Erika Fatland, “La città degli angeli”
Ed.
Marsilio, trad. F. Peri, Pagg. 245, Euro 18,00
Una città che nessuno di noi conosceva,
prima, Beslan. Adesso Beslan è diventato un nome che evoca morte, che significa
orrore, crudeltà infinita.
Una data, 1 settembre 2004. C’è un altro
primo di settembre che è rimasto impresso nella nostra memoria, ed è quello del
1939 quando l’esercito tedesco invase la Polonia dando inizio alla guerra che
avrebbe coinvolto tutta l’Europa. Nel 2004, il primo di settembre, un commando
di terroristi ceceni occupò la scuola elementare e media numero 1 di Beslan,
nell’Ossezia del Nord, una repubblica autonoma nella regione del Caucaso della
Federazione Russa, prendendo in ostaggio 1200 persone fra adulti e bambini.
Era un giorno speciale quel primo di settembre per i bambini di Beslan. ll primo giorno di scuola, quello in cui ci si metteva l’abitino nuovo e si portavano i fiori agli insegnanti e si era accompagnati dalla mamma o dal papà o da tutti e due e dai fratellini minori. È per questo che c’era tanta gente nel cortile della scuola, tanti bambini anche molto piccoli. Era stato scelto il giorno terribilmente giusto, tragicamente giusto.
Che i
terroristi facciano sul serio, è chiaro subito. Che si impongano col terrore,
pure. Sono infastiditi dal pianto e dalle urla dei bambini e chiedono che venga
fatto fare silenzio. Un padre di 46 anni si fa coraggio e dice che, se magari
loro, i terroristi, smettessero di sparare e spaventare i bambini, questi si
calmerebbero. Un colpo di pistola lo mette a tacere.
Per tre giorni gli ostaggi saranno tenuti
chiusi nella palestra, senza mangiare né bere. Quindici dei ventidue uomini
adulti furono uccisi subito. Il secondo giorno undici donne con i bambini
piccoli ebbero il permesso di uscire. Il caldo era insopportabile. Disidratati,
alcuni bambini incominciarono a perdere conoscenza. Alcuni bevvero la loro
urina.
Quando le forze speciali russe fecero irruzione, fu un massacro. Morirono più di trecento persone, di cui 186 bambini, più di 700 furono ferite.
Erika Fatland, scrittrice e antropologa specializzata nello studio della ricerca sul campo degli ex stati sovietici (il suo primo libro, “Sovietistan”, mi aveva letteralmente affascinato), ha fatto due lunghi soggiorni, non privi di difficoltà, a Beslan. Erika non ha solo esaminato i rapporti di inchiesta, non si è solo posta delle domande sulla meccanica degli eventi, su come abbiano fatto i terroristi a passare facilmente il confine- e più di una volta, perché la loro azione doveva essere stata preparata-, su chi fosse il vero capo dell’operazione, sull’inspiegabile mancanza di coordinamento tra le forze di polizia, sul loro immobilismo, sulla loro apparente incapacità di contrattare. Che cosa chiedevano i terroristi? Il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia? Indipendenza della Cecenia? E Putin? Perché Putin era rimasto silente e nell’ombra? Erika ha parlato con superstiti e testimoni, con le madri che sono incapaci di rassegnarsi, che mostrano camerette rimaste intatte come erano quel primo di settembre in cui i loro bambini non sono tornati da scuola, che ricordano l’incubo di quelle ore e- per quelle che avevano accompagnato un figlio più grande con un neonato in braccio- lo strazio della scelta: avevano avuto il permesso di uscire, il secondo giorno, ma solo con il bambino piccolo. Uscire lasciando un bambino o una bambina in lacrime. È qualcosa di simile al dramma della protagonista de “La scelta di Sophie” di William Styron che, all’ingresso del campo di concentramento, era stata costretta a scegliere quale salvare dei suoi due bambini e quale mandare subito nella camera a gas. Una mamma di Beslan non ce l’aveva fatta- era tornata indietro nella palestra.
Beslan è una città a lutto, ancora adesso
che sono passati vent’anni. E’ una città
in cui il dolore ha reso la gente sospettosa e invidiosa e Erika raccoglie
anche queste chiacchiere, sulle indennità che sono state pagate, su chi ha speculato
sulla morte, sulle malignità diffuse.
In
mezzo a tutti questi testimoni della sofferenza, un uomo ci rimane nella mente
e nel cuore- il direttore del cimitero. La gente mormora che sia uscito di
senno. Chi non uscirebbe di senno quando perde in quella maniera una figlia
adorata? Prima della catastrofe era un uomo di successo, aveva un lavoro
prestigioso, casa e auto di proprietà, una moglie e tre figli. Due erano
sopravvissuti, una no. Era stato lui a dare il nome al cimitero, a mettere il
cartello con la scritta, Città degli
angeli. Conosceva il nome di ognuno dei piccoli morti. Puliva le loro
tombe, dormiva lì nel cimitero.
La bravura di Erika Flatland è innegabile.
Riesce a mescolare la freddezza dell’analisi storica e politica con la profonda
umanità con cui si avvicina alle persone, restituendoci la loro storia e il
loro dolore, uguale e diverso per ognuno di loro.
Nessun commento:
Posta un commento