiavík”
Ed. Marsilio, trad. Irene Gandolfi, pagg. 266, Euro 18,00
Un caso freddo nella fredda Islanda. Sembra
un gioco di parole, ma è veramente un ‘cold case’ quello della quindicenne Lára,
scomparsa nel 1956, archiviato forse troppo in fretta e ‘ripescato’ trent’anni
dopo da un giovane giornalista ambizioso.
Nessuno, in Islanda, aveva dimenticato Lára,
tutti ne conoscevano l’aspetto, come appariva in quell’unica foto che era stata
divulgata, occhi e capelli scuri, abitino con le maniche corte. Tutti
preferivano pensarla ancora viva, fuggita chissà dove, chissà perché.
Lára aveva accettato un lavoro estivo presso una coppia nota ed abbiente sull’isola di Viđey, a pochi minuti di traghetto da Reykiavík. Una sua cugina aveva lavorato presso l’avvocato Óttar e la moglie Ólöf l’estate precedente e si era trovata bene. Quel fine settimana i suoi genitori avevano aspettato invano la sua solita telefonata e al lunedì ne avevano denunciato la scomparsa. Il detective Kristián Kristiánsson era andato sull’isola, aveva fatto le domande di rito all’avvocato e alla moglie- avevano solo saputo dirgli che Lára aveva dato le dimissioni all’improvviso, e no, non sapevano perché, non sapevano neppure se e come fosse tornata a Reykiavík. Una telefonata di un suo superiore aveva intimidito il giovane detective con un rimprovero neppur tanto velato per aver fatto ‘strane domande’ a Óttar e alla moglie. L’indagine era finita lì, anche se ogni dieci anni la stampa ridava voce alla domanda di che cosa fosse successo alla ragazza, anche se Kristián aveva saputo di altre persone presenti sull’isola, ospiti dell’avvocato, tutte persone in vista, tutte intoccabili.
Trent’anni dopo la scomparsa- è l’agosto
del 1986- un giovane giornalista si interessa di nuovo al caso. Sogna uno
scoop, gli sono arrivati altri brandelli di informazioni da fonti che
preferiscono restare nell’ombra. Reykiavík è in fibrillazione- ci saranno i
festeggiamenti per i duecento anni dalla fondazione, ci sarà una torta lunga
duecento metri, la televisione avrà un nuovo canale di trasmissioni, e poi la
città ospiterà l’incontro del presidente Reagan con Gorbaciov che porrà le basi
della fine della Guerra Fredda. E, nella folla che si riversa nelle strade, il pericolo
è in agguato.
Di Ragnar Jónasson abbiamo già letto la serie “Misteri d’Islanda” e “la trilogia di Hulda”, “Reykiavík”, però, è un giallo a quattro mani, scritto insieme a Katrín Jakobsdóttir, un master in letteratura islandese e primo ministro d’Islanda dal 2017 al 2024.
Nella postfazione gli autori raccontano come sia nata l’idea del libro, come condividessero i ricordi degli anni ’80, un periodo felice e spensierato, un decennio di crescita per l’Islanda, come abbiano consultato i quotidiani dell’epoca. Questo loro interesse per quegli anni si rispecchia chiaramente nel romanzo che ricrea l’atmosfera dell’isola e della capitale con ricchezza di dettagli. E, se la trama è di per sé banale, l’abilità degli scrittori tiene i lettori con il fiato sospeso non tanto sul crimine in sé, ma sull’interrogativo che gli islandesi stessi si sono posti per trent’anni- una ragazza con le valigie non può essere scomparsa nel nulla, a tutti piacerebbe che fosse viva e vegeta in America, ma non è possibile.
La narrazione procede spedita, senza inutili lungaggini, perfetta per un romanzo di indagine poliziesca- anzi, di indagine giornalistica.
lunedì 15 dicembre 2025
Hilary Mantel, “Cambio di clima” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
Hilary Mantel, “Cambio di clima”
Ed.
Fazi, trad. Giuseppina Oneto, pagg. 372, Euro 19,00
È appena stato
pubblicato dalla casa editrice Fazi, a cui dobbiamo essere grati, “Cambio di
clima”, un romanzo di Hilary Mantel del 1994, un romanzo ‘non storico’ che è
stato giudicato come uno dei migliori libri degli anni ‘90.
Nel 1980 Ralph e Anna Eldred vivono nel Norfolk in una grande fattoria ristrutturata, ‘la Casa Rossa’, con i quattro figli. Cresciuto in una famiglia molto religiosa, Ralph è responsabile di un istituto di beneficienza e ogni estate ospita dei ‘casi penosi’- ragazzi sbandati, drogati, senza una famiglia e senza una casa- nella speranza di poter essere d’aiuto offrendo loro un ambiente familiare e una vita sana lontano dalla città. Sono degli idealisti, Ralph e Anna? Di certo lo erano quando, una ventina d’anni prima, erano partiti per il Sud Africa dove erano stati mandati a lavorare nella missione di una township, una delle aree urbane in cui abitavano solo i cittadini non-bianchi. Erano gli anni dell’apartheid, per Ralph e Anna era impossibile non prendere posizione contro leggi estremamente discriminatorie, al limite del disumano. Erano stati arrestati, messi in prigione e poi espulsi dal paese. Se non volevano tornare in Inghilterra, dovevano accettare di andare nel Bechuanaland (oggi Botswana). Avevano trovato ancora più miseria, servitori inaffidabili, diffidenza, malanimo. Lì erano nati i primi due figli, due gemelli, maschietto e bambina.
La narrativa si sposta tra il presente e il
passato, quello che succede adesso, nel 1980, è conseguenza di un passato
dolorosissimo che viene mantenuto segreto, in famiglia e a noi lettori. Ed è un
segreto tragico che suppura, che influenza i rapporti tra Ralph e Anna, tra
Anna e i suoi figli. Anna non è più la ragazza fiduciosa che era partita per
l’Africa, contenta di allontanarsi dai genitori. C’è come un’ombra dentro di
lei, c’è un tarlo, una tristezza che viene fatta passare per un mal di cuore,
perché è la cosa più facile da dire. E poi non è neppure falso, lei ha male al cuore.
Il libro iniziava con la scena di un funerale- era morto l’immobiliarista che aveva venduto la Casa Rossa agli Eldred. Ralph aveva appreso da poco che il morto era stato per anni l’amante di sua sorella. Era un segreto che tutto il paese sapeva (tranne Ralph), anche la moglie sapeva (beveva per consolarsi). Sembra un dettaglio marginale e invece- lo capiremo dopo- introduce due temi del libro, i segreti che nuocciono a tutti e il tradimento, tradimento che ha tanti aspetti, tradimento di ideali, di fiducia, di amore, di aspettative. E con il tradimento torna fuori un altro tema, quello del perdono. Dimenticare vuol dire perdonare? Oppure si può perdonare senza dimenticare? Perché, si può perdonare l’indicibile, il male assoluto?
È uno dei ‘casi penosi’ a portare al punto
di svolta del romanzo, una ragazzina difficile che gli Eldred accolgono come
ospite, che riesce a fuggire, che mette in moto l’azione della polizia, che
scoperchia uno dei tanti segreti, uno dei tradimenti. E c’è un altro ‘cambio di
clima’ in casa Eldred, ed è il secondo cambio di clima (se per clima intendiamo
anche quello dei rapporti in famiglia) in pochi giorni, dopo il cambio di clima
che aveva portato Ralph e Anna in Africa e poi quello che li aveva riportati in
Inghilterra. Come ci si abitua al cambio di clima atmosferico e metaforico?
Come reagiscono corpi e animi e sentimenti?
È un libro molto bello, come tutti i libri
che aggiungono qualcosa di straordinario e fuori dal comune ad esperienze e
storie del tutto ordinarie, che ti fanno riflettere, che sono profondi senza
tediare.
martedì 9 dicembre 2025
Arturo Pérez-Reverte, “Il problema finale” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Penisola iberica
cento sfumature di giallo
Arturo Pérez-Reverte, “Il problema finale”
Ed.
Settecolori, trad. Bruno Arpaia, pagg. 346, Euro 23,00
Un divertissement. Oppure un entertainment,
come lo definirebbe Graham Greene. Un ‘giallo’ letterario. Un thriller del
genere della ‘camera chiusa’. Un omaggio ad Agatha Christie e a Sir Conan
Doyle. Un pastiche. Un’antologia di citazioni di Sherlock Holmes. Un mystery
stuzzicante per il lettore. Una strizzata d’occhio a grandi attori del passato.
Arturo Pérez-Reverte ritorna sulla scena narrativa con un romanzo che è una
lettura piacevolissima e divertente.
È il 1960. Una tempesta ha bloccato nove turisti nell’albergo sull’isola di Utakos, di fronte a Corfù. Al lettore viene immediatamente in mente quel capolavoro di Agatha Christie che è “Dieci piccoli indiani”. Il libro di Pérez-Reverte non finisce con ‘e poi non rimase nessuno’, non c’è neppure una filastrocca che serve da linea guida, ma di certo c’è un legame nella sequenza dei morti assassinati che inizia con un apparente suicidio, quello di una signorina inglese che viaggia con un’amica. La situazione è tipica del delitto ‘impossible’- la porta di un capanno sulla spiaggia chiusa dall’interno, una corda, una sola traccia di orme sulla sabbia. Eppure l’io narrante che verrà investito dell’incarico di indagare su questa morte, nell’impossibilità della polizia greca di raggiungere l’isola, non è affatto convinto che si tratti di un suicidio. Viene naturale affidare a lui questo compito, nello sconcerto generale. Perché è un volto noto a chiunque frequenti le sale cinematografiche, è un attore ormai sul viale del tramonto, ma lui è Sherlock Holmes.
Aver impersonato il più famoso investigatore fa sì che abbia assimilato la sua tecnica e il suo fiuto investigativi, che si muova, guardi, ascolti, si comporti come se fosse Sherlock Holmes. E se Holmes aveva bisogno della cocaina per aguzzare l’intuito, Hopalong Basil (il suo vero nome è Ormond) si trattiene con una ferrea autodisciplina, ma le bottiglie dietro il bancone del bar sono come le sirene per Ulisse per lui. Accanto a Basil/Sherlock spunta naturalmente il dottor Watson nei panni di uno scrittore di gialli da quattro soldi, anche lui ospite prigioniero dell’isola.
Lo scrittore e l’attore, colui che inventa
delle trame e colui che le porta in scena- è come leggere un romanzo dentro un
romanzo, tra i fatti che succedono nell’albergo, un secondo, un terzo morto, e
i rimandi letterari, la schermaglia a battute di frasi o ricordi di situazioni nei
libri di Conan Doyle o in film in cui recitava Ormond, le allusioni dettagliate
a incontri o bevute insieme ad attori come Cary Grant o Tyrone Power o Ava
Gardner, o perfino Sophia Loren.
Sir Arthur Conan -Doyle
“A volte la vita imita l’arte”, dice il
personaggio scrittore a Ormond che osserva che il suo è un ruolo romanzesco
come investigatore sull’isola. Ed è proprio il caso di dire così, quando ogni
delitto viene inscenato come se fosse tratto da un romanzo già letto. E che
fare della famosa frase che è diventata un cliché, ‘l’assassino è il
maggiordomo’, per indicare che il colpevole è qualcuno a cui non penseremmo
perché fuori dal giro? Ne “Il problema finale” dovremo aspettare anni per
sapere chi è l’assassino, dopo colpi di scena e sorprese, dopo la fine della
tempesta che sembra essere diventata una tempesta metaforica, con la calma che
significa sia l’arrivo della polizia sia il commiato dai personaggi.
Un piccolo appunto sulla veste grafica del
libro- che piacere leggere di nuovo un libro con copertina rigida, una
rilegatura simile a quelle di un tempo e una bella carta. Sembra un’edizione in
stile con i personaggi.
giovedì 4 dicembre 2025
Antonio Manzini, “Sotto mentite spoglie” ed. 2025
Casa Nostra. Qui Italia
cento sfumature di giallo
Antonio Manzini, “Sotto mentite spoglie”
Ed.
Sellerio, pagg. 546, Euro 17,00
È quasi Natale, questo Natale snaturato di
oggi, fatto di consumismo, luci che non rallegrano, sdolcinati canti agli
angoli delle strade.
E, a
tutto questo si aggiunge che, in un’Aosta dove fa freddissimo e Rocco Schiavone
si intestardisce a indossare il loden e calzare le Clarks, si succedono in
breve tempo una rapina in banca, il ritrovamento di un cadavere in un laghetto
di montagna e la denuncia della scomparsa del marito dall’ex-moglie. È proprio
il caso che Rocco rettifichi la sua lista di massime rotture.
Incominciamo dalla rapina che ha risvolti comici per la maniera in cui i rapinatori riescono a farla franca facendosi beffe del vicequestore Schiavone- è la prima scena e la più rappresentativa in cui c’è un chiaro riferimento al titolo, ‘sotto mentite spoglie’. Il portare una maschera ritorna lungo tutta la narrativa- ci sono personaggi che assumono un altro nome e un’altra identità, ci sarà un commissario che, con una barba posticcia, si camufferà per tendere una trappola, c’è un qualcosa di cui si parla come di una bauta, maschera in veneziano, e che deve essere il nodo di tutto quello che accade (perché, ad un certo punto, diventa chiaro che i fatti che apparivano slegati sono invece collegati tra di loro), c’è infine Rocco che ormai indossa sempre la maschera di uomo scorbutico e cinico e piange dentro di sé.
L’inizio del nuovo romanzo di Antonio
Manzini riprende la narrazione da quello precedente- la giornalista Sandra è in
ospedale e Rocco va ogni giorno a chiedere notizie di lei. Sandra, però, è
fidanzata, la loro storia avrebbe potuto essere e non è stata, perché, anche se
la moglie morta non gli appare più spesso come un tempo, anzi, se non gli
appare affatto, Rocco vive nel passato, incapace di lasciarselo alle spalle.
Preferisce i legami passeggeri, come quello con la biologa che frequenta adesso
e che non richiede alcun impegno da parte sua. E tuttavia c’è in Rocco un filo
di amarezza, di rimpianto, di nostalgia di una possibile felicità perduta.
E poi Rocco viene travolto dai nuovi avvenimenti- perché soltanto una cassetta di sicurezza era l’obiettivo dei ladri? Chi era il morto nel lago? L’identificazione è difficile, sarà il tagliandino di una tintoria sulla giacca che aiuterà a dargli un nome. La trama ci porta dalla Val d’Aosta al Senegal e qui iniziamo a intuire che si tratta di qualcosa di losco, di terribilmente ‘sporco’, perché si parla di squadre di calcio di ragazzini di colore, di un qualche prodotto farmaceutico, di grossi guadagni, di necessità di segretezza.
La lettura di un libro di Antonio Manzini è
sempre piacevole e mai banale, è vivace e ricca di humour. Il protagonista
cambia lentamente, come è giusto che sia, nel corso degli anni, forse riesce
perfino ad abituarsi alla città in cui è stato relegato. Il nocciolo della
trama di questa sua ultima opera riguarda un problema scottante e di grande
attualità di cui non mi è concesso dire altro.
Un
solo appunto: un centinaio di pagine in meno avrebbero reso la narrativa più
scattante.
mercoledì 3 dicembre 2025
Bak Sulmi, “Piccoli inganni crudeli” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Corea
cento sfumature di giallo
Bak Sulmi, “Piccoli inganni crudeli”
Ed.
Longanesi, trad. M.L. Gialloreti. Pagg. 208, Euro
Seoul. Mira. Yujae. Yuchon. Jiwon. Sono
questi i quattro personaggi che ci offrono quattro diversi punti di vista dei
tragici avvenimenti che formano la trama del thriller psicologico di Bak Sulmi,
un romanzo che contiene molta violenza, nei confronti sia delle persone sia degli
animali. C’è anzi da chiedersi se tutta questa violenza, che è spesso un tratto
caratteristico dei film coreani, sia qualcosa di molto diffuso- per motivi che
ci riesce difficile capire- nella società coreana.
Il libro inizia con una lettera di Mira a
Jiwon. Mira, sulla ventina, è stata assunta da Jiwon per dare lezioni al figlio
minore Yujae. E Mira alza il sipario su quanto è accaduto poco tempo prima: il
cane a cui il fratello di Mira era tanto affezionato è stato ucciso
selvaggiamente dal figlio di Jiwon. Per un’incatenarsi di conseguenze, la madre
e il fratello di Mira si erano uccisi.
Il primogenito di Jiwon, Yuchon, è l’esatto opposto del fratello. A sentire la madre, è un genio della matematica, rappresenterà la Corea alle Olimpiadi internazionali di Matematica, è studioso, un ragazzo modello. Per Jiwon esiste solo questo figlio e non si accorge della gelosia devastante del figlio minore, neppure sa- perché non le interessa- che Yujae ha vinto le Olimpiadi nazionali di Matematica. E Yujae cova la vendetta.
Appare subito chiaro, leggendo la parte di
Yujae, che questo ragazzino è uno psicopatico, pericoloso per gli altri e
potenzialmente per se stesso. C’è una radice di Male in lui, anche se vogliamo
scavare e cercare di comprendere il motivo del suo comportamento, c’è un gusto
di fare il Male, di vedere soffrire, c’è una totale mancanza di empatia, c’è il
piacere di programmare atti criminali manipolando anche altre persone al suo
servizio, c’è totale mancanza di senso di colpa.
È Yujae l’unico a macchiarsi di colpe?
L’unico a commettere crimini senza il minimo scrupolo? Ognuna delle quattro
parti del libro smentisce in parte, rettifica, cambia la prospettiva da cui
guardiamo quello che accade. Che non ci piace. Non ci piacciono i personaggi,
ci chiediamo dove siano le famiglie di questi ragazzini che si aggirano di
notte cercando il divertimento nella sofferenza altrui.
Confesso di aver fatto fatica a terminare
la lettura di questo romanzo di cui, però, ho apprezzato la costruzione.
domenica 30 novembre 2025
Celia Fremlin, “La lunga ombra” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
cento sfumature di giallo
Celia Fremlin, “La lunga ombra”
Ed.
Sellerio, trad. Chiara Rizzuto, pagg. 280, Euro 14,25
Dopo Francis Blundy, il marito eminente poeta e uomo egocentrico del romanzo di Ian McEwan, ecco Ivor, professore emerito di Lettere Classiche, un manipolatore pieno di sé, un altro uomo da cui le donne farebbero bene a tenersi alla larga. E invece cadono ai suoi piedi. La prima moglie gli aveva dato due figli e da anni era ricoverata in una casa di cura, la seconda che, a quanto pare, era l’opposto della prima- tanto era intellettuale la prima, quanto svampita la seconda- viveva alle Bermude, ed ora Imogen, nonostante qualche momento di nostalgia, tira un sospiro di sollievo, finalmente si sente libera, finalmente non deve essere in perenne servizio dei desideri del marito.
Una di quelle prime notti in cui è sola,
però, una telefonata la sveglia. Una voce maschile la accusa di aver ucciso il
marito. Assurdo. Lei era a casa. No, ci sono testimoni che l’hanno vista
nell’albergo dove Ivor avrebbe dovuto passare la notte. Scatta così l’elemento
‘giallo’ di questo romanzo di un umorismo noir, che mescola mystery, ghost
story, giallo con un pizzico di rosa.
Uno dopo l’altro arrivano gli ospiti (dubitiamo, nonostante le battute tra il serio e il faceto) che siano lì per far compagnia alla ‘povera’ Imogen- la figlia di Ivor in continuo disaccordo con il marito, i suoi due bambini che chiamano ‘nonna’ Imogen anche se in realtà non lo è, il figlio scapestrato che dice apertamente che è inutile che lui paghi un affitto altrove, una ragazza stravagante che lui porta con sé e che affitterà una stanza, la seconda moglie di Ivor con scatolette di pillole per ogni evenienza. E poi, dentro e fuori, la vicina di casa, la vedova modello del ‘caro Desmond’ (l’ultima frase del romanzo è dedicata al ‘caro Desmond’, un magistrale colpo di scena). Adesso che sono tutti lì iniziano ad accadere cose strane.
I bambini vedono Babbo Natale nello studio del nonno (Ivor faceva sempre la parte di Babbo Natale), un bambino ha gli incubi perché vede un volto ghignante chino su di lui di notte, un altro foglio si aggiunge ad uno scritto incompiuto di Ivor (la calligrafia è identica), il gatto scompare, i bambini scompaiono…E la neve cade sulla campagna inglese.
“La lunga ombra” è un giallo domestico,
leggero, frizzante, una divertente demistificazione del Natale. È il libro
perfetto per distrarvi e tirarvi su di morale.
martedì 25 novembre 2025
Tommy Wieringa, “Nirvana” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Paesi Bassi
Ed.
Iperborea, trad. Claudia Di Palermo, pagg. 541, Euro 21,00
Amsterdam
2016.
Uno
scrittore, Tommy Wieringa, sì, l’autore del libro che stiamo leggendo.
Un
pittore, Hugo Adema.
Il
fratello gemello del pittore, Willem Adema che ha ereditato non solo il nome
del nonno ma anche la sua impresa offshore.
Il
centenario Willem Adema, ingegnere civile che si è fatto una fortuna con il
petrolio grazie alle sue competenze tecnologiche ma che ha anche un passato
‘ripulito’ e opportunamente modificato.
Una casa, anzi, una magione nel verde dei boschi, Oostraven, dove vivono i due vecchi Adema con le infermiere che si danno i turni per assisterli, dove Hugo si rifugia per dipingere, dove lui, bambino, era stato ‘esiliato’ per tre anni perché in continua lite con il fratello.
“Nirvana” è un romanzo di doppi, di immagini nello specchio- i gemelli litigiosi come Esaù e Giacobbe, uno con inclinazione artistiche e l’altro che sta approntando la nave più grande che abbia mai solcato i mari per sfruttare al massimo i giacimenti petroliferi nelle acque del Nord; lo scrittore che ha in mente di scrivere un libro sul discusso nonno di Hugo e Hugo che gli ruba la storia leggendo i diari ritrovati del nonno e la mette su tela; il presente con la storia d’amore (finita) di Hugo con una bella fotografa e il passato che si affaccia sul presente con un doppio ritrovamento- di una zia di cui Hugo non sapeva l’esistenza e della governante di Hugo bambino che era stata anche la madre affidataria di Wieringa. È proprio quest’ultima che spalanca le porte sull’oscurità del vecchio Willem Adema, era lei che conservava i suoi diari del tempo di guerra dopo averli trovati nel suo bagaglio quando era stata licenziata da casa Adema (chi li aveva messi lì?).
Hugo non esegue la volontà espressa nella lettera che la vecchia governante aveva lasciato, che affidava i diari a Hugo e a Tommy Wieringa. Hugo deve affrontare da solo la verità di cui aveva avuto una fugace intuizione quando aveva visto un piccolo tatuaggio sotto l’ascella del nonno. Non era vero che il nonno si era schierato con i tedeschi, che tra l’altro erano i nemici che avevano occupato l’Olanda, perché voleva combattere i russi. Non era vero che, dopo aver visto quello che i tedeschi facevano in Russia, era passato nelle file della Resistenza. Non era vero che era stato assolto dal tribunale dopo la fine della guerra. Aveva fatto parte delle SS, punto e basta.
Aveva assistito a scene di una violenza indicibile. Aveva partecipato a massacri. Ci aveva fatto l’abitudine in un sonno della coscienza ed era stranamente sopravvissuto fino alla fine. Altri segreti ancora vengono fuori dai diari, sul periodo in Venezuela, sul suo matrimonio con una ragazza il cui sangue creolo sarebbe riapparso a sorpresa (sgradita) nel figlio, il padre dei gemelli, su quella zia che Hugo ritrova e che lo scambia per il nonno di Hugo, il suo proprio padre. Perché c’è anche questa beffa del destino, assomigliare fisicamente ad un nonno che si finisce per disprezzare, essere un suo sosia più giovane.
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il personaggio vero dietro Willem Adema
Il presente è fatto di squarci di memorie
felici di Hugo con la fotografa che poi sbandiererà il loro rapporto in una
mostra fotografica svilente per Hugo, di incontri tenerissimi con le due
persone che finiscono per essere ‘famiglia’ per il protagonista, di mesi di una
ripresa furiosa di creazione pittorica mentre lo scrittore scompare nell’ombra:
la storia di Willem Adema appartiene al nipote e non a lui, che però, con un
effetto meravigliosamente straniante, ce la racconta nel romanzo che stiamo
leggendo.
Ancora un altro doppio mentre ci
avviciniamo alla conclusione- Willem il giovane trionfa al varo della
gigantesca nave, un futuro sempre più ricco si apre davanti a lui (e a chi
importa delle conseguenze ambientali, del cambiamento climatico, tutte
‘chiacchiere di scienziati sovvenzionati’); Hugo allestisce una mostra di
quadri rivelatori, con un percorso punteggiato da brani presi dal diario del
vecchio Adema che i visitatori ascolteranno nelle cuffie- la verità deve venire
alla luce. “Tutto brucia a causa del fuoco della brama…Lìberati vedendo la
brama in ogni cosa…La risposta al dominio del fuoco è l’assenza di fuoco.
L’estinzione. Il nirvana.”
Un libro bellissimo. Da leggere.
sabato 22 novembre 2025
Ian McEwan, “Quello che possiamo sapere” ed. 2025
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
distopia
Ian McEwan, “Quello che possiamo sapere”Ed.
Einaudi, trad. Susanna Basso, pagg, 376, Euro 19,95
E’ il 2119. C’è stato un drammatico cambio
epocale tra il XXI secolo in cui stiamo vivendo e il XXII in cui si muovono i
personaggi dello straordinario nuovo romanzo di Ian McEwan. Prima il Grande
Disastro, poi l’Inondazione. A seguito di un lancio di missili le acque
dell’Oceano si sono sollevate rovesciandosi su gran parte dell’Europa
occidentale. La Gran Bretagna è diventata un arcipelago di isole, qualunque
spostamento diventa difficoltoso. Se nel XXI secolo la sovrappopolazione era un
problema, adesso questo problema è scomparso, l’Inondazione ha decimato gli
abitanti del nostro pianeta. Anche i beni materiali scarseggiano, certi
alimenti sono introvabili.
In questo nuovo mondo (quanto lontano dal “Coraggioso nuovo mondo” di Huxley!) Thomas Metcalfe, studioso della letteratura degli anni tra il 1990 e il 2030, è sulle tracce di un poema scomparso. Si tratta della Corona per Vivien di Francis Blundy, una sequenza di sonetti in cui ogni sonetto inizia con il verso con cui termina quello precedente. Il grande poeta Francis Blundy lo aveva scritto per il compleanno della moglie ed era stato recitato nel 2014 ad una cena in cui erano presenti, oltre alla festeggiata, la sorella di Blundy con il marito (editor di Blundy, incaricato di scrivere la biografia del poeta), e altre coppie di amici. Il poema però era scomparso, tutto quello che se ne sapeva era i riferimenti che si erano trovati nello scambio di mail, stralci di diari, allusioni a quella sera di libagioni e cibi deliziosi ormai introvabili nel 2119. Erano tutti riuniti nel grande Casale di Blundy per quel “Second Immortal Convivio” (il riferimento era al Primo Convivio del 1817 a cui avevano partecipato Keats e Wordsworth). Era una documentazione che lasciava trapelare le correnti di amore, gelosia, invidia tra i presenti, che raccontava del primo matrimonio di Vivien con un liutaio vittima di Alzheimer in giovane età, delle ambizioni a cui Vivien aveva rinunciato per mettersi a disposizione del poeta dall’Ego smisurato- e però, a parte le parole di ammirazione per il poema, non c’era altro su che fine potesse avere fatto.
Metcalfe riesce a dissotterrare un contenitore nel luogo dove una volta, un centinaio di anni prima, si ergeva il Casale- e questa parte del libro sembra presa da un romanzo di avventura con l’avanzare dello studioso e della moglie in un bosco inselvatichito dopo aver dovuto noleggiare un’imbarcazione con tanto di skipper per arrivare là dove un tempo era tutta terraferma. Ed ecco che inizia un secondo romanzo, del tutto diverso da quello che abbiamo letto finora. È scritto da Vivien, una sorta di diario sulla cui veridicità non possiamo avere dubbi. È tutta un’altra storia che, in certo qual modo smitizza quella precedente, una storia di amore, di tradimento, di colpa. Soprattutto di colpa e di rimorso. Dobbiamo rivedere tutto quello che abbiamo pensato del grande poeta (molto borioso, a dire il vero) e della stessa Vivien e del loro amore. E naturalmente apprendiamo che ne è stato della Corona e quale significato avesse e perché dovesse scomparire.
Due romanzi in uno, leggere “Quello che
possiamo sapere” è come guardare le due facce della stessa medaglia, e
l’effetto è straniante. Il romanzo ambientato nel futuro è soffuso di
un’atmosfera tragica e nello stesso tempo nostalgica (quella stessa nostalgia
che prova Winston Smith nel “1984” di Orwell)- chi guarda al passato (ai
giovani non interessa il passato, faticano a portare a termine la lettura di un
libro di neppure cento pagine, gli studi umanistici sono in declino) prova
nostalgia per un tempo in cui vivere sembrava più bello, in cui c’erano più
specie di animali e di fiori, alimenti più vari e gustosi- ma che cosa sappiamo
veramente del passato? Quali verità si celano dietro gli scritti del passato
ormai tutti conservati in forma digitalizzata? Quale era la vera vita dei
personaggi famosi e mitizzati?
Il romanzo ambientato nel presente di noi lettori toglie il velo davanti al mondo sognato e rimpianto nelle pagine del futuro, ne mostra le meschinità e le brutture ed è come se anche a noi togliessero una benda dagli occhi- forse preferivamo il nostro tempo visto attraverso la lente del futuro, forse c’è un equilibrio tra le due prospettive.
La distopia di McEwan si basa soprattutto
sulle conseguenze del cambiamento climatico, sia nell’ambiente sia nella
società e nelle nazioni (l’America è diventata un luogo pericoloso dove
spadroneggiano i signori delle guerra e la Nigeria è il paese più ricco del
mondo) e il ‘primo’ romanzo ha un passo più lento- la ricerca del poema e la
celebrazione della grandezza di Francis Blunty, nonché la storia d’amore di
Metcalfe con la compagna studiosa, ci richiamano alla mente “Possessione” di
Antonia Byatt-, più vivace e ricco di sorprese il “romanzo dentro il romanzo”.
Quello che conta, però, quello che ci affascina, quello che ci tiene legati al
testo, è proprio la loro giustapposizione, la doppia prospettiva, e quel
pizzico di suspense.




































