venerdì 30 settembre 2016

Yishai Sarid, “Il poeta di Gaza” ed. 2012

                                           Voci da mondi diversi. Medio Oriente
         il libro ritrovato


Yishai Sarid, “Il poeta di Gaza”
Ed. e/o, trad. Alessandra Shomroni, pagg. 178, Euro 14,00

      Ci sono dei libri bellissimi perché riescono ad essere armonicamente belli in ogni aspetto che rende tale un romanzo: una storia forte che unisca il quotidiano con l’eccezionale, un personaggio che abbia uno spessore, non astrusamente complesso ma neppure banale, degli interrogativi etici che coinvolgano ogni lettore nel profondo, uno stile con il giusto equilibrio tra schietto realismo e poesia. “Il poeta di Gaza” dell’israeliano Yishai Sarid ha tutto questo ed è un romanzo bellissimo.
    Non conosciamo il nome del protagonista che narra in prima persona e non ci pare strano che nessuno lo chiami mai con il suo nome: è un ufficiale del Mossad, i servizi segreti israeliani, ed è sotto copertura che si presenta a casa della scrittrice Daphna. Dice di essere stato amministratore delegato di una società finanziaria, di avere ora abbastanza soldi per dedicarsi a quello che vuole. E vuole scrivere un romanzo su un mercante ebreo dei tempi antichi che si reca in un’isola greca per importare cedri- è una storia vera che appare in vecchi testi. Da Daphna vuole lezioni di scrittura, che è il suo mestiere. In realtà vuole altro. Daphna, una donna di mezza età ma sempre molto bella, è amica di Hani, un poeta palestinese ormai gravemente ammalato che vive nella striscia di Gaza. Al Mossad interessa il figlio di Hani di cui si sono perse le tracce ma che è noto come un intelligente programmatore di attentati terroristici. E’ necessario avvicinare Hani per arrivare a suo figlio e bloccare l’attentato che sta preparando- colpire la mente per immobilizzare il corpo, insomma.

    La storia si svolge serrata, ricca di sfaccettature. Il lato oscuro del nostro protagonista rivela un uomo freddo che usa la forza bruta per estorcere confessioni dagli arabi arrestati. Come nel caso di quello che si trova prigioniero nei sotterranei dei servizi e che finisce per morire, pur di non tradire il fratello. Il quale, però, è in giro per Gerusalemme o Tel Aviv imbottito di esplosivo, pronto a farsi saltare in aria in un qualche luogo pubblico. E allora il fine giustifica i mezzi, quando si tratta di prevenire un’ennesima strage.
C’è poi l’altro lato della personalità di questo ufficiale dei servizi: a casa ha una moglie e un figlio di quattro anni, i momenti più belli della sua vita sono quelli in cui gioca con il figlio, quando gli insegna a nuotare tra spruzzi e urletti di gioia. La moglie, però, è stanca di aspettare i suoi rientri ad ora imprevedibile, non tollera più i suoi segreti, le telefonate che giungono ad interrompere le brevi vacanze insieme, il lato buio che non conosceva dell’uomo che ha sposato e che finisce a poco a poco per prendere il sopravvento sull’altro.
   Il nostro uomo continua a fingersi un aspirante scrittore con Daphna recandosi regolarmente da lei e scoprendo l’infelicità nascosta dietro il suo aspetto affascinante: suo figlio è un tossicodipendente che le succhia i soldi e la vita. Quando si scoprono le carte, per amore del figlio Daphna farà un patto con l’agente del Mossad. Una vita per un’altra, quell’altra per salvarne molte altre. Eppure…che cosa mette in crisi il protagonista? Che cosa lo spinge a mettere in dubbio quello che sta facendo, a far vacillare la sua fedeltà a Israele?

     Yishai Sarid riesce con rara maestria a fare il ritratto di un uomo tormentato, diviso tra i punti saldi della sua vita- patria e famiglia- e nuove sollecitazioni che smuovono qualcosa dentro di lui. C’è una saggezza antica, una rassegnazione pacata, un’aurea di grandezza nel poeta palestinese prossimo alla morte che ha saputo creare con il figlio un legame di affetto strettissimo. Questo figlio terrorista che è l’antitesi dell’infelice figlio drogato di Daphna, che suscita interrogativi impensati e inconsci nel protagonista riguardo al suo bambino e al suo ruolo di padre. Che, soprattutto, è un figlio, così come Hani è un padre. E può un figlio morire prima del padre e davanti ai suoi occhi?

    Il dramma dell’ufficiale del Mossad non è solo un tormento personale: è quello di un intero paese che ogni giorno si domanda, ‘sarà bene restare in casa oggi? Ci sarà un kamikaze tra la folla?’, e nello stesso tempo si indaga sulla giustizia dei metodi adottati per impedire il massacro, sulle condizioni di esistenza degli arabi sul loro stesso suolo.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


mercoledì 28 settembre 2016

Elizabeth Jane Howard, “Confusione” ed. 2016

                                 Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
           saga
           FRESCO DI LETTURA

Elizabeth Jane Howard, “Confusione”
Ed. Fazi, trad. Manuela Francescon, pagg. 528, Euro 18,50

       I Cazalet sono tornati! Per la gioia di tutti i lettori appassionati della saga (come me). E sono tornati a breve distanza dal volume precedente, “Il tempo dell’attesa”- non c’era motivo di farci attendere tanto, visto che in Inghilterra “Confusione” è stato pubblicato per la prima volta nel 1993. E, ancora una volta, siamo stati rapiti e trasportati a Home Place per seguire le vicende della famiglia Cazalet che ormai consideriamo ‘nostra’.
    La guerra continua, forse le sorti stanno per cambiare. Arriva la notizia che i tedeschi sono stati sconfitti a Stalingrado- che noia, queste notizie di guerra, sempre guerra (pensano, e dicono, i più giovani dei Cazalet). A Home Place, in campagna, la vita continua come al solito, tranne per il fatto che tutti sono un poco cambiati con il passare degli anni, con la dura esperienza delle ristrettezze imposte dal conflitto. Il Generale non ci vede quasi più, la Duchessa si accorda per il menù con la cuoca ogni mattina, come al solito, come se ci fosse molta scelta di cibi da cucinare, Rachel è più che mai ambigua nel suo rapporto con l’amica violinista, Edward si divide tra moglie e amante, Hugh resta vedovo, Polly e Clary sono ormai diciottenni e ottengono di andare a vivere a Londra, e ancora e ancora, ci sono ancora altri componenti della famiglia, nonché i cugini, nonché il caro vecchio Archie, nonché i domestici.
Louise nello sceneggiato della BBC
Perché questo è il segreto del successo della saga dei Cazalet: l’arte di raccontare il nulla. O meglio, l’arte di raccontare la quotidianità, l’arte di differenziare i personaggi, di caratterizzarli talmente bene da renderli unici e indimenticabili, da farci affezionare a loro, desiderando di sapere di più. Non vi dirò come finisce “Confusione”, ma posso dirvi che non so se resisterò alla tentazione di comprarmi “Casting off”, il quarto libro della serie, prima che esca la traduzione italiana. So bene che questo tenere in sospeso il lettore è anche la tecnica dei romanzi seriali, la stessa che si applica negli sceneggiati televisivi per solleticare la curiosità. Così come, leggendo, mi rendo conto che la narrazione sfiora spesso il feuilleton, che questa è una lettura che consiglierei soprattutto ad un pubblico femminile, ma, d’altra parte, la scrittura della Howard è magistrale, scorrevole, elegante, pulita, e i suoi dialoghi hanno una spontaneità rara.
Hugh nello sceneggiato
     La guerra resta sullo sfondo, in “Confusione”, così come negli altri due romanzi. E’ la penuria di cibo, sono le tessere di razionamento, le micidiali V1 che i giovani guardano sfrecciare tra la meraviglia e l’orrore, soprattutto è l’assenza ormai prolungata di Rupert, dato per disperso ma che solo Clary vuole ostinatamente credere vivo, che ci ricordano l’interminabile guerra. Eppure è la guerra che giustifica i cambiamenti che avvengono in famiglia e- descritti e anticipati con tocco leggero- nella società intorno a questa. Si parla di Welfare State, si prospetta un futuro in cui le barriere di classe saranno abbattute, in cui non sarà affatto normale farsi servire da una schiera di domestici e sarà sempre più comune che le donne svolgano un lavoro fuori casa. E poi, se non ci fosse la guerra, se le coppie potessero condurre una tranquilla vita insieme, se Louise non si fosse lasciata trascinare dalla mancanza di distrazioni in un matrimonio che si rivela ben presto insoddisfacente, se Zoe non si trovasse in un limbo senza sapere se debba considerarsi una moglie o una vedova, se non ci fossero in giro tanti affascinanti soldati o capitani o giornalisti americani in cerca di compagnia, il tradimento sarebbe altrettanto comprensibile e giustificabile?
i Cazalet
    C’è un momento, infine, in cui la guerra entra con il fragore di una bomba nella tranquilla dimora nel verde dei Cazalet: c’è un personaggio, un giornalista americano, per l’appunto, che loro fanno appena a tempo a conoscere e che è stato in Germania. E’ il 1945, l’esercito americano è entrato nei campi di Bergen-Belsen e di Auschwitz. Nessuno dei Cazalet- e con loro, nessun inglese- sapeva dei campi. Almeno non l’orrore di quello che vi succedeva. Il giornalista non racconta, non dice nulla. Zoe, che ne è diventata l’amante, non si spiega perché lui sia così diverso. Il nome del giornalista è Greenfeldt. E’ ebreo (il giovane Neville, che non ne ha mai conosciuto, chiede, ‘com’è un ebreo?’). Farà recapitare a Zoe una lettera per spiegare il suo gesto.

una giovane Elizabeth Jane Howard


    

lunedì 26 settembre 2016

Alina Bronsky, “L’ultimo amore di Baba Dunja” ed. 2016

                                                       Voci da mondi diversi. Area germanica
                    FRESCO DI LETTURA 


Alina Bronsky, “L’ultimo amore di Baba Dunja”
Ed. Keller, trad. S. Forti, pagg. 176, Euro 12,33


      Baba Dunja è tornata a vivere a Černovo (leggete pure Chernobyl) dopo quasi vent’anni di assenza. E’ tornata in un paese fantasma, ci si arriva a piedi, perché l’autobus da Malyši ad un certo punto si ferma- è il limite estremo oltre cui inizia la zona pericolosa. Ma che pericolo può esserci per Baba Dunja? ‘Non ho più ottantadue anni!’, ripete scherzando. Di qualcosa si deve pur morire e almeno lei morirà a casa sua, mangiando le verdure del suo orto, quelle che i ricercatori con le tute antiradiazioni vengono a prelevare con le pinze per metterle dentro a un barattolo. E poi Baba Dunja non ha più nessuno- il marito è morto (anche se si aggira intorno a lei, uno spettro più amabile dell’ubriacone che era in vita), il figlio è in America, la figlia è medico in Germania, non vorrebbe che lei stesse lì, le manda pacchi pieni di ogni ben di dio, soprattutto le manda fotografie della nipotina che Baba Dunja non ha mai visto. Si chiama Laura, la nipotina che ormai è adolescente- che bel nome, Laura!

    I giornali hanno parlato della vecchina che ha sfidato le radiazioni, altri hanno seguito il suo esempio, ci sono sei persone che ora abitano a Černovo. Ce ne parla Baba Dunja, con un tono di voce tra l’allegro e l’ironico, con un piglio che di certo non denuncia la sua età- c’è una coppia di marito e moglie, una donna grassa con le trecce come quelle di Julija Timoshenko, un uomo vecchissimo (avrà cent’anni, dice Baba Dunja) e un altro uomo che sembra uno scheletro ambulante (è molto malato). E’ incredibile quanto possa essere vivace il racconto di un luogo di morte in cui non succede proprio niente. Ma non è vero, perché qualunque cosa può avere il rilievo di un grande evento in una situazione simile- il viaggio, in parte a piedi e in parte in autobus che Baba Dunja fa per recarsi a Malyši dove ritira la pensione e la posta, fa acquisti per sé e per gli altri, e poi ritorna ed è stanchissima, chissà come mai. Un giorno le arriva una lettera da Laura. L’eccitazione di Baba Dunja è uguale a quella che sarebbe se le fosse arrivata una lettera d’amore. Laura non le aveva mai scritto, ma in che lingua scrive? E’ in alfabeto latino e non in caratteri cirillici. Un giorno l’uomo vecchissimo le fa una proposta di matrimonio (non è mica matta ad accettarlo). Un giorno arriva un uomo con una bambina: perché la porta a Černovo? Ha il destino segnato?

    Dopotutto c’è molta vita nel villaggio della morte, non si tratta proprio di amore ma c’è un matrimonio con tanto di festa, c’è addirittura un delitto su cui arriveranno da Malyši ad indagare interrompendo i festeggiamenti, c’è una specie di mutua solidarietà fra i pochi abitanti che saranno tutti indagati. Ancora una volta Baba Dunja (che un tempo faceva l’infermiera) si dimostra straordinaria, la ameremo ancora di più per tutto quello che riesce a sopportare, anche la delusione di fronte alle rivelazioni che le fa la figlia. Baba Dunja non si piega, ha una fiducia incrollabile nella positività del mondo e lei studierà l’inglese per riuscire a leggere la lettera di Laura. Che ha scritto a lei, proprio a lei. Ed è il suo ultimo amore.


    Il dramma di Chernobyl non è dimenticato e non è superato. Anzi, è più che mai presente, nei ricordi e nella realtà. Ma Alina Bronsky, con la sua Baba Dunja che incarna la saggezza di chi ha visto tutto nel corso degli anni, riesce a farci sorridere anche se a volte il cuore si stringe in una morsa. Perché ha la capacità di godere del poco che ha e che le sembra tanto, perché ha capito che il tesoro maggiore di Černovo è il tempo. Il tempo non esiste proprio, a Černovo. E’ solo l’alternarsi di luce e buio che stabilisce il tempo, non sono certo obblighi di lavoro a determinarlo. E dove si potrebbe stare meglio che nel non tempo di Černovo? Anche la morte è già passata di lì, non sarà gran cosa incontrarla di nuovo.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


domenica 25 settembre 2016

Aleksandr Terechov, “Il ponte di pietra” ed. 2011

                                                    Voci da mondi diversi. Russia
   la Storia nel romanzo
   cento sfumature di giallo
   il libro ritrovato

 Aleksandr Terechov, “Il ponte di pietra”
Ed. e/o, trad. Claudia Zonghetti, pagg. 481, Euro 22,00
Titolo originale: Kamennyi most

     E allora. Coloro che smisero di esprimere e di scrivere le proprie idee, con ogni evidenza cominciarono anche a pensare in modo diverso. Ma di questo dovranno occuparsi neuropsichiatri e sociologi. A me, a noi, interessa un’altra peculiarità del loro cervello: i delfini di Stalin, gli uomini di ferro, disimpararono a ricordare. Non è che non ricordassero nulla, no. Non ricordavano la propria vita.

     Mosca. 3 giugno 1943. Il quindicenne Volodja Šachurin uccide la compagna di scuola Nina Umanskij e poi rivolge la pistola contro se stesso. Lui è figlio del commissario del popolo per l’industria aeronautica. Il padre di Nina, Konstantin Umanskij, è appena stato nominato console del Messico. Sembra che Volodja, innamorato di Nina, le abbia chiesto di restare con lui, di non seguire il padre, e che lei abbia rifiutato.
    Alla fine degli anni ‘90 viene chiesto ad Aleksandr, collezionista e venditore di soldatini sovietici, ex allievo della scuola speciale del KGB, de programmatore di vittime delle sette religiose, di fare ricerche sul lontano omicidio-suicidio commesso sul Kamennyi most, il Ponte di Pietra che collega il Cremlino, su una sponda del fiume, con la Casa del Governo, dove vivono le famiglie dei delfini di Stalin, sulla sponda opposta. Aleksandr accetta, la ricerca della verità diventerà un’ossessione per lui, occuperà sette anni della sua vita. Perché? Non era forse tutto chiaro? Ma poteva essere tutto chiaro all’epoca di Stalin, che aveva scelto per sé un nome che significa ‘d’acciaio’ e che era circondato da ‘uomini di ferro’, pronti a sacrificare la propria madre o la propria figlia piuttosto che la propria testa?
Mikojan

     No, non era chiaro. Perché la pistola apparteneva ad un terzo ragazzo, Vano Mikojan, figlio di quel Mikojan, compagno d’armi di Stalin nonché membro del Consiglio militare alla Difesa. Era sul ponte anche Vano? Perché si era ripreso la pistola? Come mai Konstantin Umanskij era partito ugualmente per il Messico, il giorno seguente? Nel 1945 l’aereo che doveva portare Umanskij e la moglie in Costa Rica esplose dopo il decollo: fatalità? O il console era stato tolto di mezzo? Perché e da chi? dal KGB o dagli USA? Altro ancora: era saltato fuori un diario di Volodja. Risultava che aveva fondato una società segreta di stampo nazista insieme a cinque compagni. L’Imperatore (come viene chiamato Stalin nel romanzo) aveva detto, “Hai capito i lupacchiotti. Hanno bisogno di una raddrizzata”. I ragazzini erano stati imprigionati per sei mesi nella Lubjanka e poi condannati ad un anno lontani da Mosca. Stranamente, i genitori non erano stati toccati. Non subito, almeno.
Umanskij con la figlia Nina
    Questi i fatti e le speculazioni sul delitto d’amore che è al centro del romanzo- bellissimo, russamente russo- di Aleksandr Terechov che si imbatté nel ‘caso dei lupacchiotti’ mentre lavorava come giornalista per un tabloid investigativo. Un romanzo affascinante che procede in maniera erratica, scavando nel passato, seguendo un percorso e poi deviando verso una traccia che appare secondaria, interrogando testimoni superstiti e restii a parlare (la paura non si dimentica, anche quando non c’è più motivo di aver paura), inseguendo amici di testimoni, amanti conclamate e amanti segrete, visitando cimiteri (anche le tombe hanno un linguaggio?), scrutando vecchie foto (era proprio bella, Nina), scartabellando negli archivi del KGB, con una scoperta che ne trascina con sé un’altra.
Insieme ad altri investigatori dagli incarichi dubbi- Boris, la donna che perseguita il narratore (la cui seconda ossessione è il sesso) con le sue profferte d’amore, un altro ex agente del KGB (e osservo che il suo cognome, Holzmann, significa uomo di legno- bella ironia), mentre sempre, sullo sfondo, c’è il massiccio Ponte di Pietra, metafora per il collegamento tra l’uomo d’acciaio e i suoi ‘sudditi’, gli uomini di ferro, ma anche tra passato e presente. Un passato a cui- e non sembri strano- si guarda con una certa qual nostalgia perché allora si credeva in un ideale che giustificava tutto, rendeva sopportabile tutto, anche di essere burattini azionati da un mastro burattinaio che accendeva una torcia sul futuro. Il Ponte di Pietra è rimasto di sentinella, il fiume continua a scorrere, anche se ‘il padrone del tempo’ (così Gor’kij chiamò Stalin) è scomparso da tempo, il narratore ha terminato la sua ricerca (esiste una sola verità? e si può scoprire?) ed è sulla riva della Moldava. Non guarda il ponte, ma un battello che scivola sull’acqua- la vita prosegue.
Kamennyi most

     Soltanto un romanzo russo può avere una simile ampiezza di respiro. “Il ponte di pietra” è un libro di storia reso enormemente godibile perché ha l’andamento di un thriller e perché riesce a ridare vita ad una folla di personaggi memorabili. E’ la ricostruzione insolita e straordinaria di un’epoca, che procede per frammenti e ripetizioni che finiscono per ossessionare il lettore tanto quanto il narratore. Ed è, nello stesso tempo, un libro di indagine personale, sul ruolo dell’individuo nella nuova società e di un paese nato sulle ceneri degli ideali.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




La Luna e il Vigneto- bando di concorso


BANDO DI CONCORSO DI POESIA HAIKU E NARRATIVA BREVE
“LA LUNA E IL VIGNETO”

III EDIZIONE
(2016 – 2017)

L’ECSPO (Esperimento Culturale e Sociale Per l’Oltrepò) di Rovescala, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Rovescala (PV), la Pro Loco e la Biblioteca Comunale, bandisce la III edizione del Premio Nazionale di Poesia Haiku e Narrativa Breve (in lingua italiana) “La Luna e il Vigneto”, aperto a concorrenti di ogni regione italiana e del Canton Ticino della Confederazione Elvetica, senza limiti di età. La partecipazione è regolamentata dal presente bando.
1. Il concorso consiste di due sezioni – poesie haiku e racconti brevi –, accomunati da un unico tema. Per la presente edizione il tema è:
SOGNI E SBORNIE
2. Sezione poesie haiku. Le poesie originali potranno essere edite o inedite, ma non dovranno aver ottenuto un primo premio in precedenti concorsi. Non saranno accettati haiku dai vincitori dei primi tre premi delle precedenti edizioni de “La Luna e il Vigneto”. Inoltre, non saranno accettati haiku già presentati in occasione delle precedenti edizioni, compresi quelli che non sono stati premiati. Tuttavia, i vincitori e i segnalati delle precedenti edizioni potranno partecipare alla sezione racconti brevi.
3. Si partecipa con un massimo di tre poesie, rigorosamente in lingua italiana, secondo le regole dell’haiku: tre versi di 5, 7 ,5 sillabe. In considerazione degli sviluppi contemporanei della forma haiku, sia in Giappone che in Occidente, tale numero di sillabe non è strettamente obbligatorio, pur restando altamente auspicabile.
4. Non si prevede alcuna quota di partecipazione, e questo vale per entrambe le sezioni del Premio.
5. Sezione narrativa breve. Questa sezione, intitolata “Racconti in un palmo di mano” in onore di Yasunari Kawabata, si affianca a quella sugli haiku e ha lo stesso tema. Ogni concorrente è libero di partecipare a una sezione o all’altra, come pure a entrambe. Ciascun racconto non dovrà superare le 1500 battute (spazi inclusi).
6. I partecipanti dovranno inviare (in formato Word) – entro e non oltre la data di scadenza fissata al 2 maggio 2017 – alla mail bibliotecacivicarovescala@gmail.com le poesie e/o i racconti con le quali intendono concorrere, nonché il modulo di partecipazione compilato. Nome ed e-mail dell’autore dovranno apparire su tutte le pagine.
In alternativa, l’invio di detto materiale (poesie e/o racconti) potrà essere effettuato in cartaceo, mediante posta ordinaria, e dovrà essere inviato a:
III Premio Nazionale di Poesia Haiku e Narrativa Breve “La Luna e il Vigneto”,
c/o Biblioteca Civica Comunale
Viale Frascati 18, 27040 Rovescala (PV)
Per l’invio mediante posta tradizionale farà fede la data del timbro postale.
7. Non verranno accettate opere che presentino elementi d’incitamento all’odio, alla violenza o alla discriminazione di alcun tipo.
8. La Commissione di Giuria è composta da esponenti del panorama letterario e da esperti:
Lia Beretta, Responsabile dell’Istituto Italiano di Cultura di Kyoto, Docente dell’Università Waseda di Tokyo, Presidente di Giuria
Ornella Civardi, yamatologa e traduttrice
Luigi Sanvito, editor e cultore di storia orientale
Cesare Carrà, bibliotecario
Ben Pastor, scrittrice, Presidente del Premio
9. Verranno premiati tre haiku e tre racconti. I premi consisteranno in:
Primo premio per il miglior haiku e/o il miglior racconto: ideogramma su porcellana, una bottiglia di sake (bevanda alcolica della tradizione giapponese) e prodotti dell’enologia locale, in edizione strettamente limitata.
Secondo premio: diploma di merito e una bottiglia di sake.
Terzo premio: diploma di merito e una bottiglia di sake.
La Giuria inoltre segnalerà per pubblicazione (vedi punto 12 del bando) altri autori che si saranno particolarmente distinti.
10. La cerimonia di premiazione, preceduta da una breve presentazione dell’iniziativa, si terrà in data 18 giugno 2017 nel Castello di Rovescala, in via Castello 4. Ai partecipanti verranno fornite con ampio preavviso tutte le indicazioni circa la premiazione.
11. I vincitori sono invitati a presenziare alla cerimonia di premiazione per ritirare il premio. In caso di impossibilità, l’ideogramma su porcellana, il diploma, il sake e il premio enologico potranno essere recapitati a casa del destinatario.
12. Tutti i testi degli autori vincitori e segnalati dalla Giuria verranno pubblicati nel volume antologico che verrrà presentato nel corso della premiazione.
13. Anche la terza edizione de “La Luna e il Vigneto” desidera celebrare secondo le tradizionali formule poetiche e narrative del Giappone la bellezza della natura, la fatica del lavoro nei campi, la gioia dei vigneti e del vino. In un mondo sempre più globalizzato, ci sembra giusto prendere a prestito la pregnante brevità degli haiku e dei “racconti in un palmo di mano”; espressioni artistiche apparentemente così lontane dall’Oltrepò pavese, eppure così vicine nel rispetto e nell’amore per l’ambiente che ci circonda.
14. La partecipazione al concorso implica l’accettazione di tutti gli articoli che compongono il bando.
BEN PASTOR, Presidente del Premio
LIA BERETTA, Presidente di Giuria
MARIUCCIA ZAMBARBIERI, ANTONIA MAGGI, Segretarie del Premio

Rovescala, 15/09/2016 – Info: bibliotecacivicarovescala@gmail.com
……………………………………………………………………………………………………
MODULO DI PARTECIPAZIONE al III Concorso nazionale di poesia haiku e narrativa breve “La Luna e il Vigneto”
NOME E COGNOME………………………………………………………………………
INDIRIZZO E-MAIL……………………………TELEFONO…………………………….
INDIRIZZO POSTALE……………………………………………………………………..


PREMIO DI POESIA HAIKU E NARRATIVA BREVE
LA LUNA E IL VIGNETO
(terza edizione, 2016-2017 – https://www.facebook.com/lalunaeilvigneto/)
L’ECSPO di Rovescala, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Rovescala (PV), la Pro Loco e la Biblioteca Comunale, ha bandito la III edizione del Premio Nazionale di Poesia Haiku e Narrativa Breve (in lingua italiana) “La Luna e il Vigneto”, aperto a concorrenti di ogni regione, senza limiti di età.
Quest’anno il tema scelto è il seguente: “Sogni e sbornie”. Per quanto riguarda la sezione poesia, si partecipa con un massimo di tre haiku, rigorosamente in lingua italiana. Per quanto riguarda la sezione narrativa, avente lo stesso tema e intitolata “racconti in un palmo di mano”, ciascun elaborato non dovrà superare le 1500 battute (spazi inclusi). Ogni concorrente è libero di partecipare a una sezione o all’altra, come pure a entrambe.
Anche la terza edizione de “La Luna e il Vigneto” desidera celebrare secondo le tradizionali formule poetiche e narrative del Giappone la bellezza della natura, la fatica del lavoro nei campi, la gioia dei vigneti e del vino. In un mondo sempre più globalizzato, ci sembra giusto prendere a prestito la pregnante brevità degli haiku e dei “racconti in un palmo di mano”; espressioni artistiche apparentemente così lontane dall’Oltrepò pavese, eppure così vicine nel rispetto e nell’amore per l’ambiente che ci circonda.
Gli haiku e i racconti dovranno pervenire entro e non oltre il 2 maggio 2017, vuoi per posta elettronica all’indirizzo bibliotecacivicarovescala@gmail.com, vuoi in formato cartaceo a: III Premio Nazionale di Haiku e Narrativa Breve “La Luna e il Vigneto”, c/o Biblioteca Civica Comunale, Viale Frascati 18, 27040 Rovescala (PV).
Il bando del concorso è scaricabile dal sito internet del Comune di Rovescala alla voce “Bando concorso haiku e narrativa breve”: http://www.comune.rovescala.pv.it/ComAvvisiDettaglio.asp?Id=60577&A=2016
Per maggiori informazioni: bibliotecacivicarovescala@gmail.com; oppure: kensho@tin.it
           


venerdì 23 settembre 2016

Rosa Teruzzi, “La sposa scomparsa” ed. 2016

                                                                      Casa Nostra. Qui Italia
         cento sfumature di giallo
          FRESCO DI LETTURA

Rosa Teruzzi, “La sposa scomparsa”
Ed. Sonzogno, pagg. 171, Euro 11,90



        Che piacevole sorpresa, la lettura de “La sposa scomparsa” di Rosa Teruzzi! Non avevo mai letto nulla della scrittrice, temevo un altro ‘giallo’ del tipo di quelli che si dimenticano subito dopo averli terminati. Oppure, peggio ancora, di quelli che interrompo a metà dopo aver deciso che il mio tempo vale di più e non posso sprecarlo a leggere un libro che non mi piace o addirittura mi annoia.
     Non si corre il rischio di annoiarsi leggendo “La sposa scomparsa”. Perché la scrittura di Rosa Teruzzi è briosa, vivace, spumeggiante, i tre personaggi principali sono ben riusciti e simpatici, la trama regge bene e corre veloce fino alla fine che non ci delude. E la Milano che fa da sfondo sembra quasi bella. Anzi, è bella. Bella e insolita.
    Abitano in un ex casello ferroviario, Iole, Libera e Vittoria. Nonna, mamma e figlia. Nonna ex sessantottina che rifiuta di essere definita ‘anziana’, pratica lo yoga, si fa le canne e porta i suoi amanti in casa. Mamma (il cui nome- Libera- è un retaggio delle lotte femministe di Iole) che è rimasta vedova quando Vittoria aveva solo tre anni (il marito poliziotto era stato ucciso con un colpo di pistola alla testa dalla persona che era seduta accanto a lui sull’auto) e che lavora come fiorista: è specializzata in bouquet di nozze.
Figlia che è agente di polizia e che mal sopporta le stravaganze della nonna e l’affetto protettivo della madre.
    E’ l’estate piovosa e fredda del 2014- la ricordiamo tutti. Piove e fa  freddo il giorno di luglio in cui una donna vestita di nero appare davanti al casello ferroviario nella zona dei Navigli. Non ha mai smesso il lutto dal giorno di trent’anni prima quando sua figlia è scomparsa. Il caso è rimasto irrisolto ed è stato archiviato. La donna insiste, spera che Vittoria lo faccia riaprire, lei continua ad essere convinta che sia stato l’ex fidanzato di Carmen ad ucciderla, anche se l’uomo aveva l’alibi di aver passato tutto il giorno a letto con la sua nuova giovane fiamma (dieci anni di meno di Carmen). E se la ragazza avesse mentito, accecata dall’amore, fornendogli quell’alibi?
    I riferimenti e le allusioni a Miss Marple, a Precious Ramotswe e ad Anne Perry abbondano in un romanzo in cui le donne dominano la scena, ognuna per un motivo diverso. La donna in nero perché è la madre dolente che vuole sapere, vuole avere una tomba su cui piangere e pare abbia un sesto senso nella sua incrollabile convinzione che commuove Libera e che riesce a far breccia perfino nell’irriverente e scanzonata Iole. Libera perché si immedesima nella madre che ha perso la figlia e dentro di sé la ammira perché non si arrende- che cosa ha fatto lei, Libera, per sapere di più sull’assassinio del marito? Vittoria perché dietro la corazza della donna poliziotto nasconde una vulnerabilità che la rende una possibile vittima come la Carmen che è scomparsa. E Iole, infine, sempre un po’ sopra le righe, Iole dalle battute memorabili, spassosa e piena di risorse, l’esatto opposto di figlia e nipote. I pensieri di queste donne girano intorno agli uomini, sia che siano vittime o dominatrici- il marito della donna in nero chiama “bambine” le sue auto d’epoca, Libera non si decide a rispondere alle avances del collega e amico del marito, Vittoria è innamorata di un piccolo delinquente (possibile?) e Iole, be’, Iole non si limita ad avere un solo innamorato…

     E comunque sono Iole e Libera a prendere l’iniziativa per ulteriori indagini sulla scomparsa di Carmen, senza rendersi conto dei rischi a cui si espongono. Aveva ragione la mamma di Carmen? Aveva ragione l’ubriacone che aveva visto Carmen e che era stato giudicato inattendibile?
Il finale è doppio: uno è molto triste e uno è sorprendente, ci fa restare in attesa di un altro romanzo con il simpatico terzetto.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
Rosa Teruzzi sarà presente a Tempo di Libri insieme a Barbara Bellomo sabato 10 marzo 2018



    

giovedì 22 settembre 2016

Jojo Moyes, “L’ultima lettera d’amore” ed. 2011

                                 Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                  love story
                                                               il libro ritrovato

Jojo Moyes, “L’ultima lettera d’amore”
Ed. Elliot, trad. Anna Tagliavini, pagg. 488, Euro 18,50

Titolo originale: The Last Letter from Your Lover

    Al momento aveva riportato alla luce sette lettere dai nascondigli in giro per la casa; sette lettere che le illustravano il tipo di amore che aveva conosciuto, e la persona che lei era diventata con quell’amore. Si vide riflessa, in quelle paarole scritte a mano, con mille sfaccettature: impulsiva, passionale, pronta all’ira ma anche al perdono.

    Tempo: oggi. Luogo: Londra. Protagonista: Ellie, giornalista, trentadue anni, innamorata di uno scrittore, John, conosciuto in occasione di un’intervista. John è sposato. Ma, per il ‘grande amore’, Ellie è disposta ad accontentarsi di tempo rubato, di attese con la domanda, ‘verrà?, non verrà?’, di sbirciate al telefonino per controllare se non abbia perso qualche chiamata, se non sia arrivato qualche messaggio- stringato, fatto di abbreviazioni, che sottintende tutto e niente, secondo quello che Ellie vuole capire.

   Tempo: 1960. Luogo: Londra. Protagonista: Jennifer, nullafacente come si addice ad una giovane donna della sua classe sociale, sposata con un uomo ricco, molto bella, elegante, alta e bionda- il tipo algido alla Grace Kelly.  Incontra Anthony O’Hare, giornalista, quando questi si presenta per un’intervista a suo marito. Tra i due divampa l’Amore.
     Come si intrecciano queste due storie d’amore, così simili nella loro specularità? Tramite il giornale per cui scriveva Anthony e per cui scrive Ellie che, in realtà, non riesce da un pezzo a presentare un articolo decente, persa com’è nelle sue fantasie sull’amante discontinuo. Ellie viene incaricata di fare una ricerca nell’archivio del giornale, si imbatte per caso in una cartelletta con dei documenti finiti lì chissà come (lo sapremo poi), dentro c’è anche una lettera d’amore. L’indirizzo è una casella postale, la data è il 4 ottobre 1960, le parole iniziali sono ‘Mio caro e unico amore’, la firma è solo una B. Chi scrive dà appuntamento al destinatario sul marciapiede del treno. Specifica la stazione, il giorno e l’ora. E’ una sorta di ultimatum, il loro amore non può proseguire così.

       La lingua inglese è così fatta che nessun accordo di aggettivi o participi può svelare il sesso di chi parla o scrive- sarà leggendo e rileggendo la lettera, discutendone con un amico, analizzando i dettagli degli accenni al lavoro, che Ellie deciderà che B è un uomo che sta scrivendo ad una donna. E incomincerà le ricerche. La maggior parte del romanzo di Jojo Moyes- pur seguendo i due filoni della duplice storia- è dedicato a Jennifer e Anthony, alla loro vicenda di ‘amanti contrastati dalle stelle’ , una storia che incomincia con Jennifer ricoverata in ospedale dopo un gravissimo incidente che le ha fatto perdere la memoria. Temporaneamente, ma quanto basta per sentire il marito come un estraneo e per faticare a ritrovare il suo posto nell’ambiente in cui vive. E’ una storia che, raccontata da Jojo Moyes con straordinaria finezza, buon gusto ed eleganza, ci fa tremare il cuore, palpitare di ansia per i personaggi, simpatizzare con loro. E gustare, insieme, quello che il romanzo vuole essere, dietro alla copertina di romanzo d’amore. “L’ultima lettera d’amore” è un accorato romanzo sulla perdita (forse inevitabile, ma non per questo meno grave) del linguaggio dell’amore, della capacità di esprimere i sentimenti, del piacere della lentezza dei tempi- per amare, per parlare d’amore, per conquistare l’altro, per comunicare con l’altro. L’ultima lettera d’amore è sia l’ultima lettera di Anthony che Jennifer riceve, ma è anche, in un certo senso, l’ultima lettera d’amore di un tempo in cui si scrivevano ancora lettere, si incollavano francobolli, si imbucavano, si attendeva il passaggio del postino.
Prima di quella piccola rivoluzione culturale che iniziò negli anni ’60 e che coinvolse mode, stili di vita, comportamenti, linguaggi di comunicazione. Finendo per coinvolgere anche l’essenza delle persone: quelle che potrebbero essere due banali storie di amanti diventano il nostro ieri e il nostro oggi. E se ci soffermiamo un attimo a riflettere, c’è molto da imparare, c’è molto da salvare anche in questo piccolo passato, proprio come nella grande Storia.

   Sfido qualunque lettrice a non essere disposta a scambiare il proprio telefonino, anche il più tecnologicamente avanzato, con i messaggini cifrati, per una qualunque lettera d’amore di Anthony, scritta a penna, su carta.   

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it