sabato 28 dicembre 2024

Viet Thanh Nguyen, “Io sono l’uomo con due facce” ed. 2024

                  Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

guerra del Vietnam
memoir

Viet Thanh Nguyen, “Io sono l’uomo con due facce”

Ed. Neri Pozza, trad. Massimo Bocchiola, pagg. 384, Euro 19,00

    Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce. Iniziava così “Il simpatizzante”, premio Pulitzer 2016.

È ancora l’uomo con due facce- si fa riconoscere nel titolo stesso- il protagonista del nuovo libro di Viet Thanh Nguyen, un romanzo di “Memoria. Storia. Ricordo”. E questa volta le due facce sono quella vietnamita e quella americana, quella di chi è stato ucciso e quella dell’uccisore, quella dell’obbediente figlio cattolico che si comporta come vogliono i suoi genitori e quella del figlio che vive una vita più libera, di nascosto, per non addolorarli. Un dualismo sofferto, difficile, sconvolgente.

    Quando inizia la memoria?, si chiede lo scrittore. Inizia con i suoi genitori che vengono sempre chiamati come un tutto unico, Ba Má, secondo l’uso vietnamita. È impossibile non condividere con lui l’ammirazione per il padre e la madre, che, dopo essersi sposati giovanissimi, erano fuggiti una prima volta dal Nord al Sud Vietnam e una seconda volta nell’aprile del 1975 (e abbiamo tutti negli occhi la scena diventata iconica dell’elicottero sul tetto e la ressa delle persone che cercavano di salire a bordo).


Si erano lasciati dietro i famigliari, soprattutto avevano abbandonato là la figlia adottiva, avevano dovuto far tacere le voci interne della colpa per sopravvivere nel nuovo paese con i due bambini- Viet e il fratello, maggiore di lui di sette anni. Viet aveva solo quattro anni all’epoca e anche lui avrebbe sofferto per un abbandono. Era stato impossibile trovare uno sponsor che li accogliesse tutti insieme e lui, così piccolo, era stato separato dalla mamma. Proviamo a immaginare che cosa voglia dire, a quattro anni, tra gente sconosciuta che parla una lingua di cui non si capisce una parola, senza la sicurezza della mamma a fianco, fatto oggetto di curiosità perché tanto diverso nell’aspetto. Ba Má erano dei gran lavoratori, la famiglia si era riunita presto a San José in California, avevano aperto un piccolo supermercato con un nome vietnamita che sbandierava la loro provenienza e che li metteva nel mirino degli xenofobi. C’era stata una sparatoria e Ba Má erano stati ricoverati in ospedale. Il giorno dopo erano di nuovo al lavoro. Una volta un uomo armato era entrato in casa loro, la madre era corsa fuori in camicia da notte per chiedere aiuto. Ma loro non erano esuli, non erano espatriati, e neppure immigranti. Loro erano rifugiati, avevano cercato scampo da un paese dove gli americani avevano avuto gran parte nella guerra e nella distruzione.

    I ricordi sul passato della famiglia, sugli studi da lui compiuti, sui sacrifici silenziosi che Ba Má avevano fatto per assicurare il meglio a lui e a suo fratello, si uniscono ai ricordi tramandati dai genitori attraverso i loro scarsi racconti e poi si intrecciano alla Storia, rivisitata anche attraverso i film e alla letteratura, tutti che esaltano l’impresa americana tacendo degli orrori, del napalm, delle morti dei civili, ponendo domande disturbanti allo scrittore sulla sua identità e sulla sua condizionata lealtà al paese che li ha accolti. Perché questo romanzo che, come viene detto nella nota finale, ha preso forma da una serie di interviste e conferenze e da una quantità di saggi già pubblicati dall’autore (a questo si deve la sua discontinuità e frammentarietà) è anche un’analisi spietata e corrosiva del razzismo americano profondamente radicato, non solo nei confronti dei neri, ma anche degli asiatici, dei latini, degli irlandesi (finché John Kennedy era stato eletto presidente), degli italiani. Non sono onesti con se stessi, gli americani che festeggiano il Ringraziamento- l’origine della festa non era solo per celebrare il primo raccolto dei Padri Pellegrini, ma anche il genocidio degli indiani.


    È un romanzo dalle molte facce, questo di Viet Thanh Nguyen, lo scrittore che rivela la sua identità nel nome Viet e nel cognome, quello di una dinastia (il 40% dei vietnamiti si chiama Nguyen). Dopo gli strali contro gli americani, dopo la pesante ironia nei confronti di un presidente facilmente riconoscibile il cui nome è barrato come per una censura, dopo il suo ritorno sempre rimandato nel paese lasciato da bambino dove gli dicono che parla bene il vietnamita per essere un coreano, Viet Thanh Nguyen ritorna al tema della famiglia, a Ba Má, alla pena di vedere il crollo della madre, all’ammirazione per la dedizione totale del padre per la donna che non aveva mai smesso di amare. E finiamo per pensare che questo libro sia, soprattutto e prima di tutto, un’elegia per la madre, per il suo coraggio, per il suo amore che non aveva bisogno di parole per esprimersi e che gli ha permesso di essere l’uomo che è.



 

 

martedì 24 dicembre 2024

Holidays

 


                           Buon Natale a tutti, specialmente ai lettori!

                                                        


lunedì 23 dicembre 2024

Ingvild Rishøi, “La porta delle stelle” ed. 2024

                                                   Vento del Nord

Ingvild Rishøi, “La porta delle stelle”

Ed. Iperborea, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg. 156, Euro 17,00

 

     Premessa. Scrooge mi è sempre stato antipatico, le favole buonistiche di Natale non mi sono mai piaciute, neppure la classica “Christmas Carol” di Dickens. Avevo fatto una prima eccezione lo scorso anno con “108 rintocchi” di Yoshimura Keiko, che non era poi una vera e propria favola di Natale anche se lo spirito era quello, e ne faccio una seconda con “La porta delle stelle” della scrittrice norvegese Ingvild Rishøi, una breve storia deliziosa per vivacità, sentimento con un pizzico di tristezza e uno di allegria. E non fatevi trarre in inganno dal titolo che sembra promettere un’apertura sul paradiso- la Porta delle Stelle è una delle bettole dove alle due figlie capita spesso di andare a ripescare il padre.

    Melissa ha diciassette anni, Rønia ne ha dieci. Vivono con il padre a Tøyen, alla periferia di Oslo. È Rønia la voce narrante che ci fa tenerezza e conquista subito il nostro cuore. Il padre è un uomo affettuoso e- non c’è dubbio- ama molto le figlie, inventa nomignoli per loro, si lancia in sogni impossibili insieme a Rønia, fantasticando su una baita nella neve, con il fuoco acceso e lui che spala la neve fuori della porta. Ma è un uomo che è incapace di tenersi un lavoro, prima o poi ricade nel vizio dell’alcol, le bollette non pagate si accumulano, Melissa teme che intervengano i servizi sociali.

Dapprima sembra un miracolo quando Rønia riesce a trovare un lavoro per il papà- si tratta di vendere alberi di Natale. Per un periodo troppo breve Rønia può sognare, gli armadietti di cucina si riempiono di provviste, mangiano spaghetti invece di cereali con il latte. Poi tutto finisce come le altre volte.


    Con la forza della disperazione Melissa riesce a farsi assumere al posto del padre ed entra in gioco tutto quello che fa di questo racconto una ‘favola di Natale’ quando tutti i miracoli possono succedere. Sono tante le persone gentili che le aiutano con discrezione, dal custode della scuola che dà sempre una parte del suo pranzo a Rønia perché lei ha dato il suo ad uno scoiattolo, al ragazzo che vende gli abeti insieme a Melissa e che escogita maniere per guadagnare di più sfruttando la presenza di Rønia per attirare i clienti (Rønia è troppo piccola per lavorare e i sotterfugi per ingannare il proprietario sono esilaranti), allo sconosciuto che regala un albero, il più bello, perché Rønia possa avere l’albero di Natale che tanto desidera.

    Non c’è una morale nella storia, i sogni sono bilanciati da una cruda realtà, c’è l’amore che lega le sorelle tra di loro e quello per il padre che, però, si alterna con attimi di disprezzo che sconfina nell’odio quando, nell’ubriachezza, si mostra un uomo debole e irresponsabile. Ma i miracoli possono sempre accadere, La Porta delle Stelle può veramente trasformarsi nell’ingresso di un luogo pieno di luce e senza tristezza, dove il papà arriverà cercando il suo Diamante e il suo Smeraldo e dovrà mettersi gli occhiali da sole- come dice sempre- quando le vede.




 

martedì 17 dicembre 2024

Irina Turcanu, “Manca il sole ma si sta bene lo stesso” ed. 2024

                                                           Voci da mondi diversi. Romania

     romanzo di formazione

Irina Turcanu, “Manca il sole ma si sta bene lo stesso”

Ed. Marsilio, pagg.240, Euro 16,15

 

     Tre personaggi, tre voci diverse, tre punti vista diversi. Sono i Romanencu, il padre, la madre e la figlia. Nella prima parte del romanzo i tre punti vista si alternano, poi resta solo quello di Ina e nel nome, un diminutivo di Irina, riconosciamo la scrittrice stessa.

    La storia della famiglia inizia dopo la caduta di Ceaučescu, quando, nell’ebbrezza della fine della dittatura, tutto sembra possibile- arricchirsi, avere gli agognati beni di consumo che si invidiavano ai paesi occidentali. I Romanencu si improvvisano imprenditori. Falliscono. Lui è professore universitario, la moglie è ignorante ma è bella e lui ne è innamoratissimo. Devono adattarsi a vivere insieme alla madre di lei, poi decidono di emigrare in Italia. È soprattutto lei che ambisce a cambiare paese. L’Italia è quella che appare negli spettacoli televisivi, tutto sembra facile laggiù.

    La realtà è ben diversa. La vita per lui è di certo peggiore che in patria. Anche se ci mette la buona volontà, i lavori manuali (gli unici che può trovare) non fanno per lui e viene regolarmente licenziato. Le donne hanno maggiori possibilità di lavoro, come domestiche, come badanti. Infatti lei viene assunta da una famiglia ricca e, in seguito, quando il padrone di casa si separa dalla moglie, le chiede di andare con lui a vivere nella casa di sua madre, in un paese sugli Appennini. Il seguito ci pare ovvio.


    Ina è stata lasciata in Romania, dalla nonna. Come vive una bambina la lontananza dai genitori? È il padre che le manca, più della madre. È brava a scuola, fin troppo brava se una volta viene punita dall’insegnante per aver scritto una poesia così bella che la professoressa pensa l’abbia copiata. Attraverso le reazioni di Ina, quando riceve i pacchi regalo di sua madre, quando si rifiuta di rispondere al telefono quando lei la chiama, noi capiamo la sua sofferenza, il suo sentirsi abbandonata, non voluta. Capisce tutto, anche quello che sarebbe meglio non capisse- il tradimento della madre, l’alcolismo del padre, la loro ‘caduta’.

    Poi cambia tutto. La madre invita Ina in Italia per una vacanza. È un inganno. Ina si fermerà e abiterà con lei, la madre l’ha già iscritta al liceo a Piacenza.


    “Manca il sole ma si sta bene lo stesso” (il titolo è preso da un verso di una poesia di George Cos,buc) è un romanzo di formazione bello e diverso, direi che è più ricco di altri che abbiamo letto. Gli anni di ‘formazione’ della protagonista sono visti accanto all’evoluzione dei due personaggi adulti, a come il padre e la madre reagiscono e crescono o cadono come conseguenza dei cambiamenti politici e dell’espatrio. E Ina vive prima l’abbandono e, nonostante la giovane età, scopre che l’affetto non si può comprare, che i jeans che la madre le spedisce non sostituiscono la sua assenza, e poi il trapianto forzato in un paese di cui non sa la lingua e in cui non conosce nessuno, lasciando dietro di sé il suo primo amore e la nonna che l’aveva colmata d’affetto. Di Ina ammiriamo la resilienza e l’ambizione. Ha la fortuna di incontrare professori che l’aiutano e la incoraggiano, ma la forza interiore e la caparbia volontà di riuscire là dove padre e madre hanno fallito è tutta sua.

     Un romanzo da leggere perché è una lezione di vita.

     Irina Turcanu è nata in Romania, vive in Italia dal 2001 e, dopo aver frequentato il liceo a Piacenza, ha conseguito la laurea in Filosofia a Milano con una tesi sul filosofo rumeno Emil Cioran. Attualmente collabora come giornalista a diversi giornali e riviste nazionali e locali.





     

 

venerdì 13 dicembre 2024

Ann-Helén Laestadius, “La ragazza delle renne” ed. 2024

                                                                      vento del Nord



Ann-Helén Laestadius, “La ragazza delle renne”

Ed. Marsilio, trad. Sara Culeddu e Alessandra Scali, pagg.

 

   Noi la conosciamo come Lapponia, ma per gli abitanti indigeni si chiama Sapmi e loro stessi non sono lapponi ma sami. È una regione all’estremo Nord dell’Europa e il suo territorio è diviso fra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Sappiamo tutti del clima freddissimo, dei canti caratteristici, gli joik, delle tre ore scarse di luce nel mese di dicembre, dello spettacolo delle aurore boreali. Delle renne abbiamo un idea romantica e folkloristica e invece l’allevamento delle renne, animale insensibile al freddo e capace di sopravvivere in situazioni estreme, è essenziale per la popolazione sami.

    Il romanzo di Ann-Helén Laestadius, “La ragazza delle renne”, ci porta dentro il mondo dei sami ed inizia con una scena che ci dà subito la misura di questo mondo.

Elsa ha nove anni quando trova morto il suo cucciolo di renna- sì, il suo, era stata lei a marchiarlo sull’orecchio che adesso era nella neve. Avrebbe riconosciuto la piccola renna tra mille altre, perché aveva una macchia bianca sul muso. Elsa aveva visto chi era stato ad uccidere la renna. Era un uomo di cui aveva paura. L’uomo l’aveva guardata e aveva fatto il gesto di tagliarsi la gola con un dito. Il messaggio era chiaro- se parli sei morta.

Elsa ritornerà sconvolta a casa, l’immagine dell’uomo e del suo cucciolo di renna morto nella neve si imprimerà per sempre nella sua mente, sarà un ricordo costante. Ma lei non dirà mai il nome di Robert Isakson.


     Elsa, suo fratello, il padre e la madre, insieme alla famiglia dei vicini di casa, sono i protagonisti principali del romanzo. Loro sono ‘i buoni’, i sami che vivono, letteralmente, per le renne, che dipendono dalle stagioni dell’anno secondo cui le nuove renne devono essere aiutate a figliare e poi marchiate per mostrare la famiglia di appartenenza, portate ai pascoli. I sami vivono a contatto con la natura, non saprebbero vivere altrove- chi si allontana finisce sempre per tornare. E si preoccupano moltissimo per il cambiamento climatico (uno dei due grandi temi del libro insieme a quello della discriminazione)- non va bene che piova a febbraio, non vanno bene gli sbalzi di temperatura, ne soffrono tutti, le renne per prime che sentono cambiare la presa degli zoccoli sul terreno.

scena dal film

Dei sami, per lo più attraverso Elsa, veniamo a sapere tutto, dagli abiti colorati che indossano, a quei canti che sembrano un lamento, gli joik, alla predominanza della figura maschile nella società. Sono i figli maschi ad ereditare il patrimonio in renne, le donne non sono fatte per occuparsi di loro. Fa eccezione Elsa, che più di una volta mostra la sua abilità a gestire le renne, sembra quasi abbia una capacità particolare di intesa con loro. C’è un’altra cosa ancora da aggiungere, parlando della vita dei sami- la tendenza alla depressione. Forse è il clima, forse quel buio in gran parte dell’anno, forse anche la sensazione di combattere per un mondo che scompare senza speranza. Il suicidio del ragazzo a cui Elsa vuole bene ne è un esempio.


    A fronte dei sami, ci sono gli altri, ‘i cattivi’ fra cui c’è Robert Isakson. Sono quelli che chiamano i sami ‘lapponi di merda’, che uccidono le renne per venderne la carne e lo fanno impunemente, perché la polizia finisce sempre per archiviare i casi. Lo sanno tutti che cosa fa Robert Isakson, perfino le prove sembrano essere evidenti, eppure se la cava sempre, anche quando arriva a minacciare pesantemente Elsa.

    I personaggi del romanzo sembrano figurine di un presepe innevato, perché in realtà quello che giganteggia è proprio il paesaggio- distese bianche, alberi che grondano neve, le sagome delle renne con gli splendidi palchi di corna. “La ragazza delle renne” si legge con grande interesse anche se ci lascia con una sensazione di freddo, senza appassionarci veramente.



   

   

lunedì 9 dicembre 2024

Antonio Manzini, “Il passato è un morto senza cadavere” ed. 2024

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

cento sfumature di giallo

Antonio Manzini, “Il passato è un morto senza cadavere”

Ed. Sellerio, pagg. 564, Euro 17,00

 

   Lo avevamo definito ‘antipatico’, il vicequestore Rocco Schiavone, quando lo avevamo conosciuto per la prima volta nel romanzo “Pista nera”, il primo della serie che lo vede protagonista. Antipatico e scorretto. Scorretto lo è ancora, sembra che per lui non valgano le regole a cui dovrebbe attenersi, non si fa problemi ad entrare in casa altrui senza un mandato o a trattare qualcuno in maniera violenta per costringerlo a parlare. Antipatico no, non lo è più. Forse perché abbiamo imparato a conoscerlo, forse perché ha smussato alcuni lati del suo carattere, forse perché sappiamo quale dolore e quale senso di colpa gli hanno fatto perdere il gusto della vita. E comunque siamo contenti di ritrovarlo nel libro appena pubblicato, “Il passato è un morto senza cadavere”, titolo sibillino che comprendiamo leggendo.

   Nella classifica tutta personale di ‘rotture’ (Rocco continua ad aggiungerne di nuove, perché, alla fin fine, tutta la vita è una grande rottura per lui), il ciclista morto su una strada di montagna è al decimo livello. È stato investito ed è caduto giù per un burrone. Nessuna traccia dell’investitore. Viene poi fuori che in realtà l’incidente mortale è stato provocato da un’automobile che lo seguiva- un assassinio, quindi. Il ciclista morto si chiamava Paolo Sanna ed era un tipo a dir poco misterioso. Originario di Ancona, nessun lavoro,una famiglia ricca alle spalle, aveva cambiato dimora innumerevoli volte prima di finire ad Aosta. Sembrava quasi che fosse perennemente in fuga e che volesse nascondersi. Quel qualcuno di cui aveva paura lo aveva finalmente raggiunto?


    La trama non è semplice perché affonda in un passato che è difficile ricostruire. Difficile non solo perché sono passati tanti anni da quando chiaramente è successo qualcosa che però deve essere insabbiato. Che cosa? Il morto aveva dei tatuaggi sul corpo e altri suoi amici- ricercati con pazienza certosina in base a dei numeri telefonici trovati su un suo taccuino- ne avevano almeno uno uguale. C’era poi la stranezza della morte di quasi tutti questi amici, ancora giovani, in incidenti che, a ben vedere, sembravano costruiti ad arte. Ci sono delle tracce da seguire in questo ‘mystery’, come in una caccia al tesoro- i tatuaggi, un fiore velenoso su una tomba o accanto ad un morto, bare che non contengono nessun cadavere, lettere in una lingua che non è l’italiano…


    Una seconda trama affianca questa prima- la giornalista Sandra Buccellato è scomparsa. Rocco l’aveva vista al ristorante in compagnia di un brutto ceffo e si era chiesto che cosa mai facesse insieme a lui. Non è partita per una vacanza, al giornale non ne sanno nulla, i genitori dicono che è in Francia ma Rocco è certo che stiano mentendo. Perché?

    Se, nella prima indagine della trama, Rocco era il solito Rocco, cinico, scorretto e distaccato, è ben diverso in questa seconda. Rocco ha paura per la vita di Sandra e, nonostante quello che dice, anzi, senza volerlo neppure riconoscere con se stesso, è innamorato di lei. Ecco, allora, i suoi dialoghi con la moglie morta che lasciano presagire una nuova rassegnazione, ecco la riflessione, abbandonata e poi ripresa, sul vivere nel presente o nel passato. È l’inizio di un cambiamento, forse è arrivato il momento di lasciar andare il passato, di far sì che anche quello di cui si può godere nel presente non diventi passato.

   Questa seconda trama ci distrae, forse, dalla prima, ma ci obbliga a valutare il modus operandi di chi ha orchestrato i delitti paragonandolo con il comportamento di Rocco- si può accettare una giustizia riparatrice? E poi non sappiamo la sorte di Sandra, resteremo con il fiato in sospeso fino al prossimo romanzo.




venerdì 6 dicembre 2024

Jenny Erpenbeck, “Kairos” ed. 2024

                                             Voci da mondi diversi. Germania

         love story

Jenny Erpenbeck, “Kairos”

Ed. Sellerio, trad. Ada Vigliani, pagg. 391, Euro 18,00

   Dicono che Kairos, il dio dell’attimo fortunato, ha un ricciolo che gli ricade sulla fronte, e da quello soltanto lo si può trattenere. Ma il dio Kairos passa in un attimo accanto a noi e la parte posteriore della sua testa è calva e non offre nessun appiglio. Aveva davvero colto l’attimo fortunato, Katharina, quando aveva incontrato Hans?

    Berlino Est 1986. Lei, Katharina, ha diciannove anni. Lui, Hans, ne ha trentaquattro, sì, trentaquattro, più di lei. Significa che ne ha cinquantatre. Dieci anni più di suo padre. Ma l’amore è cieco, si dice.

Era l’11 luglio. È la data che festeggeranno ogni mese, il giorno di cui ricorderanno ogni minimo dettaglio del loro incontro- l’autobus che lei aveva preso per un soffio, gli sguardi che si erano incrociati, la pioggia, il caffè, la serata insieme. Lui è sposato (la moglie sopporta i suoi tradimenti, Katharina non sa ancora che lui è un amante seriale), ha un figlio. Lei studia composizione tipografica, lui scrive romanzi. Lui era cresciuto negli anni del nazismo (ricorda quando suo padre, negli ultimi giorni della guerra, aveva gettato la sua divisa della Hitler Jugend al di là del muro del giardino), lei conosceva soltanto il socialismo della DDR.


   La storia d’amore di Katharina e Hans ci viene raccontata in un continuo di punto e contrappunto, il punto di vista di lei e quello di lui, come ognuno dei due vive l’esaltazione dell’innamoramento, quando anche solo pochi minuti lontano dalla persona amata sembrano un’eternità, quando si ama tutto dell’altro, quando si dicono parole e si fanno piccole cose, come attaccare una rosa alla porta dell’amata, che mostrano l’esaltazione del sentimento, quando si è ciechi (avevamo detto, no?,che l’amore è cieco) e non si vogliono vedere i segnali di pericolo. Così Katharina non vuole vedere come l’uomo che ama si riveli a poco a poco in un sadico, egoista, possessivo, geloso, manipolatore. Il tempo passa, quando lui scopre che Katharina- è così giovane, dopotutto- è andata a letto con un collega di lavoro, il suo modo di punirla ricorda da vicino le punizioni esemplari dei regimi totalitari, esigendo confessioni forzate e reiterate, umiliandola, costringendola ad autopunirsi.

    Il romanzo inizia quando l’amore è finito da un pezzo e Katharina riceve la notizia della morte di Hans e uno scatolone pieno di carte- scontrini, biglietti e anche pagine che saranno una totale sorpresa per lei e per noi, che le riveleranno un’altra faccia di Hans.


    Insieme all’amore anche la DDR è finita da un pezzo, il muro di Berlino è stato smantellato, i tedeschi dell’Est si sono gettati famelici sui beni di consumo che avevano desiderato (anche Katharina era tornata da una visita alla nonna a Colonia, quando questa era ancora nella Repubblica Federale, con la valigia strapiena di cose introvabili all’Est), era sopraggiunta anche la delusione del rincaro dei prezzi, della difficoltà di trovare lavoro in questa nuova Germania unita. E poi era stato possibile accedere agli archivi della Stasi.


    La leggerezza della prima parte del romanzo, quella che è un canto d’amore, finisce per stancarci, perché diventa ripetitiva e noiosa, perfino banale. Lui mostra di essere un uomo orribile e solo motivazioni psicologiche neppure tanto difficili da comprendere possono giustificare l’innamoramento di Katharina. Così come è facile capire l’inebriamento della conquista da parte di un uomo più anziano. La seconda parte, quella in cui la fine dell’amore coincide con la fine della DDR, è molto più interessante e avrebbe meritato uno spazio maggiore nella narrativa.

   “Kairos” ha vinto l’International Booker Prize 2024.



 

lunedì 2 dicembre 2024

Valérie Perrin, “Tatà” ed. 2024

                                                             Voci da mondi diversi. Francia



Valérie Perrin, “Tatà”

Ed. e/o, trad. A. Bracci Testasecca, pagg 608, Euro 21,00

 

       2010. La zia Colette è morta. Capita a tutti di morire, non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che la zia Colette è già morta tre anni prima, è sepolta nel cimitero di Gueugnon dove ha sempre vissuto. Lei, Agnès, la nipote, non era andata al funerale perché si trovava in America e non avrebbe fatto a tempo ad arrivare. E adesso è morta di nuovo e Agnès deve andare a riconoscere il cadavere? Come è possibile?

   Il nuovo romanzo di Valérie Perrin, “Tatà” (nomignolo affettuoso per ‘zia’), inizia con un elemento di suspense, ma non sarà questo l’unico interrogativo per una vicenda che parte dal presente e si riavvolge sul passato, intrecciando le storie della famiglia di Colette con quelle di altre persone che entreranno a far parte della famiglia o che toccheranno da vicino la loro vita.

   Colette non aveva avuto un’infanzia felice. Era la primogenita di una famiglia povera, il padre era morto presto lasciando una vedova e tre bambini. Colette aveva fatto da mamma al fratellino Jean che avrebbe rivelato presto uno straordinario orecchio musicale- sarebbe diventato un pianista di fama mondiale e come avesse fatto, con quali sacrifici anche di Colette, è tutta una storia che coinvolgerà altri personaggi fino all’incontro di Jean con Hannah, una violinista eccezionale quanto lo è Jean come pianista. Agnès è la loro unica figlia, non assomiglia a nessuno dei due e ha scelto tutt’altra carriera- è sceneggiatrice e regista, i suoi film hanno vinto dei premi, lei ha sposato un attore, ne ha avuto una figlia, si è separata da lui e ne soffre ancora.


    Un fratello e una cognata musicisti, una nipote regista e lei, Colette? Colette, per permettere al fratello di studiare musica, ha fatto l’apprendista da un calzolaio, è diventata la sua figlia adottiva e poi ne ha rilevato l’attività, vivendo sempre nello stesso posto, senza perdere una delle partite della squadra di calcio di Gueugnon.

    Valérie Perrin adotta un espediente narrativo singolare per narrarci i retroscena delle vite dei suoi personaggi. Colette ha lasciato ad Agnès una valigia piena di cassette su cui ha inciso tutto quello che deve dirle- la sua amicizia con Blanche, la ragazzina del circo che le assomigliava come una sorella gemella, l’amore per un calciatore più giovane, la paura costante di essere raggiunte dal padre di Blanche che già aveva cercato di uccidere la moglie, segreti, segreti, segreti, fino a quello della doppia morte.


C’è qualcosa di stregante nell’ascoltare le cassette. Il metodo stesso- il vecchio registratore che Agnès bambina aveva ricevuto in regalo, le cassette che ormai sono scomparse dalla circolazione- ci parla di un altro tempo, come la voce che viene dal passato e si proietta nel futuro. Perché che cosa più di una voce può rimanere per sempre nell’animo di chi ascolta? Una voce è ‘più viva’ delle parole e delle immagini.

    Il romanzo di Valérie Perrin sembra raccogliere l’eredità dei grandi scrittori francesi che hanno raggiunto la fama con storie piene di avventure, amori, coincidenze, figli persi e ritrovati, assassinii e fughe, vicende al limite dell’incredibile. Ci fa pensare a Dumas e a Victor Hugo. È il genere del feuilleton che veniva pubblicato a puntate e mirava a tenere legata l’attenzione del lettore.

Così è per “Tatà” in cui c’è veramente di tutto (un po’ troppo, a dire il vero), con la storia del circo e il suo direttore malvagio e quella della morte dei genitori di Hannah nei campi di concentramento, un foglietto sotto il tasto di uno Steinway che ne rivela i proprietari, le due ragazze e poi donne che si assomigliano stranamente, una fotografia che rivela un’altra straordinaria somiglianza e altro ancora di cui ovviamente non parlo per non guastare la lettura.

    Valérie Perrin sa raccontare bene, sa tenere avvinti i lettori, anche se un centinaio di pagine in meno avrebbero alleggerito la narrazione.