mercoledì 18 ottobre 2017

Antonio Soler, "Il nome che ora dico" Intervista 2003

                                            Voci da mondi diversi. Penisola iberica
                                                   guerra civile spagnola



Antonio Soler è nato a Màlaga nel 1956. Giornalista e sceneggiatore televisivo, ha scritto parecchi romanzi di cui in italiano è stato pubblicato "Gli angeli caduti" (il Saggiatore, 2000), vincitore del Premio Herralde de Novela e del Premio Nacional de la Critica. "Il nome che ora dico" ha vinto invece il Premio Primavera de Novela. Abbiamo parlato con lo scrittore, a Milano per la presentazione del suo libro e per un incontro sul tema de "Il giallo nei giorni della guerra" presso l'Università Cattolica, con l'intervento di Bruno Arpaia, Laura Grimaldi e Julio Martinez.

La Spagna sta conoscendo un momento di straordinaria fioritura letteraria dopo un lungo silenzio e mi sembra chiaro che la letteratura sia strettamente connessa alla politica.
      Quando è morto Franco si sperava ci sarebbe stata una valanga di opere maestre che erano state tenute chiuse nei bauli per via della censura. Si diceva che ci sarebbe stato un momento di splendore. Invece fu il contrario, tanto che si arrivò a coniare un modo di dire, "contro Franco vivevamo meglio". Dopo alcuni anni ci fu un interesse interno, in Spagna, verso quello che facevano gli autori spagnoli, sia in letteratura sia nel cinema.
Quando Franco era al potere c'era una specie di complesso per cui si pensava che tutto quello che si faceva in Spagna non aveva interesse. C'era una parola che definiva tutto, "spagnolata". Se si parlava della fine di un film, per esempio, si diceva "non me lo dire neppure, intanto so che è una spagnolata", perché non poteva uscire niente di buono da quel periodo scuro. E' stato una decina di anni più tardi, a partire dal 1985, che c'è stato un cambiamento, un interesse da parte dei lettori e degli spettatori per vedere quello che facevano scrittori e registi. Cambia tutto in Spagna da questo momento. C'è stata una grossa crescita nella letteratura, perchè c'è stata un'evoluzione artistica e anche degli importanti cambiamenti artistici nello stile del romanzo.

 E poi, leggendo il suo libro, riflettevo a come i tempi più dolorosi e travagliati di una nazione siano anche quelli che ispirano le opere più belle.
     Credo che sia stato uno scrittore cubano, Alejo Carpentier, che ha detto che la letteratura nasce dalla sofferenza. Ha ragione. Evidentemente la letteratura nasce sempre da un conflitto. Non si può fare letteratura sentita profondamente sul volo di una farfalla o su un giorno tranquillo. La letteratura deve la sua origine alla storia di un conflitto, un racconto di sofferenza e di passione, e quale maggior conflitto della guerra? La guerra civile è la potenziazione di qualunque guerra, la metafora di qualunque altra guerra

Il suo libro è anche un libro della memoria: mi pare che questi siano gli ultimi anni in cui chi è nato durante o dopo la guerra può raccogliere i ricordi di chi ha vissuto la guerra. Come è nato il suo libro?
     La mia famiglia visse la guerra in modo intenso. Mio padre, di cui racconto in parte la storia nel libro, fu soldato repubblicano in Madrid assediata. La famiglia di mia madre dovette abbandonare la città per evitare la perdita di alcuni di loro a causa della militanza politica. Durante la mia infanzia, a differenza di altri bambini che ascoltano la favola di Cappuccetto Rosso, io ascoltavo dalla nonna le storie della guerra, in modo che si formò una specie di mitologia nella mia testa, una mitologia piena di storie, a volte drammatiche, a volte tenere e divertenti. Tutti quelli della mia generazione in Spagna sono cresciuti con l'ombra di una guerra di cui non capivano bene le ragioni.



Mi ha colpito la frase di Sintora che dicendo "ho perduto la mia patria" identifica la patria con la donna che ama. E mi ha colpito leggere la stessa frase in un romanzo irlandese ambientato durante la guerra di insurrezione. E' difficile immaginarsi un ragazzo di oggi dire una frase simile.
      Ah, certamente. Quando c'era Franco ci fu un tale abuso della parola "patria" che assunse un significato peggiorativo. Chi diceva "patria" era di destra, e se no era qualcuno che negava i suoi. Con questa frase il protagonista Sintora dice anche, "non mi ingannerete, so qual è la mia vera radice, qual è il vero senso della mia vita". E' stato anche un omaggio all'amore o alla donna che può essere il sentimento definitivo nella vita di un uomo.

 Anche nel suo precedente romanzo, "Gli angeli caduti", lei parla del mondo degli artisti, cantanti e ballerine in quello, nani, maghi, fachiri in questo. E il nome di Arturo Reyes ritorna in entrambi.
    
In tutti i miei libri ho sviluppato un universo che ha una logica interna, una concordanza, in modo che ci sono dei personaggi che appaiono in tutti i miei libri. Non è niente di nuovo, lo ha fatto anche Balzac, o Faulkner. I miei libri contengono storie indipendenti, ma si possono leggere come una continuità. Questa gente, il mondo degli artisti, sono persone che non si identificano con il mondo che li circonda, vivono in una marginalità e tendono a unirsi tra di loro, come i diseredati della terra che trovano rifugio tra la gente che è come loro.

 Entrambi i suoi romanzi non sono "per voce sola", piuttosto romanzi corali.
    Mi interessano i romanzi in cui il protagonista non è solo una persona. E' un modo di riflettere la vita: la vita è piena di personaggi secondari, anche se ognuno pensa di essere il protagonista assoluto del mondo. E a me i personaggi secondari interessano quanto i protagonisti. Quando lavoro su un personaggio secondario lo faccio con la stessa intensità con cui lavoro sul personaggio principale, tanto  che spesso penso che potrei scrivere un romanzo su uno dei personaggi secondari. Penso che lavorare a fondo sui personaggi minori contribuisca a dare maggiore prospettiva e profondità al romanzo. Mi pare che tutto sembri più vero.

Gli anni della guerra vengono chiamati gli "anni del furore", e viene in mente il verso di Shakespeare. Che significato hanno avuto gli anni della furia e del furore?
    In Spagna gli anni del furore ebbero un doppio significato perché la guerra fu la fine di un sogno, il sogno della repubblica. Dobbiamo considerare che la democrazia in Spagna è durata 5 anni: quando iniziò la repubblica, nel 1931, fu anche l'inizio di un sogno e la guerra civile fu la fine sanguinante di questo sogno, l'inizio di un tunnel che è durato 40 anni. La furia della guerra spagnola è smisurata, perché, ad esempio, l'ultima guerra in Italia è finita, sì, con grande sofferenza, ma poi è iniziata un'epoca di speranza. In Spagna, invece, la fine della guerra è stata l'inizio della dittatura, di oscurità, della censura, della mancanza di libertà, tutto molto più doloroso. In definitiva fu la fine di un sogno.   


Antonio Soler, "Il nome che ora dico"    


Ed. Tropea, pagg.222, Euro 14,00

Nessun commento:

Posta un commento