Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
noir
il libro ritrovato
Kevin
Power, Giornataccia a Blackrock
Ed. Tropea, trad. Sebastiano Pezzani,
pagg. 282, Euro 16,50
In una notte di fine agosto, a
Dublino, un ragazzo viene ucciso da dei suoi coetanei con tre calci in testa,
all’uscita di un locale. Un narratore esplora le cause di quanto è accaduto,
ricostruisce l’infanzia del ragazzo morto e degli altri ragazzi coinvolti nel
fatto, li segue nelle aule delle scuole esclusive che hanno frequentato, sui
campi di rugby e infine nell’aula del tribunale dove la sentenza emessa non
sarà adeguata. Intanto la vita non sarà mai più la stessa per nessuna delle
famiglie coinvolte e viene alla luce l’ipocrisia dei valori tradizionali.
INTERVISTA
A KEVIN POWER, autore di Giornataccia a
Blackrock
Questo è un libro molto triste. Questo è un
libro che racconta una storia irlandese: ‘Ricordatevelo. Bisogna essere
irlandesi per capire perché è così importante, perché è uno spartiacque’. E’
quello che dice il narratore del romanzo scritto da Kevin Power, eppure, con
delle differenze ambientali e sociali, è una storia che potrebbe essere
accaduta ovunque nel mondo occidentale. La futilità di quanto accade ci
colpisce proprio per quello, perché ci capita spesso di leggere di simili
episodi di violenza che si scatenano senza un motivo giustificato.
Giornataccia a Blackrock, Bad Day at Blackrock: c’ è un’allitterazione
dal suono minaccioso nel titolo originale, sembra quasi di sentire il rintocco
di una campana a morto nella scelta dei due monosillabi iniziali seguiti dal
nome della località che è formato da altri due monosillabi, uno dei quali
significa ‘nero’ (quanto è cupo il colore di questo romanzo) e l’altro ‘roccia’
o ‘sasso’, quasi un’anticipazione di quello che ci verrà raccontato. Blackrock
è un quartiere di Dublino che può essere considerato il simbolo del boom
economico irlandese. Nella notte del 30 agosto 2004, all’uscita di un locale
notturno, un ragazzo di ventun anni viene ucciso durante una rissa. Viene
abbattuto con dei pugni, poi, quando è già a terra, lo colpiscono con dei calci
alla testa. Il 25 settembre tre ragazzi vengono arrestati. Ci sarà un processo.
La pena non sarà pesante per due di loro. Più o meno un anno di carcere per
uno, Richard Culhane, che sembra aver sferrato il calcio decisivo.
I fatti vengono raccontati da un narratore di cui ascoltiamo la voce
senza sapere chi sia. Lo scopriremo solo alla fine, quando scopriremo pure in
quale maniera sia anche affettivamente coinvolto- e ci viene da pensare a Il grande Gatsby. Perché anche nel
romanzo di Fitzgerald c’era un narratore esterno, Nick, che tuttavia conosceva
di persona tutti i protagonisti della vicenda. E c’era pure, nella motivazione
della tragica fine, la corruzione della ricchezza, lo svilimento dei valori
etici di chi crede che i soldi lo mettano al di sopra di tutto. In Giornataccia a Blackrock la voce
narrante esordisce dicendo, ‘Non posso raccontare questa storia.’, ‘Non c’ero’,
‘L’ho dovuta ricostruire’. Più avanti si contraddice, asserendo che questa è
l’unica storia che può raccontare, perché- e questo lo indovina il lettore- è
una storia che gli sta a cuore, per cui non avrà pace finché non l’avrà
sviscerata.
Il nome del ragazzo morto era Conor. Frequentava una scuola esclusiva,
come pure i tre ragazzi responsabili della sua morte. La rivalità delle scuole
dei quattro giovani, così come il gioco del rugby, l’aver frequentato l’una o
l’altra di quelle scuole private da parte del giudice, l’appartenere dei membri
della giuria ad una zona piuttosto che ad un’altra di Dublino- tutto questo
avrà una grande importanza nello spiegare quello che è successo e la
conclusione del processo. Il narratore, che è ossessionato da una frase che
qualcuno ha sentito dire quella notte, ‘Gliel’abbiamo fatta pagare a quello
stronzetto’, cerca le cause profonde di quell’omicidio. E le individua
nell’esplosione troppo improvvisa della ricchezza in Irlanda, un paese che fino
a poco prima del secolo XXI era stato quasi un paese del Terzo Mondo, il paese
della Grande Carestia, il paese della forte emigrazione dei disperati sulle
‘navi bara’ che solcavano l’Atlantico verso la Terra Promessa dell’America.
Ora i giovani irlandesi vanno in vacanza negli Stati Uniti, quasi fosse il grand tour che veniva giudicato
indispensabile per completare la cultura nell’800. La piscina che il padre di
Richard Culhane installa nel giardino di casa è un simbolo di questo nuovo
stile di vita. Così come lo sono, ad un livello inferiore, i capi di vestiario
per le ragazze- la felpa con le stelline, che Laura (era stata la ragazza di
Conor, era diventata la ragazza di Richard) indossava la sera della rissa,
costava 250 euro; gli stivali Ugg sono un ‘must’; pantaloni della tuta, sì, ma
di una certa marca. Non c’è l’abitudine alla ricchezza in Irlanda, bisogna
metterla in mostra. E poi c’è l’abitudine, o la moda, di bere smoderatamente. I
genitori non lesinano i soldi, non si beve più solo birra come una volta,
quando i poveracci dimenticavano sbronzandosi lo squallore della vita
quotidiana. I ragazzi bevono birra, poi passano ai super alcolici. I genitori
pagano i danni, al massimo fanno qualche ramanzina. La notte fatale i
buttafuori del locale notturno non avevano neppure lasciato entrare Richard
Culhane, perché era già troppo ubriaco quando era arrivato. Richard era rimasto
fuori, continuando a bere, covando la sua gelosia per Laura che indossava la
felpa con le stelline. Che Richard sapeva essere stato un regalo di Conor.
Una storia irlandese- è quello che l’autore ci ripete. Ma c’è anche
qualcosa di molto irlandese nelle allusioni letterarie del romanzo. La famiglia
Culhane esce distrutta dal processo. Non c’è più alcun futuro per Richard.
Lasciano la casa di Dublino (la piscina-simbolo è stata prosciugata) e si
ritirano a vivere nella solitudine di
Inishfall. Il narratore sa che prima o poi andrà a trovarli; ripete di frequente, quasi come
un mantra, ‘Andrò a Inishfall. Ma non ancora, non ancora’. E noi risentiamo
l’eco dei versi di Yeats (‘E adesso mi alzerò e andrò, e andrò a Innisfree’)
che sogna un ritiro di pace che non è certo quello di eterna espiazione dei
Culhane. Il narratore andrà ad Ovest: il punto cardinale che è la direzione
verso la morte e l’aldilà nella mitologia celtica, che, negli anni tumultuosi
della lotta contro la Gran Bretagna
rappresentava anche l’orgoglio nazionale, nelle contee dove si parlava ancora,
esclusivamente, il gaelico. Nella novella I
Morti di James Joyce, Gabriel Conroy, guardando la neve cadere nella notte,
pensava che ‘era tempo per lui di intraprendere il viaggio verso ovest’.
E’ un bel primo esordio narrativo, questo romanzo che mescola il genere noir
con la tecnica del romanzo di indagine e con la storia sociale, obbligando
tutti ad un esame di coscienza.
Stilos ha incontrato il giovane
scrittore irlandese.
Quello
che Lei racconta è un fatto realmente accaduto?
La vicenda è basata su un fatto realmente accaduto, romanzato,
naturalmente. E’ successo una decina di anni fa, un ragazzo è stato ucciso a
calci, fuori da un locale. Ha suscitato un’enorme controversia proprio perché i
ragazzi coinvolti appartenevano tutti a scuole private, erano ragazzi ricchi e
di successo.
Il suo
narratore dice che questa è l’unica storia che può scrivere. Questo è solo il
suo primo romanzo e ne scriverà di certo molti altri, ma ci sembra che questa
sia la prima storia con cui Lei volesse iniziare: è la storia della sua
generazione?
Penso proprio di sì. Volevo scrivere
di un piccolo mondo di cui non si era scritto finora nella narrative irlandese.
Quando sono andato all’università mi sono accorto, dopo aver frequentato un po’
di persone, che ero nella posizione peggiore per scrivere di questo mondo del
sud di Dublino. Sentivo di voler spiegare questo mondo: solo un romanzo poteva
descriverne e catturarne lo spirito.
Dice
che ci sono tre cose che rendono quello che è successo del tutto irlandese: il
fatto che i ragazzi fossero cattolici, che fossero ricchi in un paese che non
sa come gestire la ricchezza e che fossero i figli della classe dirigente. Ho
pensato che questi tre punti potrebbero essere validi anche per l’Italia e che
quello che è accaduto a Dublino è accaduto o potrebbe accadere anche da noi…
Ero piuttosto spaventato, scrivendo quella frase…perchè uno spera che
quello che scrive sia universale, che possa essere compreso negli altri paesi.
Si può fare questo in un romanzo: rappresentare qualcosa di universale che va
al di là del locale. Il motivo per cui il mio narratore dice che quanto accadde
era del tutto irlandese è che c’è in effetti una maniera molto irlandese di
fare le cose e che è dovuto al fatto che noi eravamo una colonia britannica, le
nostre scuole private copiavano il modello di Eton e delle altre famose scuole
inglesi dell’élite. Abbiamo fatto una fotocopia del sistema scolastico inglese,
ma siamo un piccolo paese post-coloniale e cattolico. La contraddizione di
queste due cose- aspirazioni e realtà- fa di questo avvenimento qualcosa di
molto irlandese.
Un
altro punto che Lei sottolinea è che i membri della giuria non erano del sud di
Dublino: quali sono le differenze tra le aree?
E’ qualcosa di cui non si parla
molto: l’area sud di Dublino è una zona molto di moda, è diventato costoso
viverci, è diventata la parte della città in cui i ricchi vogliono abitare.
Nella zona nord c’erano gli slum, un tempo, c’era il quartiere a luci rosse, ci
sono i docks. C’è dell’ironia nel dire che una giuria che non fosse del sud non
poteva capire: la zona sud è così claustrofobica, gli abitanti pensano di
essere loro che governano il paese, e io volevo farmi beffe del loro snobismo
sottolineando che pensavano che gli altri non avrebbero capito.
Al
contrario, il giudice simpatizza con i tre ragazzi perchè anche lui ha
frequentato la loro scuola. C’è sempre stata questa discriminazione riguardo
alla scuola frequentata, o è una cosa recente? Sappiamo bene che è una vecchia
tradizione in Gran Bretagna…
C’è sempre stata. Il Blackrock college
c’è da 150 anni, ha creato la classe al potere. Poi è successo che molti sono
diventati ricchi improvvisamente e le scuole private sono diventate di moda e
molto richieste- tutti volevano mandare i figli a queste scuole private, erano
un simbolo del successo.
Questi
ragazzi bevono smodatamente, ma l’alcolismo non è sempre stato il peccato
nazionale? Che cosa è cambiato nell’abuso di alcol?
Di certo i ragazzi della mia generazione iniziano a bere a quattordici,
quindici anni. Bevono talmente da perdere i sensi: è una forma accettata di
interazione, ma è anche un problema nazionale. Tolleriamo il consumo eccessivo
di alcol, ci sono moltissimi alcolizzati in Irlanda, è un problema e non c’è
nulla di divertente. I personaggi del libro bevono perché sono ricchi. Bevono
per dimostrare che possono permettersi di bere. Si beve per un motivo diverso
quando si è ricchi. In passato, quando si era molto poveri, si beveva per
dimenticare la miseria, ora non più. E i genitori tacciono perché sono quella
generazione di genitori liberali che reagiscono con il permissivismo
all’educazione cattolica e repressiva che loro hanno avuto. In questa maniera,
però, hanno perso qualunque autorità morale. Hanno paura di giudicare i figli.
L’Irlanda
è stata colpita dalla crisi, come altri paesi europei. Come hanno reagito i
giovani che sono cresciuti in questa ricchezza improvvisa?
Sono depressi.
Si sentono traditi. Gli hanno detto per anni- il governo, i media, i genitori-
che avrebbero fatto un sacco di soldi e invece ora l’Irlanda è azzoppata dai
debiti. I giovani non trovano lavoro, è già iniziata una nuova emigrazione,
verso Londra e verso il Canada, ma di certo i giovani non hanno la forza
interiore degli emigranti del passato. Perché non si aspettavano questo.
Non
credo di sbagliare, ho visto dei riferimenti a Yeats e a Joyce nel suo romanzo.
L’ Irlanda ha una grande tradizione letteraria: riescono a liberarsi di questi
miti i giovani scrittori? Oppure preferiscono incorporarli nei loro scritti,
cambiandoli con il cambiare dei tempi?
Yeats |
Dovevo venire in Italia per sentire
che qualcuno aveva scoperto le tracce di Yeats e di Joyce nel mio libro…ha
ragione, le frasi che cita echeggiano quelle della poesia di Yeats e della
novella di Joyce. C’è un grosso dibattito in Irlanda- se dovremmo continuare a
vivere all’ombra di Becket e di Joyce e di Wilde…A pensarci è strano, quasi
buffo, che ci siano così tanti scrittori famosi usciti da un’isola così piccola
e che dobbiamo restare nella loro ombra. E tuttavia Joyce è un esempio
eccellente, un genio, un uomo dedicato all’arte della scrittura. No, non ho
problemi ad avere questi grandi davanti a me- o dietro di me: sono
un’ispirazione. E’ inevitabile che ti entrino nel sangue e che si faccia
riferimento a loro, anche senza esserne del tutto consci.
Il
rugby occupa un posto importante nel romanzo: perché?
E’ buffo dire che io non so quasi nulla di rugby e ho dovuto chiedere a
mio padre, per saperne di più. Il rugby è importante perché fa parte della
cultura delle scuole private, come nei college americani. I ragazzi che giocano
a rugby sono popolari, acclamati, ricercati dalle ragazze. Eppure tutto questo
non sembrava naturale in Irlanda: è una moda importata dagli Stati Uniti di
recente. Io volevo sottolineare tutto questo, dando importanza al rugby: come
il rugby sia uno sport rubato all’Inghilterra e circondato dall’alone di
grandezza proprio dell’America. E’ qualcosa che non ci appartiene, che non è
della nostra tradizione, come la ricchezza.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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