domenica 27 giugno 2021

Hwang Sŏk-yŏng, “L’infinito mare dei vent’anni” ed. 2021

                                           Voci da mondi diversi. Corea

         

Hwang Sŏk-yŏng, “L’infinito mare dei vent’anni”

Ed. ObarraO, trad. A. De Benedittis, pagg. 225, Euro 18,00

 

      E poi arrivò l’inverno, e fu allora che venne deliberata la mia partenza per il Vietnam.

     Inizia così il romanzo autobiografico di Hwang Sŏk-yŏng, uno dei più grandi scrittori coreani viventi. Di lui avevamo già letto “L’ospite” (libro bellissimo) e qui ritroviamo un grande Sŏk-yŏng in quello che è il suo romanzo di formazione, bloccato da quelle due parole, l’inverno che già di per sé fa rabbrividire e il Vietnam che- lo sappiamo tutti- significa guerra e morte, una partenza probabilmente senza ritorno.

    Ed è così che, nei brevi due giorni di congedo prima di presentarsi, Chun (alter ego dello scrittore) ritorna a casa e poi si abbandona ai ricordi della sua breve vita fino a quel momento, con una tecnica narrativa che cancella le sfumature del passato e fa sembrare tutto come vissuto nel presente. Perché non è solo Chun a raccontare, intervengono i suoi amici, alternandosi, di modo che non solo cambia il punto di vista, non solo vediamo Chun attraverso gli occhi degli amici, ma anche acquistiamo una visione più ampia degli adolescenti in una Corea che è uscita da poco da una guerra che aveva definitivamente sancito la divisione della loro patria e che ora si appresta ad entrare in un’altra guerra che neppure capiscono. “non vi pare che i Vietcong somiglino tanto a quelli che in Corea combattevano per l’indipendenza?”. E’ tutta questione del messaggio che viene comunicato: ‘ci vogliono far credere che andiamo ad annientare i gruppi di comunisti per difendere la libertà.” Non lo sanno ancora, ma quella guerra sarebbe stata la fine della loro giovinezza, in un bagno di morte.


     “Io non so chi sono”, esordisce Chun in un capitolo. Perché la realtà è che i suoi genitori sono ormai poveri e tuttavia serbano l’orgoglio di quello che erano- avevano studiato al tempo della colonizzazione giapponese, non avevano mai lavorato come braccianti o operai, ambivano ad una educazione scolastica anche per il figlio. A Chun, invece, non piace la mentalità borghese dei genitori, nonostante abbia vinto due premi letterari abbandona la scuola, si dedica all’arrampicata con uno degli amici, per un certo periodo vive in isolamento sulla montagna, poi decide che vuole vedere la Corea e il romanzo diventa una sorta di on-the-road coreano con avventure, incontri, amicizie intense e passeggere, prime esperienze d’amore e di sesso.

    “Quanto è difficile vivere!”, dice Chun, una volta ritornato a casa. Il ragazzo che confessava di non sapere chi era, si sente in bilico tra ‘l’obbligo di far fronte alla nostra quotidianità e il desiderio di prenderne le distanze’.

È anche per sottrarsi alla banalità della sua vita che Chun partecipa ad una manifestazione e finisce in prigione. È una esperienza importante che gli fa conoscere un compagno di cella, ‘il Capitano’, che gli sarà d’esempio: il Capitano non ha paura della vita e neppure ne soffre. Dapprima lo porta con sé su un peschereccio di calamari e poi in un cantiere.


     L’inquietudine che porta Chun da una parte all’altra, sempre in cerca di qualcosa di diverso, lo farà approdare in un monastero: è questo che vuole veramente? O è meglio farla finita con tutto?

    Il convoglio che lo trasporta lontano con gli altri soldati segna la fine della giovinezza. “Aveva ragione il Capitano: la vita va vissuta giorno per giorno.”

E il buio che inghiotte il treno non è solo quello della galleria. È il buio dell’ignoto e del futuro. Il frastuono delle ruote anticipa quello degli spari e dei cannoni.

     C’è l’irruenza e la voglia di vivere dei vent’anni, nel romanzo di Hwang Sŏk-yŏng, temprate, però, da un filo di malinconia per l’incertezza del futuro che va al di là della usuale incertezza dei giovani del mondo occidentale, perché qui è di vita o di morte che si tratta. E la malinconia, che ammanta anche il paesaggio, si riveste di poesia.



 

 

sabato 19 giugno 2021

Bernhard Schlink, “Donna sulle scale” ed. 2021

                                    Voci da mondi diversi. Area germanica


Bernhard Schlink, “Donna sulle scale”

Ed. Neri Pozza, trad. Susanne Kolb, pagg. 205, Euro 18,00

 

   Entrai nell’ultima sala dell’Art Gallery ed eccolo lì; mi commosse proprio come allora, quando, mettendo piede nel salotto di casa Grundlach, l’avevo visto per la prima volta.

    A Sidney, in Australia, l’avvocato che ormai ha superato la sessantina e che, quando aveva iniziato da poco a lavorare in uno studio legale di Francoforte, si era occupato di una lite tra il proprietario di quel quadro e il pittore che lo aveva dipinto, riconosce immediatamente il quadro esposto. Ritrae una donna nuda, pallida e bionda, che scende le scale. Bernhard Schlink ha detto di avere avuto in mente il quadro di Gerhard Richter, Ema. Nudo su una scala, e, guardandone la riproduzione, noi lettori serbiamo per tutto il libro l’immagine evanescente di questa donna che sembra andare incontro rassegnata al suo destino, piuttosto che ad un incontro d’amore.


    La donna si chiamava Irene. Il pittore Schwind, a cui il marito aveva commissionato il ritratto, l’aveva ‘rubata’ a lui. Irene si era trovata ad essere trattata come un oggetto, contesa tra i due uomini che, alla fine, avevano raggiunto un accordo indegno, stipulato dall’avvocato che è l’io narrante. Avrebbero fatto uno scambio: Irene sarebbe stata restituita a Grundlach e questi avrebbe ridato il quadro al pittore. A questo punto entrava in gioco il terzo uomo. Innamorato di lei, l’avvocato si era prestato a trafugare il quadro insieme ad Irene. Dopodiché sia la donna sia il quadro erano scomparsi. Per riapparire, il quadro, a Sydney.

    Una donna amata da tre uomini- era stata un trofeo giovane per Gundlach, un’ispirazione per Schwind, una principessa in pericolo per l’avvocato. Ma lei, chi era lei? e che ne era stato di lei? se il quadro era riapparso a Sydney, dove era Irene?

    Irene aveva usato il quadro come esca, per riunire accanto a sé l’ex marito e il pittore. Quanto all’avvocato, non lo aveva calcolato, era capitato per caso anche se sarà lui a starle vicino fino alla fine. Grundlach arriva in elicottero sull’isola dove vive Irene da anni, Schwind ci arriva con una barca, l’avvocato narrante è arrivato per primo. Pensava di fermarsi un giorno, si sarebbe fermato per due settimane.

    E sono due settimane intense, di ricordi e di ricostruzioni dei fatti, di accuse e di schermaglie, di una resa dei conti, di un riesame della vita di ognuno, perché il tempo è passato per tutti in maniera più o meno impietosa, la fine si avvicina per tutti.


    Dei quattro personaggi, Irene, dai contorni sfumati nel quadro e nella vita reale perché non dice niente di definito su di sé, continua ad essere, però, un’ispirazione. Accettata o rifiutata, lo è per tutti. Era fuggita da tutti e tre perché non voleva essere di nessuno, perché voleva una vita in cui ‘qualcosa di grandioso si impossessasse di me, qualcosa per cui avrei dato tutto’, voleva impegnarsi in una grande causa, essere là dove si svolgeva la Storia più intensa. E la Germania dell’Est le aveva offerto la possibilità di vivere una grande idea. Perché non era rimasta là? Perché dal 1990 quel ‘là’ non esisteva più. 

E l’avvocato, il cavaliere che avrebbe voluto salvarla, l’uomo che non aveva mai vissuto con lei, è quello che ora resta fino alla fine, quando un incendio brucia l’isola e brucia anche il passato con tutti i suoi ricordi e i suoi errori. Lui, però, ha avuto l’onestà di indagare in se stesso, di farsi domande che non ha mai fatto, di riconoscere le sue colpe.

     È un libro che ha la malinconia del tramonto, “Donna sulle scale”, che rincorre temi ricorrenti nell’opera di Schlink- la menzogna e il silenzio che è una forma meno plateale di bugia, accettare i compromessi e adeguarsi al comportamento e alle ambizioni dei più, il coraggio necessario per uscire dagli schemi. E per affrontare la morte.




martedì 15 giugno 2021

holidays


 Sono finite le scuole. Iniziano le vacanze dei bambini (e dei loro genitori). Non riuscirò ad aggiornare il blog con la solita regolarità, la connessione internet non sarà altrettanto valida, le mie letture rallenteranno. Il motivo è nella foto. Abbiate pazienza, grazie.

sabato 12 giugno 2021

Ana Blandiana, “Applausi nel cassetto” ed. 2021

                                          Voci da mondi diversi. Romania


Ana Blandiana, “Applausi nel cassetto”

Ed. elliot, trad. Luisa Valmarin, pagg. 389, Euro 18,50

 

      Non rimarranno chiusi nel cassetto gli applausi per il primo romanzo di Ana Blandiana, la poetessa rumena che scrive versi limpidi e ariosi-

   Ognuno vive due vite alla volta, o tre o anche quattro/ noi nasciamo, Signore, così giovani, che / fra le mille vite possibili/ non si può pretendere/ che sappiamo sceglierne una-

e che, in questo suo libro, ha trovato indispensabile scrivere in prosa. Per ampliare il suo messaggio, per dargli più sfaccettature, per arricchirlo, adottando uno stile inconfondibile che sa di realismo poetico, che passa da pagine crude e tetre ad altre un poco sognanti- perché si deve poter trovare una via di fuga nel sogno, nella Romania degli anni della dittatura di Ceaušescu in cui alla scrittrice era proibito pubblicare alcunché.

     Sono quattro i filoni narrativi di “Applausi nel cassetto, quattro filoni ad incastro, ognuno un chiarimento e un ampliamento dell’altro.

     Alexandru Šerban è uno scrittore e la traccia in cui è lui il protagonista è raccontata in terza persona. È tenuto sotto controllo dalla Securitate ed è per questo che si ritira in un luogo isolato sulle rive del Danubio dove un gruppo di studenti, guidati da un professore, sta facendo degli scavi archeologici. Nonostante i divieti Alexandru continua a scrivere, è la sua ribellione personale, il suo margine di libertà. Proprio come ha sempre fatto Ana Blandiana stessa che è la protagonista di un altro filone narrativo in prima persona, una sorta di commento puntuale, una raccolta di impressioni, come se ci fossero delle note a piè pagina.


     Di Alexandru, però, ce ne sono due, perché si chiama così anche il personaggio del romanzo che l’Alexandru scrittore sta scrivendo- è il suo alter ego? In effetti questo Alexandru parla in prima persona e ci sembra tanto reale quanto lo scrittore al sito archeologico, se non fosse che l’avventura che sta vivendo acquista presto un tono di irrealtà- non però di una irrealtà fantastica che si può solo immaginare, ma una irrealtà del tipo così spaventoso che vorremmo credere non fosse vera. Tutto inizia quando, il 30 gennaio 1980 (e niente come una data dà la sensazione di reale), tre sconosciuti irrompono nell’appartamento dove Alexandru sta conversando con degli amici. Chi siano questi brutti ceffi che si comportano da padroni, è subito chiaro. “La cosa principale è che non ci lasciamo spaventare”, dice Alexandru. E invece tutti sono terrorizzati, tutti sanno che cosa questa intrusione può significare, la reazione dei singoli è uguale a quella del popolo rumeno di cui stavano discutendo prima di questa visita- un popolo pacifico, non bellicoso, ‘che non ha mai conquistato nessuno, nemmeno quando avrebbe potuto farlo’. Fa parte della strategia della dittatura, l’umiliare le persone, privarle della loro dignità, renderle diffidenti nei confronti di tutti, annullare il sentimento dell’amicizia, per non dire quello dell’amore?


    Questa irruzione nel privato era solo un anticipo. Il romanzo che ha per protagonista Alexandru, scritto da Alexandru Šerban, dentro il romanzo il cui personaggio è Alexandru Šerban ed è scritto da Ana Blandiana, proseguirà poi con un internamento in un ospedale psichiatrico dove Alexandru è attirato con un’ingannevole proposta di tenere una lezione. C’è qualcosa di orwelliano nell’agghiacciante descrizione delle scene in cui i pazienti (o sono reclusi?) applaudono tutti insieme, tutti con la stessa identica espressione sui volti che paiono tutti uguali (e sono applausi mirati a seppellire le parole nel fragore), e poi smettono di battere le mani come su comando occulto. E c’è qualcosa di kafkiano nell’aggirarsi di Alexandru per i corridoi dell’ospedale in cerca di una via di uscita- un labirinto in cui l’artefice stesso è prigioniero.

    E Alexandru mira a scappare, per rendersi poi conto che non era lui che aveva cercato di fuggire nel mondo, ma che lo avevano lasciato ritornare nel mondo, ‘per il semplice motivo che il mondo non esisteva più. La prigione si era estesa e lo aveva inghiottito. Ero quindi libero di passeggiare nel ventre della balena.’ La Romania intera è una prigione- questo è il significato- e non ha neppure bisogno di guardie: dove mai potrebbero fuggire i detenuti? Anche se in realtà, nel filone parallelo, uno dei ragazzi degli scavi archeologici  fugge…

    Ho lasciato per ultimo il quarto filone che non è un vero e proprio filone narrativo, piuttosto una chiosatura squallida e deprimente. Sono i verbali della Securitate, domande e risposte, l’invasione del privato, l’annullamento dell’ intimità, il tradimento innalzato a norma, per interesse, per paura, per vantaggio personale. Più in basso di così non si può cadere. 

Solo la scrittura, pur chiusa a chiave in un cassetto, può salvarci.

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mercoledì 9 giugno 2021

Han Shaogong, “Il dizionario di Maqiao” ed. 2021

                                                   Voci da mondi diversi. Cina



Han Shaogong, “Il dizionario di Maqiao”

Ed. Einaudi, trad. P. Liberati e M. R. Masci, pagg. 392, Euro 22,00

 

     La lingua è una sorta di incantesimo, e un dizionario è una scatola che può liberare migliaia di demoni.

     Ci sono due parole contrapposte, una positiva e una negativa, in questa frase dello straordinario romanzo di Han Shaogong, “Il dizionario di Maqiao”: ‘incantesimo’ e ‘demoni’. Se l’incantesimo suggerisce un pizzico di magia (non può essere un caso che il nome del villaggio, Maqiao, riecheggi il famoso Macondo), i demoni richiamano invece alla mente sofferenze e paure.

    L’esperienza di Maqiao è stata entrambe le cose, magia e sofferenza, per lo scrittore che passò sei anni a Maqiao, con i giovani istruiti che dovevano essere ‘rieducati’ lavorando la terra insieme ai contadini. Un paese ‘accoccolato fra due risaie in una valle lunga e stretta’, abitato da una quarantina di famiglie, decine di mucche, maiali, cani, galline e anatre.

Per ricordare quegli anni, per ricostruire la vita quotidiana del villaggio, Han Shaogong sceglie la forma narrativa di un dizionario che riporti il significato di parole di uso comune e a questo agganci i ritratti dei suoi personaggi, gli abitanti di Maqiao. Perché- riflette lo scrittore- la vita non è un’unica linea di cause ed effetti, la realtà è sfaccettata e un romanzo non può ridursi ad un unico discorso.


  La lingua di Maqiao è singolare- prima di tutto perché molte parole vengono usate in modo da significare il loro opposto (e siamo liberi di pensare che venga in gioco l’ironia come strumento politico) e ‘chi arriva a Maqiao doveva abituarsi a questo genere di frasi contraddittorie, vaghe, ambigue, elusive, incerte, che volevano dire una cosa e il suo contrario’, così ‘sveglio’ vuol dire ‘sciocco’, ‘addormentato’ significa ‘intelligente’, ‘piccolo fratello maggiore’ vuol dire in realtà ‘sorella maggiore’ perché mancano gli appellativi femminili. Alcune di queste parole sono bellissime, come ‘disperso’ che significa ‘morto’ (e naturalmente, come per ogni voce, lo scrittore commenta, spiega, esemplifica con casi di abitanti ‘dispersi’), o ‘drago’ che è il membro maschile (la storia che segue è di Wan Yu che aveva la fama di donnaiolo e invece si scopre, alla sua morte, che non aveva il ‘drago’ e quindi neppure il suo unico figlio era ‘suo’), Ligelang che ha un suono onomatopeico e si usa per gli amori giocosi e poco regolari.


      “Il dizionario di Maqiao”, a differenza di quello che ci si potrebbe aspettare, non è un libro che implica un giudizio su quella terribile epoca della Rivoluzione Culturale, ma è tante altre cose insieme- una galleria di personaggi visti con lo sguardo affettuoso di chi ha lavorato spalla a spalla con loro, ha patito la fame con loro, ha partecipato alle chiacchiere sull’uno e sull’altro, ha condiviso il dolore dell’uomo che ha perso il figlio che giocava con una bomba giapponese inesplosa; una riflessione sul linguaggio e sul significato diverso che una parola può avere a seconda delle esperienze personali di ognuno, sulla ricchezza e l’ambiguità dei caratteri cinesi per cui lo stesso carattere può voler dire cose differenti a seconda di come è pronunciato (un annunciatore della radio fu condannato a 15 anni di carcere perché aveva sbagliato a leggere un carattere).

La soggettività della lingua è quanto mai evidente nel confronto che Han Shaogong ebbe, anni dopo, con un americano che lo lasciò sconvolto. Il dizionario dell’americano era del tutto diverso, per lui le sofferenze dei cinesi di cui chiedeva erano materiale di cui scrivere e parlare. Più amare erano e più brillavano di luce ‘fantastica’, quello che era dolore vissuto dagli uni era fonte di contentezza per gli altri. C’è allora più di una verità?


     Ed infine, last but not least, il romanzo di Shaogong è una meditazione sul tempo, partendo dall’osservazione che gli abitanti di Maqiao sono privi del senso del tempo perché la grammatica non fa differenza tra passato, presente e futuro. Il tempo non scorre in modo costante e lineare e quello che più conta per l’uomo è il tempo interiore e questo tempo diventa sempre più veloce, sempre più breve, ‘fino a trasformarsi in uno zero, fino a scomparire in un battito di ciglia, senza lasciare traccia’. Quanta saggezza in queste parole, come nella divisione dei periodi di vita che si fa a Maqiao, dove la vita pregiata è quella prima dei 18 anni, la vita piena è prima dei 36 e quella dozzinale, senza valore, è quella che segue. Sarà sempre più dozzinale tanto più si allunga, meglio morire giovani, allora.

      Un libro molto bello, da centellinare per coglierne le sfumature, l’umorismo, la profondità, la ricchezza nella povertà.

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lunedì 7 giugno 2021

Stefania Auci, “L’inverno dei leoni” ed. 2021

                                                                       Casa Nostra. Qui Italia

                 saga

Stefania Auci, “L’inverno dei leoni”

Ed. Nord, pagg. 688, Euro 20,00

 

    Eccola Franca Florio, la leonessa di Sicilia, nel quadro di Boldini. Eccola, bellissima, con un misto di sensualità e tristezza, volutamente provocante quasi a rivaleggiare con le donne con cui il marito Ignazio la tradiva, con la collana di 349 perle che sarebbe stata poi venduta all’asta e la spilla di diamanti ad illuminare la scollatura. Suo marito si era infuriato per la gelosia, vedendola nel quadro- e pensare che ogni gioiello era seguito ad un tradimento, era stato regalato a Franca per acquietare la sua gelosia.

    E’ Franca Florio la vera protagonista de “L’inverno dei leoni”, il seguito della storia dei Florio che Stefania Auci aveva iniziato a raccontarci ne “I leoni di Sicilia”. O forse è tale soprattutto per le lettrici che si appassionano alla vicenda della sua vita accanto ad un uomo che diceva di amarla, che la ammirano e soffrono con lei, per la sua solitudine, per la perdita dei figli, per la perdita di tutto, alla fine- della vita scintillante, dei soldi, delle case, dei gioielli che erano ricordi di sofferenza ma che le davano un’aria da regina.


      In realtà è Ignazziddu al centro della narrazione di questo romanzo in cui il titolo, che allude alla stagione invernale, ci raggela- this is the Winter of our discontent, senza però nessuna luce a rallegrare perché nessun figlio maschio erediterà il nome dei Florio.

Nella prima parte del libro (quasi 700 pagine ma vorreste ce ne fossero di più) prosegue l’ascesa di Ignazio Florio, il suo arricchimento dovuto a grandi intuizioni e un’ottima capacità di gestire il patrimonio. Ignazio Florio è come re Mida- tutto fiorisce sotto il suo tocco. La tonnara di Favignana, il vino liquoroso di Marsala, la fonderia dell’Oretea, la compagnia navale. Anche se ormai le ville Florio (splendide per architettura e arredamento, l’Olivuzza, l’Arenella, la villa di Favignana) parlavano della ricchezza della famiglia, Ignazio Florio non aveva dimenticato la casa in via dei Materassai e il negozio di aromi da cui tutto era iniziato. Ignazio conosceva i suoi dipendenti per nome, cercava di mediare i contrasti, era generoso. La Sicilia si reggeva sull’impero dei Florio- dalle mense per i poveri ai centri di assistenza, dal Politeama al Teatro Massimo (il più grande d’Italia con una cupola bronzea di manifattura dell’Oretea), tutto parlava della munificenza dei Florio.


   Accanto a Ignazio una grande donna, la baronessa Giovanna. Lei innamoratissima di lui, lui l’aveva sposata per acquistare una parvenza di nobiltà. Il cuore di Ignazio era altrove, ma il suo comportamento era sempre stato ineccepibile e lei, Giovanna, si era accontentata, con grande dignità.

      Il giovane Ignazziddu non poteva competere con quel padre morto troppo presto. A differenza del padre, lui si era sposato per amore. A differenza del padre lui non si curava di essere sulla bocca di tutti per le sue storielle e per i regali favolosi che faceva alle varie amanti. Dall’esterno era facile vedere come tutto sarebbe precipitato, come la cattiva gestione unita a consigli sbagliati, l’arroganza di presumere di poter fare meglio del padre, la superficialità nel lanciarsi in imprese fallimentari, la leggerezza dei prestiti chiesti, e poi quello spendere, spendere, spendere per mantenere un tenore di vita uguale o superiore a quello di un re, avrebbero portato alla rovina. E quando si cade dall’alto, la caduta è tanto più rovinosa.


     Quella dei Florio è la caduta degli dei. Con loro cade tutta la Sicilia, cade un mondo. Resta il loro nome, resta la leggenda.

     Quando si inizia a leggere il seguito di un romanzo molto amato, si teme che questo non soddisfi le aspettative, si ha paura di restare delusi. E invece c’è magia nel libro di Stefania Auci, se possibile “L’inverno dei leoni” è ancora migliore del libro precedente. E’ più ricco, perché i tempi sono più ricchi di avvenimenti e di cambiamenti, più maturo. Con un dosaggio sapiente la scrittrice alterna pagine in cui viene analizzata l’economia dei Florio, della Sicilia e dell’Italia, in cui si soppesano i rischi e i vantaggi di certe imprese commerciali, si valuta come procurarsi il denaro o fare pressioni sugli interventi del governo, e pagine più intime, più mondane, sulle vicende famigliari, nascite dei bambini, morti strazianti, amori e tradimenti, ricevimenti, chiacchiere e consigli di donne, descrizioni di abiti, gioielli, menù per gli ospiti ma anche gare automobilistiche, soggiorni in città all’estero, visite di sovrani stranieri che riconoscevano la grandiosità di quello che i Florio avevano raggiunto, anche se non erano loro pari per grado.


    E poi ci sono gli squarci di Sicilia. Ha una qualità pittorica, la narrativa di Stefania Auci. Le sue parole descrivono, ricreano, ci fanno vedere e ‘odorare’ la Sicilia. Così quando le fiamme divorano l’Olivuzza, nel puzzo di bruciato, nel rossore dell’incendio, non vediamo solo la fine di una casa, ma di un mondo. ‘Noi fummo i Gattopardi, i Leoni’, diceva il Principe di Salina. Anche i Leoni sono scomparsi e le ceneri dell’Olivuzza sono come la polvere del manto del cane Bendicò scaraventato fuori dalla finestra che sembra danzare nell’aria muovendo le zampe rampanti come quelle del Gattopardo.


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La recensione sarà pubblicata su www.Stradanove.it



venerdì 4 giugno 2021

Ingrid Persaud, “Love after love” ed. 2021

                                        Voci da mondi diversi. America Latina

        love story

Ingrid Persaud, “Love after love”

Ed. e/o, trad. Paola D’Accardi, pagg. 453, Euro 18,00

 

     Isola di Trinidad. Un romanzo a tre voci che ha vinto il Costa Book Award 2020. Una donna da poco vedova, Betty. Suo figlio Solo che all’inizio ha cinque anni. Mr. Chetan, un insegnante che ha preso in affitto una stanza in casa di Betty.

     Sembra una storia leggera, quella che si srotola in un arco di tempo piuttosto lungo nel romanzo di Ingrid Persaud, scrittrice nata a Trinidad che vive tra Barbados e Londra, e invece, con leggerezza, parla d’amore e, prima ancora che ce ne rendiamo conto, parla di diverse forme di amore, e poi del rifiuto dell’amore, e di amore omosessuale, dell’amore di un genitore e di chi non è genitore ma ne fa le veci, di amicizia, di omofobia, di discriminazione, di famiglia. Di colpe e di segreti.

    Il segreto più segreto che Betty si lascerà poi sfuggire in una confidenza con Mr. Chetan, a noi è più o meno chiaro fin dall’inizio. Il marito di Betty era un uomo molto bello ma che diventava violento dopo aver bevuto. Aveva mandato più volte Betty in ospedale e i medici che la curavano fingevano di credere che fosse caduta per le scale, che avesse sbattuto contro una porta, che fosse molto sbadata. E poi un giorno era stato lui a cadere dalle scale…


    Il segreto di Mr. Chetan è più lento nel fare ‘coming out’, ma al lettore è chiaro da molti indizi. A Betty non è chiaro affatto, lei si affeziona a questo uomo gentile che diventa una sorta di padre sostituto per Solo- Mr. Chetan vuol bene al bambino che lo adora e che, anche crescendo, trova in lui un amico e un appoggio.

    Nessuno è pienamente felice nell’isola del sole e del mare e dei canti e del cibo squisito (Mr. Chetan è un ottimo cuoco). Betty non capisce perché Mr. Chetan, un uomo così garbato e piacevole, non si senta attratto da lei, Mr. Chetan vorrebbe avere con Betty un legame di altro tipo ma non può fare a meno di guardare gli uomini. Soltanto Solo è sereno, fino al giorno in cui ascolta quello che le sue orecchie non dovrebbero sentire.

    C’è ancora molto, dopo questa svolta cruciale. La vita di Solo ospite dello zio a New York, una città gelida che non fa sconti ai ragazzini ingenui. E Solo scende per una china pericolosa che non è la droga ma un’autopunizione, mentre a Trinidad sua madre espia la sua colpa nella maniera più dolorosa, perché il figlio si rifiuterà per anni di rispondere alle sue chiamate, e Mr. Chetan inizia diverse relazioni che sono esaltanti soltanto all’inizio.


    L’alternarsi delle tre voci arricchisce la narrazione con diversi punti di vista ed esperienze diverse, assicurando così la molteplicità di un sentimento così universale come è l’amore. Con un finale che è in brutale contrasto con tutto quello che abbiamo letto, la negazione dell’amore che, di per sé, è tollerante e non può avere niente a che fare con la violenza. 


C’è anche un aspetto colorato e forse un po’ troppo folcloristico nel romanzo- non solo la descrizione succulenta di piatti tipici ma anche quella dei riti delle pratiche magiche obeah che sembra quasi siano state aggiunte per speziare il racconto.


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mercoledì 2 giugno 2021

Elvira Lindo, “A cuore aperto” ed. 2021

                          Voci da mondi diversi. Penisola iberica

    storia di famiglia

Elvira Lindo, “A cuore aperto”

Ed. Guanda, trad. R. Bovaia, pagg. 384, Euro 18,05

 

    Succede a tutti nella vita. Che venga il momento- e in genere è dopo che siamo rimasti orfani di entrambi i genitori- in cui ci si guarda indietro, si prova il desiderio di ricostruire il puzzle del passato, di fermare nella memoria la figura di nostro padre e di nostra madre, di offrire loro l’eternità nel nostro ricordo. E chi possiede l’arte della scrittura, ha la doppia fortuna di rendere partecipi gli altri dei loro ricordi, di far conoscere agli altri il padre e la madre, inserendoli quasi nel numero dei loro amici.

     All’inizio del romanzo “A cuore aperto” sembra al lettore che ne sia lei stessa, la scrittrice Elvira Lindo, la protagonista, perché in tutta la prima parte è lei bambina ad occupare la scena. Ultima di quattro figli, Elvira è coccolata dal padre e dalla madre, oggetto di scherzi da parte dei due fratelli, protetta dalla sorella Inma. Sono pagine in cui il passato è filtrato attraverso gli occhi della bambina- il trasferimento a Maiorca, la scuola, l’accento maiorchino delle nuove compagne che lei cerca di imitare, la sua statura piccola che fa sì che venga messa in una classe inferiore a quella in cui dovrebbe essere. Poi l’operazione al cuore della mamma, il periodo in cui Elvira resta a Madrid, spedendo i compiti per posta, perché la mamma ha bisogno di lei, la vuole vicina.


    La storia di famiglia non segue, però, un andamento cronologico e  la narrazione acquista vivacità perché cambiano i personaggi al centro della scena, in alcuni capitoli avanzano alcuni che erano rimasti ai margini- i fratelli, la sorella, la nonna buona e la nonna ‘cattiva’, una zia, le amiche-, per poi ritornare nell’ombra, e un fatto che all’inizio era stato detto come marginale- l’inizio di tutto, nel 1939, quando il padre era arrivato a Madrid- viene poi ripreso, acquistando una nuova importanza.

   Perché è lui, Manuel, Manolo, il vero protagonista del romanzo di Elvira Lindo. Un gigante, in famiglia e nel libro. La guerra civile era appena finita quando, nel 1939, sua madre lo aveva mandato da solo a Madrid, da una zia. Lui aveva nove anni. C’erano troppe bocche da sfamare in famiglia, era un bambino sveglio, se la sarebbe cavata. Il padre aveva sempre raccontato con baldanza la sua grande avventura, ma, che cosa doveva avere provato quel lui bambino dentro di sé? Doveva essere stata una durissima esperienza di abbandono, di rifiuto. E per di più la zia, infermiera, era una donna dura che lo picchiava. Passi per le botte della madre, quelle della zia non potevano essere tollerate. E, sempre da solo, il bambino era partito in treno, accompagnandosi ad una vecchia a cui si era offerto di portare il bagaglio perché nessuno gli facesse domande, ed era andato da degli zii di cui aveva solo sentito parlare e che per fortuna lo avevano accolto. Un trauma, questo, di cui avrebbe risentito più tardi, quando, ormai adulto ma solo a Cadice per motivi di lavoro, aveva avuto un crollo nervoso. Eppure questo bambino che neppure aveva avuto la possibilità di studiare, avrebbe fatto strada nella vita, sarebbe diventato revisore dei conti, viaggiando per tutta la Spagna con la famiglia a seguito. Era amico di tutti, suo padre. Parlava con tutti, per fuggire da quella solitudine che aveva sofferto e che temeva più che ogni altra cosa. E aveva due vizi, il fumo e il bere. E poi amava la donna di cui si era innamorato a prima vista, l’avrebbe amata sempre, nonostante i tradimenti e le baruffe dettate dalla gelosia di lei.


    La storia della famiglia della scrittrice è ambientata negli anni del franchismo, ma non c’è una dimensione politica nel romanzo. Piuttosto rivivono, di quegli anni, l’atmosfera, il puritanesimo, i comportamenti, le proibizioni, le mode, i divertimenti, perfino l’arredamento. Campeggiano lui e lei, e la bambina Elvira, diventata poi donna e scrittrice (suo padre serbava gli articoli di giornale che anche solo accennavano a lei), in un racconto liberatorio, ‘a cuore aperto’ che già nel titolo omaggia la madre che era stata operata ‘a cuore aperto’, per l’appunto.

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