venerdì 1 novembre 2024

Sujata Massey, “La signora di Bhatia House” ed. 2024

                                                             Voci da mondi diversi. India

cento sfumature di giallo

Sujata Massey, “La signora di Bhatia House”

Ed. Neri Pozza, trad. Laura Prandino, pagg. 520, Euro 19,00

 

    Ritorna Perveen Mistry, l’unica donna avvocato di Bombay. È stata invitata ad un tea party di beneficenza a Bhatia House. C’è un’atmosfera di esultanza tra le signore che sfoggiano i loro sari più belli. Ci sono grandi aspettative sul modo in cui verranno usati i soldi raccolti (alcune signore hanno donato gioielli non volendo chiedere soldi ai mariti)- sarà costruito un ospedale per le donne. E ce n’è un bisogno disperato in un paese in cui le donne non rivelano una malattia o altri problemi femminili ad un dottore uomo. In particolare- e questa è l’attrattiva maggiore del libro- si porta alla luce il dramma dell’usanza delle spose bambine il cui utero non è pronto per affrontare una gravidanza per cui l’esito di questa è spesso fatale, sia per la mamma sia per il bambino. L’altro grande problema è connesso con questo- nell’impossibilità di negarsi al marito, le donne hanno una gravidanza all’anno e la mortalità delle donne e soprattutto dei bambini è molto alta.


    Il party verrà interrotto per un incidente che sarebbe potuto finire molto male. Il piccolo e vivacissimo Ishan Bhatia, unico figlio maschio del primogenito di casa, viene avvolto all’improvviso dalle fiamme- sono stati i lumini accesi dappertutto in giardino a causare l’incendio? Si salva grazie alla sua ayah, Sunanda, che rimane seriamente ustionata. Quello che accadrà dopo ci fa dubitare che si sia trattato di un banale incidente. Sunanda viene mandata via con ben poco riguardo per le sue ustioni nonostante le raccomandazioni di Perveen e della sua amica medico e poco dopo Perveen viene a sapere che è stata arrestata. La denuncia, fatta alla polizia da una persona che non ha lasciato un indirizzo, è piuttosto fumosa. La ragazza avrebbe bevuto un infuso per abortire. Tutto è strano in questa denuncia. Sunanda non è sposata, con pudore nega di aver mai avuto rapporti. Eppure, eppure, deve essere stata traumatizzata. È stata stuprata? come? quando? Nella società indiana del 1922 (non sono certa che da noi sarebbe stato diverso) come può una ragazza parlare di mestruazioni davanti ad avvocati dell’accusa uomini? E a Perveen non è permesso prendere la parola in tribunale.

    La trama segue più di un filone. Perveen cerca di scoprire chi vuole che Sunanda resti in prigione e che cosa è successo il giorno in cui l’ayah ha accompagnato i bambini alla festa organizzata dal nawab (fresco di matrimonio con un’australiana). Nello stesso tempo muore per avvelenamento da piombo il capofamiglia dei Bhatia- quali interessi sono in gioco, quali appalti si stanno contendendo i magnati di Bombay? Perfino l’inglese di cui Perveen è innamorata è stato incastrato in un lavoro che implica una possibile rivendicazione di terre da parte dei colonizzatori britannici.


    Una sottotrama che coinvolge la cognata di Perveen riporta l’attenzione alle problematiche femminili. Gulnaz ha partorito da poco e non sopporta il pianto estenuante della neonata (anche Perveen è piuttosto infastidita, a dire il vero), litiga con il marito di cui rifiuta le attenzioni e, senza neppure vestirsi, ordina all’autista di riportarla a casa dei suoi genitori- con le conoscenze mediche maggiori, oggi sappiamo che sta soffrendo di una depressione post-partum.

   Se ci aspettiamo da “La signora di Bhatia House” un thriller ‘forte’, saremo delusi. È piuttosto un mystery gentile con i toni pacati dei gialli di altri tempi, senza brividi e con qualche prevedibile sorpresa. Quello che è veramente interessante, però, è il risveglio di una presa di coscienza dei problemi delle donne, sottovalutati e trascurati in una società in cui le donne hanno ben poca importanza, in un’India che si sta risvegliando nella scoperta dei soprusi britannici, mentre gli indiani sono stanchi della discriminazione- una sorta di Apartheid ante litteram, mentre Gandhi esorta alla non violenza dalla prigione.



mercoledì 30 ottobre 2024

Ilaria Tuti, “Risplendo Non Brucio” ed. 2024

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia

cento sfumature di giallo
thriller storico

Ilaria Tuti, “Risplendo Non Brucio”

Ed. Longanesi, pagg. 390, Euro 20,90

 

   Con “Risplendo Non Brucio” (bellissimo titolo, molto significativo) Ilaria Tuti accantona il romanzo di indagine poliziesca che ha Teresa Battaglia come protagonista e ritorna al genere storico, inaugurato con “Fiore di roccia”. Questo è un thriller storico, per essere più precisi, un’indagine alla ricerca di due assassini nel quadro più vasto della seconda guerra mondiale dove gli assassini sono molti, purtroppo, e i loro crimini sono di un’efferatezza senza paragone.

   Le trame sono due e pure le ambientazioni sono due- il castello di Kransberg e Trieste-, due i personaggi principali- il professor Johann Maria Adami e sua figlia, la dottoressa Ada Adami. È inverno, l’inverno che segue il luglio 1944 del fallito attentato a Hitler e il Führer ha paura, nascosto nel bunker di uno dei suoi Nidi d’Aquila, a Kransberg, per l’appunto.


    Il professor Adami è uno degli scheletri viventi che si aggirano a Dachau, un prigioniero politico. L’ufficiale nazista che viene a cercarlo era stato suo alunno- ora ha un’aria sprezzante di rivincita per la sua superiorità. L’acume del professor Adami è richiesto per far luce sul caso di un giovane nazista che pare essersi suicidato buttandosi giù dalla torre del castello. Ma- e se non fosse suicidio? Se si trattasse di un complotto per eliminare Hitler? Più di un ricatto viene usato per forzare Johann Adami a sciogliere i dubbi- ogni giorno che passa uno dei prigionieri inglesi sarà giustiziato e che messaggio gli si vuol fare arrivare con il succhiotto azzurro che gli hanno messo in tasca?

    A Trieste Ada è sola. Si sente tradita dal padre che ha scelto la coerenza con la sua coscienza e l’ha abbandonata. Non ha più notizie di lui e neppure del marito che si è unito ai partigiani. E poi trema per il suo bambino che un parto con il forcipe ha lasciato con una gambetta più debole- rientrerebbe nell’Aktion T4 dei nazisti? La Risiera di San Sabba, in origine costruita per la pilatura del riso, era diventata un campo di concentramento nazista, le sue ciminiere eruttavano fumo e ceneri. C’erano macchie di sangue sulla neve fuori dalle sue mura- era lì che la giovanissima Margherita, figlia di una famiglia triestina molto in vista era stata aggredita? Non era la prima vittima del mostro che lasciava segni di morsi sul corpo delle ragazze. Ada deve trovare il colpevole, per amore di Margherita e per amore di sua madre che è come una sorella per lei. E forse si avvicina troppo a scoprire la verità, forse la sua stessa vita è in pericolo…


    I due filoni scorrono a capitoli alterni e l’avvicendarsi delle due vicende con i due diversi protagonisti che danno voce a due diverse maniere- maschile e femminile- di vivere la Storia, assicurano l’interesse costante del lettore. Si tratta di due indagini su due crimini che- a ben vedere- potrebbero essere considerati irrilevanti accanto all’operazione di sterminio che ha luogo a Dachau e alla Risiera, che importanza possono avere i prigionieri fucilati e i corpi di chi è stato gettato vivo nelle foibe perché accusato di fascismo? E invece- e non a caso sia Ada sia suo padre sono medici che hanno fatto il giuramento di Ippocrate- “nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è una parte del tutto…La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Sono i versi di John Donne a ricordarci che la tragedia di un crimine non si calcola con i numeri. E vivere non vuol dire sopravvivere, vuol dire non dimenticarsi mai che siamo esseri umani, che non dobbiamo diventare homo hominis lupus.

     Una storia di integrità, di coraggio, di amore filiale, di amore materno, di resilienza, con personaggi veramente esistiti (come l’Obersturmführer Josef Oberhauser a cui fu affidato il comando della Risiera nel 1945), personaggi fittizi e  in più…un pizzico di giallo.



   

 

 

domenica 27 ottobre 2024

Yokomizo Seishi, “Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami” ed. 2024

                                            Voci da mondi diversi. Giappone

cento sfumature di giallo


 Yokomizo Seishi, “Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami”

Ed. Sellerio, trad. F. Vitucci, pagg.411, Euro 16,00

  

  Un altro romanzo di Yokomizo Seishi, lo scrittore giapponese nato a Tokyo nel 1902 e morto nel 1981 che iniziò a pubblicare negli anni ‘30 del Novecento i suoi ‘gialli’ che hanno per protagonista il detective Kindaichi.

Come i libri precedenti, anche “Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami”, è un mystery, un tipo di ‘giallo’ pieno di interrogativi da risolvere, un puzzle di cui si devono cercare le tessere, ricco di colpi di scena, di piste che non portano da nessuna parte e di false piste.

    Qui tutto inizia con una lettera inviata a Kindaichi da uno studio legale della città di Nasu insieme ad un libro intitolato La vita di Inugami Sahee. Il suddetto Inugami Sahee, morto di recente (in un febbraio degli anni ‘40) nella sua casa sul lago di Nasu, era stato il fondatore di un vasto impero industriale ed era conosciuto come il re della Seta Grezza. Si era fatto da solo, aveva avuto però la fortuna di incontrare, a diciassette anni, il sacerdote scintoista Nonomiya che lo aveva aiutato (e molto probabilmente aveva avuto una relazione amorosa con lui. Nella lettera l’avvocato esprimeva il timore, anzi la quasi certezza, che qualcosa di terribile potesse accadere. Parlava addirittura di un possibile delitto, pregando Kindaishi di recarsi sul posto.


    La questione spinosa è legata al testamento di Inugami, un testamento pieno di codicilli in cui il capofamiglia prendeva in esame tutte le varianti della successione- sembrava veramente un invito ad un omicidio.

Un albero genealogico ad inizio libro aiuta il lettore occidentale, confuso da tutti i nomi simili in cui si imbatte nella famiglia di Inugami Sahee che non si era mai sposato e aveva avuto tre figlie da tre donne diverse. Nel suo testamento Inugami non considerava affatto le figlie, per cui non aveva avuto mai affetto. I possibili eredi sono i nipoti maschi- Sukekiyo, Suketake e Suketomo. Il privilegiato è Sukekiyo che però non è ancora tornato dalla guerra. E poi, con sorpresa generale, c’è la bellissima Tamayo, nipote del sacerdote scintoista, e spunta anche un nome maschile che nessuno ha mai sentito, un tal Shizuma. Chi è? Che rapporti aveva con Inugame?


    La questione sarebbe già abbastanza intricata senza l’aggiunta del ritorno di Sukekiyo. Il quale, però, è stato ferito in guerra e porta sul viso sfigurato una maschera di gomma che ne riproduce le fattezze in una fissità enigmatica. E’ veramente lui? In gioco c’è il patrimonio, legato al matrimonio con la bella Tamayo.

   Già era morto l’avvocato che aveva scritto la lettera, inizia poi la sequenza di altri omicidi commessi in maniera ‘fantasiosa’ che allude ai tre simboli di potere della casata, il crisantemo, il koto (strumento musicale a corde) e l’ascia).

Koto

Vengono fuori segreti taciuti fin troppo a lungo, legami amorosi insospettati, figli illegittimi, gelosie e desideri di vendetta con un breve flash sulla guerra combattuta dal Giappone in Birmania.

   L’ambiente è un paesaggio innevato e freddo come i sentimenti nella famiglia Inugami, anche la celebrata bellezza di Tamayo è fredda. Tutto ben lontano dal Giappone colorato di rosa dei fiori di ciliegio.  

    Una piacevole lettura senza scossoni che fa pensare al genere di indagine deduttiva di Poe, perfetta per chi ama esplorare le cento sfumature del giallo.



venerdì 25 ottobre 2024

Jean-Baptiste Andrea, “Vegliare su di lei” ed. 2024

                                                             Voci da mondi diversi. Francia

          love story
        premio Goncourt

Jean-Baptiste Andrea, “Vegliare su di lei”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Simona Mambrini, pagg. 480, Euro 22,00

 

    Francia. Primi anni del ‘900. Una famiglia di immigrati italiani. Lui fa lo scultore. Quando nasce un bambino, il nome pare ovvio. Si chiamerà Michelangelo. Un paradosso: il nome di un ‘grande’ per un bambino affetto da nanismo. Eppure Michelangelo, chiamato Mimo, diventerà anche lui un grande scultore, ricercato dai ricchi (anche dal Papa) che vorranno potergli commissionare statue celebrative.

    Muore il padre in guerra, la madre non riesce a tirare avanti e manda Mimo in Italia, da uno ‘zio’ che in realtà non è suo zio, un altro scultore che ama più il vino che la pietra da scolpire. Eppure, di nascosto, incorrendo nelle sue ire, Mimo inizia ad usare lo scalpello. E quello che fa è sorprendente.

   All’inizio del romanzo Mimo sta morendo. Da anni si è ritirato in un monastero, senza però prendere i voti. La sua storia, quindi è un ritorno al passato, ad una lunga vita trascorsa tra eccessi, guardando le stelle e rotolandosi nel fango. A Pietra d’Alba, dove Mimo vive in una sorta di sudditanza allo zio, vive anche una ricca famiglia nobile- sono gli Orsini. Hanno quattro figli, gli Orsini- il primogenito muore in guerra, il secondo sarà un fedele del Duce, il terzo entra nella Chiesa e il quarto, il quarto è l’unica femmina, Viola. E sarà il grande amore di Mimo.


     Si incontrano quando hanno tredici anni, Mimo e Viola. Si continueranno a incontrare di nascosto nel cimitero, luogo dove nessuno verrà mai a cercarli.  Hanno entrambi un sogno- lui di diventare un grande scultore, lei di volare. Viola vuole costruirsi delle ali per volare, come ha visto nei disegni delle macchine di Leonardo. E Mimo la asseconda. La prima grande statua che Mimo scolpisce è un regalo per lei, è un Orso che esce con impeto dal blocco di marmo. Per i più è un riferimento allo stemma della casata, per loro due è l’orso che Viola ha addomesticato e che ha fatto nascere la leggenda che lei sia capace di trasformarsi in un orso.

     E poi…Viola prova sul serio a volare e l’esito è prevedibile, Viola scompare dalla vista di tutti, Mimo ne chiede invano notizie. Finché viene a sapere che si sposa. Lui non è più il ragazzino ingenuo che è arrivato a Pietra d’Alba. Ha lavorato in un circo, interpretando un ruolo per cui si disprezza, beve (tanto, come lo ‘zio’ che disprezzava), ha frequentazioni poco raccomandabili. Ma deve avere un angelo custode (Viola? Il fratello sacerdote di Viola?) che lo tira fuori dalla sozzura e dall’ignominia. Diventerà veramente un acclamato scultore finché la pietra non gli dirà più niente, finché sarà come cieco, non vedrà più la bellezza nascosta.

    Il tempo è passato, dapprima ci sono state le avvisaglie, poi l’avvento del Duce è diventato realtà. Viola, lo spirito libero, la donna anticonvenzionale che ama la libertà, è acerrima nemica del fascismo. Mimo non sa resistere, è un opportunista. Fino ad un certo punto.


    Quasi un secolo di Storia d’Italia fa da sfondo a questa storia d’amore fuori dagli schemi, una storia che è un inno alla libertà, alla ricerca della bellezza anche dove è nascosta, all’arte che è la sublimazione dello spirito nella materia. Se anni prima l’Orso in qualche maniera raffigurava Viola, l’ultima creazione di Mimo è una Pietà che solo ad una occhiata superficiale può sembrare simile alla Pietà del Buonarroti. C’è Viola in quella Pietà, c’è lo strazio di Viola morente in quella statua. Tutti la cercano nel viso della Madonna, ma dovrebbero guardare meglio, perché non è solo Maria che soffre nella Pietà di Mimo Vitaliani.

     “Vegliare su di lei” ha vinto il premio Goncourt 2023 ed è un affresco così ricco di personaggi ordinari e straordinari, realmente esistiti e inventati, di vicende normali o con qualcosa di fantastico, di episodi reali (il massacro di immigrati italiani ad Aigues-Mortes, in Francia, nel 1893 e la deportazione degli ebrei) e altri fittizi, che è impossibile darne un’idea precisa. Leggetelo e aggiungiamo Mimo ai ‘nani’ o altri personaggi deformi famosi della letteratura, a Oskar del “Tamburo di latta” di Grass e a Quasimodo de “Il gobbo di Nôtre Dame”.



martedì 22 ottobre 2024

Håkan Nesser, “Quattro fratelli per un delitto” ed. 2024

                                                                 vento del Nord

cento sfumature di giallo

Håkan Nesser, “Quattro fratelli per un delitto”

Ed. Guanda, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 362, Euro 18,05

      Natale 2020. Imperversa il Covid-19. In Svezia dove la mortalità è alta (e l’autore non risparmia di frecciate il governo per le politiche adottate), le riunioni familiari devono limitarsi ad un massimo di sei persone. In realtà saranno in sette a Sillingbo, anche se gli invitati non lo sanno ancora perché ognuno pensa di essere l’unico. Ludvig, Leif, Lars, Louise- i nomi dei tre fratelli e della sorella iniziano tutti per la stessa consonante. Tre di loro hanno raggiunto la notorietà, anche se in campi diversi- Ludvig è un pittore molto famoso, Leif è professore universitario, Louise è un’attrice (o era, perché da quando c’è il Covid non è stato più possibile girare nessun film). Solo Lars sembra essere mediocre, gestiva due ristoranti che erano stati proprietà del suocero. E solo Leif arriva da solo (è gay, anche se in famiglia si finge di non sapere), perché Ludvig è arrivato con una giovane compagna francese, Lars con la moglie e Louise con la figlia. È stato Ludvig a invitarli, è ammalato e voleva vedere i fratelli e la sorella per una ‘riconciliazione’ dopo anni che non si incontravano, 25 per la precisione.

     La grande casa, che una volta era una scuola, è isolata, ai margini della foresta. Nevica, come è d’obbligo a Natale, in Svezia. In paese si racconta ancora di un delitto mai risolto- una maestra era stata assassinata e la sua bambina era stata così traumatizzata da non parlare per due anni. Si diceva che di tanto in tanto si sentiva gemere un fantasma nella casa.


    È l’atmosfera perfetta per un ‘delitto a porta chiusa’. Se a noi viene in mente “Trappola per topi” di Agatha Christie, è anche lo stesso autore che nomina il famosissimo ‘giallo’ di Agatha Christie. E infatti c’è un delitto: viene ucciso il fratello maggiore e scompaiono due quadri. Si vuol far credere che un ladro sia stato sorpreso e abbia ucciso Ludvig? Non ha senso che un ladro sia entrato in casa adesso, avrebbe potuto agire nei lunghi periodi in cui la casa era disabitata. Di che cosa avevano parlato i quattro fratelli nella riunione a cui solo loro avevano partecipato, su richiesta di Ludvig? Tutti tacciono, tutti insistono sulla ‘riconciliazione’ desiderata da Ludvig che si era riavvicinato a Dio negli ultimi tempi.

    Entrano in scena Gunnar Barbarotti e Eva Backman, incaricati di scoprire il colpevole. E Gunnar Barbarotti è Gunnar Barbarotti, uno dei commissari più simpatici della scena letteraria. Macina lento ma ha intuito, ha la battuta pronta e un senso dell’umorismo che fa spuntare il sorriso sulle nostre labbra. È un umorismo gentile e giocoso, quello di Nesser e del suo Barbarotti, estremamente piacevole.

Barbarotti sullo schermo televisivo

   Alla fine della vicenda i fratelli non sono più quattro (quello che ci fa pena è il fratello più fragile, Lars, sempre bullizzato dagli altri), la soluzione dell’enigma si trova scavando nel passato e tornando alla festa di Mezza Estate in cui i fratelli Rude si erano incontrati per poi non vedersi né sentirsi più per 25 anni.

     Una bella atmosfera nel silenzio innevato della Svezia, anche se ci riporta all’anno da incubo del Covid- il virus che è l’altro assassino del romanzo, così come le dicerie sul fantasma della donna uccisa sono un legame con un altro fantasma che turba le menti dei protagonisti. È impossibile sfuggire ai sensi di colpa.

    Un’ultima breve osservazione: il titolo italiano è troppo esplicito. Non conosco lo svedese ma, per somiglianze con il tedesco, mi sembra essere diverso.



   

 

domenica 20 ottobre 2024

Elena Fischer, “Paradise Garden” ed. 2024

                          Voci da mondi diversi. Area germanica

                                             romanzo di formazione

Elena Fischer, “Paradise Garden”

Ed. Gramma, trad. Susanne Kolb, pagg. 272, Euro 18,05

 

      Mia madre è morta questa estate.

   Quattordici anni è un’età di merda per perdere la madre.

Due frasi così, in apertura del libro, sono un pugno nello stomaco. Un altro pugno che ci fa piegare in due arriva subito dopo, durante il funerale ‘nel giorno più caldo dell’anno’, mentre la bara viene calata nella fossa. Se lei sperava che la mamma comparisse al suo fianco, la prendesse per mano e la portasse via- be’, la mamma non era comparsa. È comparso invece il mio primo ciclo. Può esserci qualcosa di più terribile che diventare donna con il soprassalto di sentire il sangue scorrere sulle gambe e avere appena perso la mamma che avrebbe potuto spiegare e rassicurare?

   La mamma si chiamava (o si chiama, perché la sua assenza è una presenza costante a fianco della figlia) Marika e lei, la figlia che è l’io narrante, Billie. Soltanto a sette anni, a scuola, aveva scoperto che il suo vero nome era Erzsébet. La mamma diceva che Billie era un diminutivo, ma molto più tardi lei verrà a sapere che è tutto un altro nome, che c’è una canzone intitolata con questo nome. E che la canzone deve aver avuto un significato per il cuore della mamma.


    Non abbiate timore che “Paradise Garden” sia un libro sdolcinato, come i libri per l’infanzia del passato dove bambini orfani scoprivano il nonno ricco o si addentravano in giardini segreti. Potrebbe esserlo ma non lo è, perché la voce di Billie ride anche se vorrebbe piangere mentre ricorda tanti episodi di vita passata, perché Marika è una madre giovanissima e tremendamente simpatica, perché  anche se in Marika e Billie c’è qualcosa di Pollyanna (la protagonista del famoso romanzo per bambini di Eleanor Porter che trova sempre qualcosa di positivo in tutto), ci divertiamo a leggere della polvere di stelle che questa mamma spargeva su tutto, trasformando in un divertimento andare a cercare i prodotti scaduti e scartati del supermercato quando i soldi erano finiti, fare la doccia calda approfittando dell’ingresso gratuito in piscina, far apparire la più grande avventura tuffarsi dal trampolino di dieci metri, fingere di essere in villeggiatura mettendo le sedie sul ballatoio quando faceva molto caldo. La mamma raccontava che se n’era andata da casa, in Ungheria, perché sua madre la picchiava, che era stata la prima ballerina al teatro di Budapest, che il padre di Billie l’aveva lasciata. Era tutto vero?

   La nonna, cattiva come quella delle fiabe, bussa alla loro porta, dice di essere ammalata e di avere bisogno di cure. Nella piccolissima casa in cui mamma e figlia abitano, la nonna si prende la stanza di Billie e tira fuori tutte le sue statuette di Gesù e le Bibbie (due, in caso una vada persa). È la fine dell’idillio. E poi succede il peggio, la vita di Billie ha una svolta, il romanzo ha una svolta.


    Fino a questo momento l’ambientazione era stata il condominio di periferia degradata, oltre a Billie i personaggi erano stati la madre e la nonna, l’amica ricca e ‘traditrice’ di Billie e gli amici poveri e generosi che erano anche i vicini di casa, l’unico spostamento era stato il viaggio vagheggiato e mai fatto con i soldi vinti per una risposta giusta ad un quiz radiofonico, adesso tutto cambia e il romanzo diventa, fino ad un certo punto, un romanzo ‘on the road’ con Billie che, pur non avendo la patente, si mette al volante e parte. Per dove, non lo sa neppure lei di preciso. Ha un bagaglio minimo, l’importante è che abbia il quaderno su cui prende appunti perché vuole diventare una scrittrice.


    “Paradise garden” era il nome del gelato più grosso che la mamma aveva comperato per Billie, quello che Billie ha perso è il Giardino dell’Eden, si chiama Sal Paradise il protagonista del romanzo “On the road” di Kerouac che Billie sta leggendo- è una traccia per noi lettori? Per Billie che vuole trovare suo padre, che sognava il mare caldo del Sud dell’Europa e invece arriva sul mare del Nord? è il Paradiso quello che trova in quell’isola semidisabitata e un poco selvaggia? Di certo mette insieme le tessere del puzzle della vita di sua madre. Ognuno ha la sua storia. Mia nonna ha una storia, ce l’ha mia madre e ce l’ho anche io.

    Un libro sfaccettato, che parla dell’amore, dell’essere genitori e dell’essere figli, dell’urgenza di trovare se stessi cercando le proprie radici. Un libro in cui l’eccesso di sentimento si stempera nell’umorismo, forse velato di lacrime ma anche di tenerezza e di gioia di vivere. Nonostante tutto.



venerdì 18 ottobre 2024

Murakami Haruki, “La città e le sue mura incerte” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Giappone



Murakami Haruki, “La città e le sue mura incerte”

Ed. Einaudi, trad. Antonietta Pastore, pagg. 560, Euro 21,80

 

     Ormai lo sappiamo. Prima di iniziare a leggere un romanzo di Murakami Haruki dobbiamo abbandonare la presa della ragione, dobbiamo affidarci alla  sua scrittura senza farci tante domande. Solo allora siamo pronti alla lettura.

     “La città e le sue mura incerte” è diviso in tre parti. La prima è un rifacimento di una novella del 1980 che aveva lo stesso titolo del romanzo. È la storia soffusa dell’incanto del primo amore di un ragazzo diciassettenne e una ragazza che ha un anno meno di lui. Poi lei scompare e lui, per cercarla, entra nella città che avevano passato ore insieme ad immaginare, in ogni minimo dettaglio. Nella seconda parte il protagonista, che ormai ha superato la quarantina, abbandona il suo lavoro e accetta l’incarico di direttore di una biblioteca in una piccola città. Nella terza parte, infine, la storia riprende il filo dentro la città dalle alte mura con un nuovo personaggio che aveva addirittura disegnato una mappa della città fantastica dopo averla sentita descrivere dal direttore della biblioteca.

    La storia dei due adolescenti ha la dolcezza della scoperta dell’amore, fatto di passeggiate, di soste sulle panchine del parco, di parole, parole, parole. Lei racconta della città con alte mura, aggiungendo dettagli che rendono credibile l’incredibile.


Quando lei scompare e lui entra nella città per cercarla, noi lettori siamo messi alla prova. C’è un Guardiano che sorveglia le mura, nessuno può uscire, chi entra deve abbandonare la sua ombra, unicorni tristi si aggirano per le strade e sono gli unici che possono uscire e rientrare. Quando muoiono, il Guardiano provvede a bruciarli. Il ragazzo viene assunto nella biblioteca, il suo compito è fare il Lettore di Sogni. I sogni che gli vengono consegnati in lettura hanno la forma di uova e, per poterli leggere, ha dovuto accettare che i suoi occhi venissero feriti (non ci viene mai spiegato come e perché, possiamo solo immaginare che i sogni non possano essere letti con una capacità visiva perfetta). Ci arrovelliamo anche sul significato dell’ombra che finirebbe per morire se non si ricongiunge al suo proprietario, che cerca di convincerlo a fuggire con lei. E pensiamo a Peter Pan a cui Wendy cuce la sua ombra, a Schlemil ne “La storia straordinaria di Peter Schlemil” di von Chamisso che vende la sua ombra al diavolo per acquistare la ricchezza.

    Nella seconda parte siamo in una città reale e il collegamento con la prima parte sembra è un’altra biblioteca- sembra allora che sia la biblioteca, il valore dei libri, il centro della narrazione. La realtà non è poi così semplice neppure in questa città isolata e con pochi abitanti. Il precedente direttore, che passa le consegne al protagonista, è un tipo stravagante. Indossa sempre un basco nero (e fin qui passi, anche se un basco in quella località del Giappone nessuno lo aveva mai visto) e una gonna a portafoglio sopra una calzamaglia nera. Ci spiegherà lui perché e quando ha iniziato a vestirsi così- è una storia molto triste. C’è dell’altro ancora, riguardo al vecchio direttore, dell’altro che, ancora una volta, è una sfida per la nostra ragione. Nella biblioteca, peraltro, incontriamo un altro personaggio che ha la sua dose di stranezza- un giovane con la sindrome del Savant, che ha, cioè, grandi limiti cognitivi ma anche capacità al di fuori della norma, ad esempio legge, legge sempre e legge di tutto e ricorda tutto.


     È questo giovane, che il protagonista chiama Yellow Submarine dalla scritta sulla sua felpa, che ci riporta nella città dalle alte mura dove il cerchio si chiude.

    “La città e le sue alte mura” è un romanzo che ci lascia perplessi. Come ho detto prima, siamo abituati all’atmosfera sospesa dei libri di Murakami, al passare dal mondo reale a quello immaginario attraversando un confine trasparente, a dialogare con personaggi che solo i protagonisti riescono a vedere, a cercare significati che possono essere diversi per ogni lettore, ma questa volta c’è molto di ‘già letto’, la narrativa è lenta e spesso ripetitiva. Ciò non toglie che non possiamo fare a meno di domandarci perché mai, anno dopo anno, il Comitato del Nobel dell’Accademia svedese non conferisca l’ambito premio a Murakami Haruki.