sabato 9 giugno 2018

Hisham Matar, “Il ritorno” ed. 2017


                                              Voci da mondi diversi. Africa
            biografia
         autobiografia
      il libro dimenticato

Hisham Matar, “Il ritorno”
Ed. Einaudi, trad. Anna Nadotti, pagg. 243, Euro 19,50


   C’è un filo che unisce i romanzi di Hisham Matar, lo scrittore libico nato a New York nel 1970 che vive a Londra dal 1986. Un filo che si srotola come il filo d’Arianna, da “Nessuno al mondo”, passando attraverso “Anatomia di una scomparsa”, fino a “Il ritorno”, l’ultimo suo libro che ha vinto il Premio Pulitzer 2017 per la biografia e l’autobiografia. Un filo che collega Hisham Matar al padre Jaballa, il grande assente presente nei tre libri, anche se soltanto nell’ultimo appare con il suo vero nome.
 Jaballa Matar, leader dell’opposizione libica, era stato costretto a rifugiarsi al Cairo con la famiglia nel 1979. Non era stata una misura sufficiente: agenti dei servizi segreti egiziani lo rapirono nel 1990. Consegnato al regime libico, Jaballa Matar fu rinchiuso nel famigerato carcere di Abu Salim, a Tripoli. Riuscì a far arrivare ai famigliari due lettere, una nel 1992 e una nel 1995. Poi silenzio. E nel 2001 si venne a sapere che circa 1200 prigionieri erano stati uccisi ad Abu Salim in un’esecuzione di massa. La famiglia di Jaballa aveva perso ogni speranza che lui potesse essere ancora vivo. Poi una fiammella- forse era stato trasferito in un altro carcere due mesi prima della carneficina, forse qualcuno lo aveva visto nel 2002. Nel 2010 il ministro degli esteri britannico fu sollecitato con una petizione firmata da 270 scrittori perché richiedesse il ripristino dei diritti umani in Libia e ottenesse informazioni su Jaballa Matar e altri prigionieri politici. E infine, nel 2011, l’ultimo atto di una dittatura durata 42 anni con l’uccisione di Gheddafi.
Hisham Matar con il padre Jaballa
     “Il ritorno” è il viaggio di Telemaco in cerca del padre e Hisham Matar è un novello Stephen Dedalus che cerca di mettere insieme i frammenti della memoria e delle testimonianze per ricostruire l’immagine di un uomo di gran valore, per cultura, per dirittura morale, per i suoi ideali, la sua incorruttibilità, la sua generosità. Ritroviamo alcuni dettagli che ricordiamo dagli altri romanzi, perché, con un nome o con un altro, nascosti dietro altre trame, Jaballa e la sua scomparsa erano il nodo della narrativa di Hisham Matar. Così come il dolore che si avverte in ogni pagina, in ogni riga, quando lo scrittore parla del padre, di come era in famiglia nei vent’anni in cui aveva potuto conoscerlo, e poi di come può solo immaginarlo negli altri vent’anni in prigionia. Un’immagine costruita attraverso le scarse e saltuarie parole di chi gli ha parlato attraverso un muro o lo ha intravisto da una feritoia. E allora sembra che il petto possa scoppiare per il dolore al pensiero di quello che Jaballa deve aver sopportato. Lo zio Mahmoud è sopravvissuto ad Abu Salim, i cugini di Hisham sono sopravvissuti. Le ricerche sono estenuanti. Saif Gheddafi, il figlio del dittatore con cui Hisham entra in contatto, sembra fare il gioco del gatto con il topo, sembra stuzzicare la speranza, lascia cadere informazioni con il contagocce.
Hisham con lo zio Mahmoud
    E intanto, leggendo la storia di un uomo eccezionale, leggiamo anche quasi cento anni di storia della Libia (il nonno di Hisham aveva combattuto contro gli occupatori italiani) e percepiamo un altro dolore dietro quello, cocente, di doversi rassegnare ad avere perso un padre senza aver mai saputo ‘quando’ e ‘come’, senza avergli potuto dare sepoltura. E’ il dolore di chi ha perso le sue radici e la sua appartenenza e non sa più identificarsi.
    Da leggere.

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