lunedì 3 febbraio 2025

Alina Bronsky, “Barbara non sta morendo” ed. 2025

                                 Voci da mondi diversi. Area germanica



Alina Bronsky, “Barbara non sta morendo”

Ed. Keller, trad. Scilla Forti, pagg. 240, Euro 17,10

 

   Walter ha trovato Barbara per terra, sul pavimento del bagno. Riesce a riaccompagnarla a letto, ma poi Barbara non si alza per preparare la colazione. A pensarci, era stato strano non svegliarsi con il profumo del caffè, come ogni mattina da quando si sono sposati. È il primo segnale di un cambiamento di cui Walter farà fatica a rendersi conto e ad accettare. Anzi, Walter non lo accetta proprio, si rifiuta di pensare che Barbara sia ammalata, neppure ci pensa a chiamare il dottore. Ci penserà il figlio, giorni dopo, quando è chiaro che Barbara non si alza dal letto dove continua a dormire o dormicchiare.

     È un uomo di altri tempi, Walter. Ottuso e pieno di pregiudizi. Era stato anche lui un immigrato, anche Barbara lo era stata e lui si vantava che Barbara dovesse a lui e alla sua severità se ora parlava in tedesco senza accento. Si irritava quando la moglie preparava dei piatti come ‘laggiù’, il borsc, per esempio. E ce l’aveva con gli immigrati, che bivaccavano sul marciapiede vicino alla stazione chiedendo l’elemosina. Si rifiutava di chiamare per nome la compagna del figlio, non dice mai niente apertamente, ma c’è un lieve disprezzo nel paragonare il nipotino ad un cioccolatino. Quanto alle scelte della figlia Karin, che era andata a Berlino dove viveva con la sua ‘migliore amica’, Walter fingeva di non capire, di non sapere.


   Fino ad ora aveva avuto abitudini fisse da quando era andato in pensione- portare fuori il cane, il giovedì sera al pub con gli amici e nient’altro. Mai aveva fatto la spesa, mai aveva acceso un fornello, neppure per farsi un caffè, mai aveva fatto funzionare la lavatrice. E adesso? Lentamente, molto lentamente visto che parte da zero, Walter impara, seguendo le istruzioni della moglie. Fa pasticci, sporca dappertutto, è necessario più di un tentativo prima di cucinare qualcosa di commestibile, impara perfino a chiedere aiuto per istruzioni alla commessa con i capelli blu del panettiere.

    Alina Bronsky dipinge con mano leggera il cambiamento di quest’uomo, ce lo descrive in un tono tra il compassionevole, il ridicolo, l’ammirazione. Ammirazione sì, perché tutto quello che Walter fa non è solo per la propria sopravvivenza ma perché ama Barbara, anche se non lo confesserebbe mai.

Imbocca la moglie come un uccellino, in un soprassalto di comprensione lucida di quello che sta accadendo (Barbara si è rifiutata di andare in ospedale) le dice “non mi giocherai qualche brutto scherzo, ragazza mia?”- è quanto di più affettuoso quest’uomo vecchio stile sia capace di dirle.


   È un cambiamento a 360 gradi, quello di Walter. Cambia nell’aspetto pratico della vita di ogni giorno (buffo l’accanimento con cui inizia a seguire le lezioni di cucina alla televisione e ad aprirsi ai social), cambia nella maniera di relazionarsi con i figli, acquista anche il coraggio di affrontare un segreto doloroso del loro passato per cui finora aveva solo provato vergogna. E non è solo la malattia di Barbara (che lui rifiuta di riconoscere fino alla fine) la responsabile di questo cambiamento. Nella sua nuova apertura verso il mondo Walter scopre che la moglie che sua madre disprezzava e che lui pensava di aver, in certo qual senso, ‘elevato’, era benvoluta e amata da tutti- perfino il barbone accampato con il cane vicino alla stazione la conosceva (e Walter si sostituirà a Barbara e gli porterà da mangiare, a Natale). Perché Barbara era buona, generosa, gentile. Tutti le volevano bene, persone a lui del tutto sconosciute le chiedevano di lei.

   Anche in questo romanzo, come nel precedente “L’ultimo amore di Baba Dunja”, Alina Bronsky ci racconta una storia con umorismo e con una considerazione affettuosa per i suoi personaggi, una storia di persone qualunque che mostra come niente sia definitivo nel nostro carattere e nelle nostre abitudini e come si possa cambiare (in meglio).



La recensione de "L'ultimo amore di Baba Dunja" è pubblicata in data 27 ottobre 2016, con l'etichetta Area germanica.

giovedì 30 gennaio 2025

Ludmila Ulitskaya, "Daniel Stein. Traduttore"

   La casa editrice la Nave di Teseo ha ristampato il bellissimo libro della scrittrice russa Ludmila Ulitskaja, "Daniel Stein. Traduttore"

               


Ne ho già pubblicato la recensione e l'intervista fatta alla scrittrice in data 15 e 17 maggio 2016, sotto l'etichetta Voci da mondi diversi. Russia/ biografia/biografia romanzata.

Se non lo conoscete, vi consiglio la lettura.




martedì 28 gennaio 2025

Sabrina Zuccato, “La levatrice di Nagyrév” ed. 2025

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

    cento sfumature di giallo

Sabrina Zuccato, “La levatrice di Nagyrév”

Ed. Marsilio, pagg. 448, Euro 18,05

 

    1929. Nagyrév, un paesino nella vasta pianura ungherese. Zsigmond Danielovitz è incaricato di indagare sulla morte di una donna anziana del paese che è stata ritrovata, nuda, sulla sponda del fiume. Fin da subito a Zsigmond non piace l’atmosfera del villaggio. C’è un astio generale nei confronti della figlia della donna che è morta che si rivela già nel soprannome che le hanno affibbiato, ‘Anna la lurida’. Tutti berciano contro di lei, tutti la indicano come la colpevole e, dapprima, tutti accolgono con simpatia il gendarme che- ne sono certi- metterà in prigione Anna la lurida e sua figlia.

Poi le cose si complicano. Un biglietto, fatto scivolare sotto la porta della stanza occupata da Zsigmond, dice- con una calligrafia molto incerta- che adesso finalmente parleranno  le tombe che sono state mute per un decennio. E sono state tante le tombe scavate nel cimitero del paese negli anni dopo la fine della guerra. Un’epidemia di colera- si dice. Guarda caso, il colera colpiva soprattutto gli uomini. I corpi vengono riesumati, viene fatto arrivare il medico legale, unghie e capelli sono mandati ad analizzare. È il veleno che ha ucciso tutte quelle persone. Orrore, sconcerto, domande- chi ? come? Perché? Nessuno osa accusarla, ma una sola persona poteva avere ‘dato una mano’ a spedire all’aldilà uomini giovani, uomini vecchi, anche dei bambini, ahimé:  Zsuzsanna, la levatrice che sapeva curare con le erbe, che aveva la fama di essere una strega.

Zsusanna

    Potremmo capovolgere il titolo di Stieg Larsson, “Uomini che odiano le donne”, in “Donne che odiano gli uomini” e avremmo una chiave di lettura per quello che accadde a Nagyrév. Avevano ragione, quelle donne, ad odiare i mariti che le picchiavano selvaggiamente, da sobri e, tanto più, quando erano ubriachi, che magari erano stati loro imposti dai genitori in un matrimonio combinato, che si accoppiavano con loro perché i figli maschi erano la loro ricchezza e tanto più si doveva fare un altro figlio se quell’incapace della moglie aveva messo al mondo un’inutile femmina. Aveva ragione ad odiare il suocero la giovane moglie che doveva subire i suoi stupri (e naturalmente il marito dava a lei la colpa). Suscita invece la nostra compassione la figlia che aveva accelerato la morte dei genitori di cui lei si occupava con affetto, entrambi  senza autonomia e ormai incapaci di intendere (non fu condannata). Ci fa pena anche la giovane sposa che aspettava con ansia il ritorno dalla guerra del marito di cui era innamoratissima. Se è per quello, sì, lui era tornato. Gli era rimasto un solo arto, le orbite degli occhi erano vuote. Eppure lei lo curava, con lacrime e amore. Non era stata lei a prendere la decisione di una dolce morte.


    Quando si dice- la realtà supera l’immaginazione. Perché i fatti narrati in questo romanzo sono tutti veri. Sabrina Zuccato è straordinaria- avrebbe potuto usare il materiale di cronaca a mo’ di reportage, in maniera asettica, e invece non solo porta alla ribalta le donne una dopo l’altra, lasciandole parlare nella loro quotidianità, mettendoci davanti agli occhi il loro vissuto, come siano arrivate a lasciarsi aiutare dalla levatrice che diceva che c’è sempre una soluzione, ma indaga anche, in profondità nel carattere dei due personaggi principali, la levatrice Zsuzsanna e il gendarme Zsigmond.

   Era stata in carcere, Zsuzsanna, perché praticava aborti (che altro rimedio c’era per le donne con troppi figli e per quelle che erano state violentate?), e in prigione era stata preda dei carcerieri. Lei per prima odiava gli uomini e poi, gradualmente, dopo aver scoperto che cosa si poteva fare con la carta moschicida che conteneva arsenico, si era sentita come la Moira che taglia il filo delle vite umane, lei poteva far nascere e morire, era come Dio.


   Ma era poi tanto diverso Zsigmond Danielovitz che era tornato dalla guerra senza una mano e che si sente inspiegabilmente attratto verso di lei? Non provava forse le stesse cose quando aveva un fucile in mano, in guerra, e la licenza di uccidere?

    Possiamo leggere “La levatrice di Nagyrév” come se fosse un giallo, con la consapevolezza, però, che tutto questo è successo davvero. Possiamo leggerlo come un manifesto di ‘Donne alla riscossa’ e, nello stesso tempo, siamo chiamati ad esprimere un giudizio- di condanna, certo, per chi ha ucciso per intascare un’eredità, ma che cosa pensiamo di tutte quelle donne umiliate e vittime nella eterna maniera più facile, per un uomo, per assoggettare le donne?




   

   

domenica 26 gennaio 2025

Camille Neveux, “Il frutteto di Damasco” ed. 2025

                                                             Voci da mondi diversi. Francia

             guerra in Siria

Camille Neveux, “Il frutteto di Damasco”

Ed. Nord, trad. Maddalena Togliani, pagg. 286, Euro 16,05

 

     Daraya, Siria. 1995. Un inizio perfin troppo bucolico ci lascia immaginare un libro venato di sentimentalismo. Tre bambini che giocano, un frutteto che promette un buon raccolto. Luce e colori. I bambini sono Aissa e Fulla (fratello e sorella) e Majed, il figlio dei vicini di casa. Sono ancora piccoli ma c’è già in aria l’amore che sboccerà tra Fulla e Majed.

La Siria è piegata sotto la dittatura di Hafiz al-Assad, perfino l’insegnamento a scuola è improntato al culto della sua personalità. Non ci si può lasciar sfuggire alcuna parola che possa essere interpretata come una critica, gli arresti sono all’ordine del giorno.

Hafiz al-Hassad

    Sedici anni dopo Aissa si unisce agli shabab Daraya, un gruppo di attivisti che protesta contro il regime. Reclamano una maggiore libertà e un regime democratico, sono contro la violenza. È il 2011, la primavera araba fiorisce lungo tutto l’arco del Mediterraneo, Tunisia, Libia, Egitto, Siria sono coinvolte. Fulla e Majed vengono arrestati- non avevano mai partecipato ad alcuna manifestazione prima di adesso, Fulla era incinta, Majed, studente di ingegneria, non sarebbe voluto andare. Aissa riesce a fuggire, dapprima in Libano insieme al padre Mustafa, alla madre e alle sorelle, e poi in Francia, per evitare di essere ucciso.

    Libano 2023. Nermine è un’adolescente infelice. Vive con la mamma, Fulla, il patrigno e il nonno. Le è stato detto che suo padre è partito, ma lei sente che le mentono, che c’è un segreto. E trova un indizio in uno scambio di messaggi tra la mamma e lo zio Aissa sul cellulare di Fulla.


    La narrativa si alterna tra passato e presente. Leggiamo dell’assedio di Daraya, dei bombardamenti, delle macerie e delle morti. E della sorte dei protagonisti. È scomparso il tono idilliaco dell’inizio, è stato sostituito da un racconto di violenze, di torture, di umiliazioni, di sofferenze fisiche e psichiche. La luce e i colori del frutteto sono stati sostituiti dal buio e dal puzzo del carcere. Come si può sopravvivere, come si riesce a mantenere la propria dignità quando gli aguzzini si accaniscono sul nostro corpo? Qualcuno ci riesce, Nermine nasce nella prigione, c’è una donna (era la maestra che Aissa adorava da bambino) che aiuta Fulla e pagherà per questo. Fuori dal carcere anche Mustafa deve piegarsi e pagare mazzette a destra e a manca per ottenere qualcosa. La libertà costa cara, si paga e si rischia la vita per arrivare in Libano dove Fulla riesce a rifarsi un’esistenza. Ma, e se i fantasmi della vita precedente riappaiono? E se si scopre perché era stata riservata una pena così pesante a Majed e Fulla che, tutto sommato, avevano partecipato solo una volta ad una manifestazione?


     Un personaggio, al di fuori della famiglia, ha una particolare importanza- era stato un compagno di scuola di Aissa, suo padre era al servizio degli al-Assad, e fin da bambino aveva mostrato una natura malevola e influenzata dall’atmosfera di violenza della dittatura. Diventerà la personificazione del Male, della crudeltà spietata e senza leggi, arriverà ad uccidere la propria sorella, innamorata di Aissa, senza ripensamenti, senza rimorsi.

   E, in tutto questo tempo, il frutteto è rimasto com’era, Mustafa riesce a tornare e a prendersene cura, è un segnale di speranza, della vita che continua. Nonostante tutto.

   Camille Neveux, giornalista, ha scritto un romanzo potente che ha la capacità di avvicinarci alla Storia di un paese lontano. Lei stessa riconosce il contributo del suo compagno siriano che per primo le ha raccontato del dramma della Siria, per primo, per esperienza personale, ha accusato un governo liberticida.




     

 

 

     

martedì 21 gennaio 2025

Ritanna Armeni, “A Roma non ci sono le montagne. Il romanzo di via Rasella: lotta, amore e libertà.” ed. 2025

                                                                        Casa Nostra. Qui Italia

                                                    seconda guerra mondiale

Ritanna Armeni, “A Roma non ci sono le montagne. Il romanzo di via Rasella: lotta, amore e libertà.

Ed. Ponte alle Grazie, pagg. 240, Euro 17,10

 

   23 marzo 1944. Via Rasella, Roma. Fosse Ardeatine. Chissà fino a quando questa data e queste indicazioni di luoghi diranno ancora qualcosa, con un riflesso immediato, alle nuove generazioni. Sono passati ottant’anni, e sono tanti, ma in qualche maniera la memoria di quanto accadde quel giorno e quello seguente e in quei luoghi, deve essere preservato e tramandato, al di là di ogni polemica. Ed è quello che fa il libro di Ritanna Armeni “A Roma non ci sono le montagne”, la fotografia di un gruppo di ragazzi e ragazze in copertina- ci colpisce la loro giovinezza, ci tocca il loro sorriso, e no, non possono essere dei ragazzi in gita scolastica, alcuni di loro imbracciano un fucile.

   ‘Roma città aperta’ (è anche il titolo di un famoso film di Roberto Rossellini)- con ‘città aperta’ si indicava una città che, per un accordo tra i belligeranti, non doveva essere luogo di scontri. E invece, nella Roma occupata dai tedeschi nel 1944, c’erano scontri, c’erano soprusi da parte degli occupanti, c’erano arresti e prelievi di uomini che venivano mandati a lavorare in Germania, c’erano stati, quel fatidico 16 ottobre dell’anno precedente, il rastrellamento del ghetto e la partenza dei treni per Auschwitz.


Anche a Roma, come nel Nord Italia, operava la Resistenza, i partigiani- Banditen per i tedeschi- compivano azioni di quella che si potrebbe chiamare guerriglia. Era meno facile agire a Roma, perché- come dice il titolo del libro di Ritanna Armeni- a Roma non ci sono montagne, era più difficile darsi alla macchia o fuggire dopo un’operazione o nascondersi preparando un agguato.

    Il romanzo (i nomi dei personaggi sono quelli veri, si può trovare un riscontro su internet) inizia con un giovane (nome di battaglia Paolo, nome vero Rosario detto Sasà Bentivegna) che, nelle vesti di uno spazzino, spinge un carretto che contiene il tritolo di cui dovrà accendere la miccia.


L’operazione è stata preparata nei minimi dettagli, ogni movimento è calcolato al minuto. Sasà, Carla (Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare per la sua attività come partigiana), Cola (Franco Calamandrei) e gli altri, avrebbero atteso il passaggio di una colonna di soldati tedeschi che provenivano dal poligono di tiro e che facevano lo stesso percorso cantando ogni giorno. Era stata scelta via Rasella per l’appostamento, perché era una via stretta, di poco passaggio e con pochi negozi- c’era minor rischio di danni collaterali non voluti.

   Anche se sappiamo quello che avvenne, Ritanna Armeni riesce a farci restare con il fiato sospeso  (so che non è bello dirlo, perché stiamo leggendo un momento drammatico della nostra Storia e non un thriller, ma alla scrittrice va il merito di saperci coinvolgere) e il suo racconto alterna la precisa ricostruzione di quell’attesa che si prolungò per il ritardo dei tedeschi (i tedeschi in ritardo- non era mai successo, ma anche loro erano tesi per timore di disordini in quel giorno che era un anniversario importante per i fasci), i pensieri e l’inquietudine dei partigiani, con capitoli di flash-back, con racconti di altre imprese, con il ricordo del trauma per la prima volta in cui una di loro aveva ucciso (aveva sparato a un tedesco, ma era pur sempre un uomo), con le storie di amore tra quei ragazzi che avevano messo da parte i libri per imbracciare il fucile. E c’è anche, in primo piano, un soldato del battaglione Bozen, con i suoi pensieri e i suoi ricordi. Veniva dall’Alto Adige, si era stupito di essere stato chiamato alle armi pur non avendo un passaporto tedesco, aveva pensato di nascondersi sulle montagne ma aveva avuto paura di rappresaglie sulla sua famiglia. Roma gli piaceva, piazza di Spagna gli sembrava incantevole. È un personaggio che vuole ricordarci che non dobbiamo mai dimenticare anche le vittime ‘nemiche’.

Carla e Sasà 

    Sappiamo come finisce l’attentato, con i 33 morti tedeschi e la tremenda rappresaglia ordinata da Kappler, dieci italiani per ogni tedesco ucciso- 335, con 5 per sovrannumero. Si sentirono provenire dalle Fosse Ardeatine (cave di pozzolana oggi diventate un memoriale sacrario) gli spari per un giorno intero, il 24 marzo.

    Un libro assolutamente da leggere, per ricordare e per riflettere- c’era forse un’altra maniera che non avesse questa conseguenza drammatica, per dimostrare che gli italiani non erano un popolo passivo, che non avevano prima seguito passivamente il Duce e che aspettavano passivamente la liberazione degli Alleati?




sabato 18 gennaio 2025

Aurora Tamigio, “Il cognome delle donne” ed. 2024

                                                               Casa Nostra. Qui Italia

                                                             saga

       

Aurora Tamigio, “Il cognome delle donne”

Ed. Feltrinelli, pagg. 416, Euro 18,00

     Questa è una storia di donne. D’altra parte il titolo dice già tante cose. Perché, che cosa è un cognome? Gli uomini non ci pensano neppure, il loro cognome li accompagna per tutta la vita. Che cosa vuol dire, per una donna, perdere il proprio cognome e prendere quello del marito? Sempre il cognome di un uomo è, pensiamoci bene, ma nel momento in cui si sposa una donna perde la sua identità, esiste non più in quanto lei stessa, ma come appendice o proprietà del marito. I cambiamenti sono sempre lenti a prendere piede, negli anni ‘70 le donne mantenevano il proprio cognome nel posto di lavoro, mentre era tutt’altra faccenda nei rapporti sociali. E, per quello che riguarda i figli, sono pochissimi tuttora quelli che- come è d’uso in Spagna e nei paesi dell’America latina- hanno il doppio cognome, del padre e della madre.

    Le vicende del romanzo di Aurora Tamigio iniziano nei primi anni del Novecento e la prima donna di questa saga si chiama Rosa. È lei la prima vittima delle violenze paterne, perché sembra proprio sia un diritto su cui non si discute, quello dei padri, di sfogare malumori o ubriachezza sulle persone più fragili della famiglia- su chi, se no? Quando Rosa incontra un uomo gentile, Sebastiano Quaranta, se ne innamora, fugge insieme a lui, lo sposa. E non gli perdonerà mai di essersi arruolato e di essere morto in guerra, lasciandola con tre figli. Ma Rosa ha carattere e forza, si guadagnerà da vivere con l’osteria che aveva aperto insieme al marito. La storia della vita della figlia Selma è una variante della storia delle donne- il marito è un fannullone, ma non basta che si faccia mantenere, sperpera anche l’eredità messa da parte da Rosa, una volta che legalmente è diventato il capofamiglia a cui tutti i beni appartengono di diritto anche se sono, in realtà, delle mogli.


    Con la terza generazione di donne, con le tre figlie di Selma, le cose incominciano a cambiare. Le tre ragazze studiano, lavorano, vanno ad abitare per conto loro quando il padre, che si è risposato, le caccia di casa, i loro legami amorosi non finiscono per forza in un matrimonio, la più giovane va addirittura a frequentare un corso di inglese in Inghilterra. E, quando la maggiore, ormai libera dalla responsabilità della sorellina minore, si sposa, manterrà certamente il suo cognome.


    Sullo sfondo di una Palermo mai citata, ma facilmente riconoscibile da alcune descrizioni di piazze o palazzi e che forse incide su certi comportamenti e certe chiusure mentali, “Il cognome delle donne” è un romanzo che vuole dimostrare qualcosa, che segue la condizione femminile in un arco di tempo lungo e, come spesso avviene in questi casi, la narrazione ne risente. Tuttavia i personaggi e le loro piccole e grandi storie riescono ad interessarci e la lettura procede veloce.




    

martedì 14 gennaio 2025

Alessandro Barbero, “Romanzo russo” ed. 2024

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

     romanzo storico

Alessandro Barbero, “Romanzo russo”

Ed. Sellerio, pagg. 684, Euro 19,00

 

   Secondo romanzo dello storico Alessandro Barbero, “Romanzo russo” fu pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1998, in un tempo più vicino a quello in cui si muovono i personaggi. Fu tradotto in inglese, ma in Italia fu dimenticato e lo rileggiamo ora grazie alla ristampa della casa editrice Sellerio.

    Dimenticato il romanzo e dimenticati quegli anni sul finire degli ’80, nell’epoca di Michail Gorbaciov, penultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991. Sembrano così lontani gli anni di Gorbaciov. L’uomo che con la sua politica della Trasparenza, ‘glasnost’, e della Riforma, ‘perestrojka’, ebbe un ruolo fondamentale nella riunificazione delle due Germanie e nella fine della Guerra Fredda. Con questo romanzo Alessandro Barbero ci porta a Mosca e a Baku nel 1988, giusto un anno prima della caduta del muro di Berlino che diede origine alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, come il primo masso di una valanga.


    Tutto inizia quando il professor Obilin assegna a Tanja una tesi di laurea su “I quadri del Partito nella regione di Baku dal 1945 al 1953”. Va bene la Trasparenza, ma non si rende conto di quanto siano pericolose delle ricerche su quegli anni? non pensa che sarebbe meglio lasciar accumulare la polvere sugli scaffali degli archivi? Perché Tanja è caparbia, non si lascia scoraggiare da nulla, va perfino a Baku a sue spese ed arriva a scoperte sorprendenti, si imbatte per caso anche nelle registrazioni del processo a suo nonno, morto proprio in quegli anni. Subisce delle intimidazioni, Tanja, finirà per dover fuggire da Baku.

Baku

     C’è pure una seconda trama, parallela e di pari importanza a questa, in cui il protagonista è il giudice Nazar Kallistratovic Lappa, che deve indagare sull’assassinio di un capo religioso mussulmano a Baku e, però, anche per lui, come per Tanja, la ricerca è come scoperchiare un vaso di Pandora. Il fatto è che molte delle persone responsabili dei fatti di sangue, delle purghe, delle torture, degli esili in Siberia, sono ancora vivi, si sentono tremare la terra sotto i piedi (anche letteralmente- il terremoto del 1988 nell’ Armenia settentrionale fu di magnitudo 7) e fanno di tutto per ostacolare le indagini del giudice che, proprio come Tanja, deve abbandonare Baku in fretta e furia.

   

terremoto del 1988

In “Come vi piace” Shakespeare diceva ‘Tutta la vita è un palcoscenico e gli uomini e le donne sono soltanto attori’- è un attore il terzo personaggio di rilievo, quello che alla fine esce con indosso la divisa da generale che gli serve per recitare e poi se ne spoglia davanti agli occhi attoniti di chi è in coda come lui per comprare del sapone e interpreta quel gesto in tutt’altra maniera.

   Non per niente Barbero è uno storico e deve aver fatto ricerche approfondite (come la sua Tanja) perché “Romanzo russo” è un romanzo molto russo, perché non solo le vecchie grasse donne russe compaiono nelle sue pagine (quante ne abbiamo incontrate nei romanzi dell’800 russi?), ma anche i nuovi ricchi, l’elegante spacciatore di droga, l’ex membro del KGB che traffica in armi, e poi le popolazioni finora silenziose delle repubbliche più lontane, azeri e armeni che niente hanno dimenticato del passato di cui, qua e là, affiora la nostalgia, quel ‘si stava meglio allora’ che però ha dimenticato gli orrori.


Perfino lo stile è molto russo. Con intelligenza e finezza, senza alcuna finzione, Barbero echeggia Bulgakov che è perfino citato e alla nostra mente affiorano i ricordi di altri grandi scrittori, se non fosse altro che per l’ampio respiro del romanzo. Il racconto è indirizzato spesso ad un ‘tu’ lettore che dà l’impressione di una voce interna ai fatti e altre volte, invece, si sente la voce di un narratore onnisciente. Sempre ironica, sempre accattivante, come se volesse sdrammatizzare quanto sta accadendo, perché in fin dei conti si è conosciuto anche di peggio.

    Il sottotitolo è un verso del poeta Osip Mandelstam, mandato da Stalin a morire in un Gulag- “Fiutando i futuri supplizi”-, un verso molto significativo che fa riflettere: sono solo Tanja e Nazar che vengono messi in guardia?



sabato 11 gennaio 2025

Gerbrand Bakker, “Quelli che restano” ed. 2024

                                     Voci da mondi diversi. Paesi Bassi



Gerbrand Bakker, “Quelli che restano”

Ed. Iperborea, trad. Elisabetta Svaluto Moreolo, pagg 311, Euro 19,00

   Ad un certo punto a Jan Weiman, barbiere figlio di un barbiere, era parso più alla moda, più invogliante, esporre Chez Jean, in francese, fuori dalla porta del negozio. Così come il cartello diceva ‘Fermé’ e ‘Ouvert’. E così era rimasto, anche quando ormai il barbiere/parrucchiere era il nipote di Jan che si chiamava Simon e i clienti che non lo conoscevano si rivolgevano a lui come ‘Jean’.

   Simon non si ammazza di lavoro, quando riceve quattro clienti in un giorno, per lui è sufficiente. Nel tempo libero va in piscina. È così che sua madre si rivolge a lui per aiuto- lei sorveglia un gruppetto di ragazzi disabili mentre nuotano in piscina, l’amica che dovrebbe lavorare insieme a lei è partita con un uomo per le Canarie, può affiancarla Simon?

    Le Canarie e la piscina sono i due spunti per ampliare la caratterizzazione dei personaggi e per dare inizio ad una sottotrama.


Nel 1977 il padre di Simon che in realtà neppure sapeva che sarebbe diventato padre era morto nel tremendo disastro aereo dell’aeroporto di Los Rodeos nelle Canarie, quando l’aereo della KLM proveniente da Amsterdam aveva investito l’aereo della Pan Am arrivato dagli Stati Uniti. Era morto veramente Cornelis Weiman? Né la moglie né il padre sapevano che sarebbe partito, il suo corpo non era mai stato ritrovato- era forse tra quelli che non era stato possibile identificare? La sua morte aveva privato un padre del figlio, una moglie del marito e un figlio del padre. Ma è solo ora, dopo una visita al memoriale nel cimitero insieme al nonno, che Simon incomincia a porsi domande, a voler sapere di più, a cercare su internet ogni possibile notizia, ogni testimonianza dei pochissimi superstiti. E perché sua madre non era voluta andare alla cerimonia commemorativa del 2007?


    Si apre così uno squarcio sulla sottotrama che ci ricorda “Il fu Mattia Pascal”- chi era Cornelis Weiman, con chi era partito, la sua paura, la decisione che gli aveva salvato la vita.

    In controparte, ad Amsterdam, Simon, dichiaratamente gay, ha qualche incontro fuggevole con un paio di uomini, con uno scrittore che si fa tagliare i capelli da lui, che sta scrivendo un romanzo che ha un barbiere come protagonista e che gli ruba la storia del padre morto in un incidente aereo. E poi Simon si sente attratto dal più grande dei ragazzi disabili, un bel ragazzo di cui però fraintende le intenzioni.

    Il romanzo di Gerbrand Bakker è una storia di solitudini. Non c’è un personaggio che sia felicemente accoppiato- non il nonno nonostante dica di essere ricercato dalle signore della sua casa di riposo, non la madre di Simon (è una bella donna, perché non si è mai risposata?), non lo scrittore che scrivendo si appropria della vita degli altri, non il gestore del bar per gay che racconta di una vicenda rovente (e pericolosa) che ha avuto a Teheran, non Cornelis che conta il passare degli anni con il numero di cani che ha avuto, non i ragazzi disabili chiusi più di ogni altro nella loro diversità, non Simon, infine, che non ha neppure potuto scegliere la sua vita, che è sempre stato l’orfano del disastro aereo.


   Raccontato così, sembrerebbe un romanzo triste e invece non lo è affatto. La narrativa procede come in un intrigante gioco di specchi che ci fa pensare al quadro dei ‘coniugi Arnolfini’ di Van Eyck- immaginate Simon che vede il suo riflesso nello specchio del negozio da barbiere e nello stesso tempo vede pure il riflesso dello scrittore o del ragazzo disabile a cui taglia i capelli sfiorandogli il collo, e poi lo scrittore che, pure lui, vede se stesso e Simon nello specchio e tutte le loro storie si riversano nelle pagine di un romanzo dentro il romanzo. C’è una leggera ironia che pervade tutto il libro, una scherzosità che alleggerisce ogni tragedia, una volontà di vivere bene la solitudine o la scelta di essere single cercando l’affetto dove lo si può trovare.




martedì 7 gennaio 2025

Hélène Gullberg, “La protetta” ed. 2024

                                                                   Vento del Nord

                                              cento sfumature di giallo


Hélène Gullberg, “La protetta”

Ed. Neri Pozza, trad. Gabriella Diverio, pagg. 436, Euro 19,00

    Con una strizzata d’occhio alla mitica Lisbeth Salander nella creazione della protagonista Majja Skog (ci tiene sempre a precisare, ogni volta che si presenta, che il suo nome è Majja con due j), questo è un romanzo del tutto originale che dà al lettore ben più del banale brivido del solito thriller, che solletica la curiosità non tanto per il quesito da risolvere su chi abbia ucciso Sten Hammar, il collezionista trovato morto nella sua splendida magione, ma perché anche noi, come Majja bambina, restiamo incantati ad ascoltare i segreti dietro le antichità, i dettagli sulle opere d’arte e sugli studi capillari che si devono fare per saper riconoscere un ‘vero’ da un ‘falso’.

     La vicenda inizia alla fine degli anni ‘90 quando Sten Hammar capita per caso nel granaio dello stesso color rosso Falun di tutte le case della Svezia centrale, e resta incuriosito dal cartello esposto fuori, “Mercatino delle pulci”. Entra e trova di tutto, come è tipico nei negozi dei rigattieri, tante cianfrusaglie e roba vecchia e di poco conto e poi, però, ci sono anche dei pezzi di valore, per lui che sa vedere. È come vedere brillare dei fili d’oro in un pagliaio. Sten Hammar fiuta l’affare. A lui non importa quale sia la provenienza degli oggetti che gli interessano, anzi, questo fa parte del patto che stringe con l’ubriacone che è il padrone del granaio- il silenzio di Hammar contro l’esclusiva vendita degli articoli più pregevoli. Nel patto Skog aggiunge qualcos’altro: una volta alla settimana Hammar insegnerà alla piccola Majja quello che sa sull’arte.


    Una ventina di anni dopo Majja è diventata la Lisbeth Salander della casa d’aste più famosa di Stoccolma (sono i colleghi ad averla soprannominata così), il suo verdetto sull’autenticità di un pezzo da acquistare è legge, solo lei è affidabile, la sua competenza è straordinaria. Tanto quanto il suo aspetto alla Lisbeth- capelli rasati a zero (sapremo poi perché), piercing, Dr. Martens ai piedi, abbigliamento alla punk. Quando Sten Hammar viene trovato morto, la detective Karin Klinga incarica Majja Skog di valutare la preziosa collezione del defunto, senza sapere ancora quanto bene Majja conoscesse lui, la sua casa e tutte le antichità che vi erano contenute.

   Karin Klinga è il secondo personaggio principale ed è, come donna, l’opposto di Majja. Quanto Majja è raggelante e scostante, tanto Karin, pur nella correttezza del suo incarico, non può nascondere il suo essere donna e madre. Sono complementari, Karin che si sta separando dal marito e ha due figli e Majja che non ha mai conosciuto la madre e ha solo un fratello che rivedrà ora per la prima volta dopo anni. Di certo è Majja la più interessante delle due e, con lei, la sua vita divisa tra il lezzo della fattoria e lo splendore della casa di Sten Hammar e del mondo di bellezza che lui le insegna a riconoscere e valutare con pazienza e competenza.


È un insegnante nato, Sten Hammar, è sufficiente vedere come inizia l’apprendimento, quando getta a Majja un tappeto ordinandole bruscamente di contare i nodi sul rovescio. Ci sarà un secondo tappeto e poi un terzo con la spiegazione di questo insolito metodo di insegnamento. Ci saranno oggetti d’argento, mobili, quadri. Spiegazioni sulla procedura di lavorazione, sul come e quando un oggetto è nato, su differenze e somiglianze. Restiamo affascinati noi come Majja che ha un occhio innato per la bellezza e una memoria straordinaria. E poi, però, che cosa era successo? Perché adesso Majja diceva addirittura di non conoscere Sten Hammar? Che segreto nascondeva la tabacchiera d’argento, l’unico oggetto che in apparenza era stato rubato, esposto insieme alle innumerevoli altre tabacchiere più preziose nella stanza di cui solo tre persone conoscevano l’esistenza?

    Ritorniamo così al filone ‘giallo’ che ha una soluzione inaspettata, ma- confessiamolo- a noi interessa poco anche se abbiamo sperimentato il ‘brivido giallo’ tremando per la vita di uno dei personaggi. Siamo passati dalle stelle alle stalle, per così dire, ma siamo ancora abbagliati dalla luce di quelle stelle. Se questo è il primo romanzo di una serie, aspettiamo di incontrare di nuovo l’eccentrica Majja.