venerdì 27 febbraio 2015

Roberto Riccardi, “La firma del puparo” ed. 2015

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
                                                                  cento sfumature di giallo
     FRESCO DI LETTURA



Roberto Riccardi, “La firma del puparo”
Ed. e/o, pagg. 199, Euro 16,00

    “Dottore, prima di farmi altre domande sappia che pongo due condizioni. La prima è che proteggiate la mia famiglia”.
   “Come è composta?” s’informò il magistrato.
   “I miei figli, mia moglie e una sua cugina che vive con noi”.
  Gli occhi di Cordero divennero fessure. “E la seconda?”.
  “Chiedo che le indagini e la tutela dei miei cari siano affidate al tenente Rocco Liguori”.

      
   Un altro Rocco, oltre a Rocco Schiavone, sulla scena del romanzo poliziesco/noir/criminale italiano. I due Rocco sono talmente diversi che è impossibile confonderli. Il Rocco Schiavone di Antonio Manzini è il più antipatico simpatico vicequestore che indaga sui delitti commessi ad Aosta infradiciandosi le Clarks che si intestardisce a voler indossare come se vivesse ancora a Roma. Il Rocco Liguori di Roberto Riccardi è un tenente dei Carabinieri così rifulgente nella sua immaginaria armatura, così integerrimo e al di sopra di ogni sospetto, da farci rivalutare l’Arma (lo stesso Roberto Riccardi riveste il grado di colonnello dei Carabinieri, oltre ad essere scrittore e giornalista). Nel romanzo precedente, “Venga pure la fine”, Rocco Liguori veniva chiamato in Olanda, dove un criminale di guerra bosniaco, con cui Rocco aveva intrattenuto una corrispondenza, aveva cercato di suicidarsi. Nel nuovo libro, “La firma del puparo”, un altro carcerato che Rocco conosce molto bene chiede di parlare con lui. Di più. Nino Calabrò è un pentito della ‘ndrangheta e accetta di parlare soltanto se sarà Rocco Liguori personalmente a farsi carico della protezione della sua famiglia che si troverebbe in una condizione di altissimo rischio, non appena Nino incominciasse a parlare, a fare nomi, a sollevare il coperchio del vaso di Pandora.

    Siamo a Palermo, bellissima Palermo, Palermo dannata, con quell’anima scura di mafia, incrocio delle vie di smercio della polvere bianca, ricordi che pesano come piombo di delitti ed agguati, di una lotta senza fine contro l’omertà, di una distorta concezione dell’onore, di una violenza disumana che nulla rispetta, neppure i bambini. Ecco, i bambini. Se Nino parla, se incomincia a rivelare che cosa ci sia dietro la sparizione- avvenuta molti anni prima- del giornalista Michele Sanfilippo il cui corpo non è mai stato ritrovato, se Nino si disonora, le sue colpe ricadranno sui suoi figli. Che cosa questo significhi nel linguaggio della ‘ndrangheta o della ‘ndrina, lo sanno tutti. E Nino tiene moglie e tre figli, l’ultimo è un maschietto, ha pochi mesi, è il suo erede. Bisogna farli andare via dal paese, si dirà in giro che si sono spostati in una città più vicina a quella dove si trova il carcere di Nino, nessuno deve sapere nulla. Perché deve occuparsene Rocco? Perché ai bambini di adesso, la cui vita è in pericolo, si contrappongono i vividi flash sui bambini di un tempo, Rocco e Nino, amichetti improbabili in un paese dell’Aspromonte dove il padre di Rocco era maresciallo dei Carabinieri, compagni di gioco finché i giochi di Nino si erano discostati troppo da quelli dell’infanzia. Ed ora Nino si fida solo di Rocco.

    Rocco e il serio e pacato sostituto procuratore Cordero, l’uditore giudiziario Francesca Mucci che ha appena avuto una delusione d’amore e Vera, il commissario della Omicidi che Rocco ha già incontrato in “Undercover” (e, per chi non lo avesse letto, dei brevi flashback illuminano la loro storia non ancora ‘decollata’), i boss di due famiglie nemiche che si combattono senza esclusione di colpi con crudeltà barbarica, due grandi assenti, il giornalista Sanfilippo e il figlio di uno dei boss, scomparsi quasi contemporaneamente- sono questi i personaggi protagonisti de “La firma del puparo” in una vicenda che si svolge in parte in Sicilia e in parte a Mantova, dove la famiglia Calabrò vive confinata in casa, in grande segretezza. Segretezza non rispettata da una cugina senza cervello che ama troppo flirtare con gli uomini…

    Serratissimo e appassionante, con un personaggio che amiamo e rispettiamo per il suo profondo senso etico, il nuovo libro di Roberto Riccardi si legge velocemente. Anzi, troppo velocemente: capita sovente di pensare che un centinaio di pagine in meno avrebbero giovato ad un romanzo. In questo caso pensiamo il contrario: un centinaio di pagine in più avrebbero dato più spessore al libro che, a tratti, ci pare un poco affrettato.

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mercoledì 25 febbraio 2015

James Salter, “Una perfetta felicità” ed. 2015

                                                  Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                                FRESCO DI LETTURA


James Salter, “Una perfetta felicità”
Ed. Guanda, trad. Katia Bagnoli, pagg. 371, Euro 18,50
Titolo originale: Light Years
“Ci sono cose che mi piacciono del matrimonio. Mi piace la familiarità” disse Nedra. “E’ come un tatuaggio. Un giorno l’hai voluto, adesso ce l’hai, è inciso sulla tua pelle e non te ne puoi più liberare. Quasi non ti ricordi neanche più di averlo. Credo di essere molto convenzionale” concluse.


      1958. Una grande dimora vittoriana sul fiume Hudson, vicino a New York. Una casa con giardino, “troppo bassa per il sole del pomeriggio. Inondata tuttavia dalla luce del mattino, la luce da est. In gloria, a mezzogiorno”. Un pony di nome Ursula. Un cane, Hadji. Una coppia che, come la casa, sta vivendo- senza ancora saperlo- il periodo più luminoso, il mezzogiorno della loro vita in comune. Lui si chiama Viri. Conosceremo molto più tardi il suo vero nome, Vladimir. E’ un ebreo di origine russa, “un ebreo dei più eleganti, dei più romantici, con un accenno di fiacchezza nei tratti, i tratti intelligenti che tutti gli invidiavano”. Lei, Nedra, ha ventotto anni. “Ha la bocca grande, la bocca di un’attrice, emozionante, vivace”. Un’indole stravagante, una fossetta sul mento, “un segno di intelligenza, di nudità, che portava come un gioiello”. Due bambine di sette e cinque anni, Franca e Danny.

“Una perfetta felicità” è la storia di questa coppia, la storia di quella che in apparenza sembra una perfetta felicità coniugale e che, invece, a poco a poco, lascia trasparire stanchezza e abitudine, bisogno di evasione. Sia Nedra sia Viri hanno una relazione, più duratura quella di Nedra, più deludente quella di Viri. Sarà Nedra a prendere la decisione di andarsene, quando le figlie sono ormai grandi, e lei parte per l’Europa che ha sempre sognato, alla ricerca di se stessa. Il matrimonio di Viri e Nedra è come la splendida casa che non riceve la luce del pomeriggio.
    James Salter è un cesellatore, un artista che crea la sua opera d’arte tocco su tocco, aggiungendo e sottraendo. Ogni capitolo, ogni frammento di vita della coppia Viri-Nedra, inizia con una breve descrizione della natura, del tempo, della qualità della luce- è il passaggio lento delle stagioni che eternamente ritornano, erodendo un poco l’armonia familiare. Poco cambia in apparenza. Viri e Nedra ricevono amici, le loro cene sono sempre capolavori di raffinatezza, gli amici che frequentano sono moderatamente intellettuali, le conversazioni intelligenti. Succede poco, succede quello che succede nella vita di chiunque. Viri va al lavoro (è un architetto), Nedra va a New York a fare acquisti, incontra il suo amante libanese mentre Viri si invaghisce della nuova segretaria, il padre di Nedra viene a trovarli, le bambine sono entrambe belle (soprattutto Franca), sono buone, i genitori le adorano. Quando tutto sarà finito, quando la casa sembra diventare troppo grande senza Nedra, Viri tira le somme, “aveva voluto una sola cosa, decisamente troppo piccola: aveva voluto che le figlie crescessero nella felicità della casa”.

    Il libro non finisce, però, con la loro separazione, c’è altro che accade a tutti i membri della famiglia nella decina di anni che segue, a New York e a Roma. Il passo della narrazione di James Salter è pacato e lo scrittore è colui che tutto sa e spiega. Con tono distaccato che non lascia trapelare la forza delle passioni che paiono assenti. Abbiamo l’impressione di guardare dei pesci che nuotano in un acquario, di quelli in cui l’acqua è pulitissima e ogni dettaglio è curato, ma c’è il vetro tra di noi e il movimento che vediamo. Qualcosa, nell’ambiente descritto da Salter, nel gestire o nel parlare, nelle occupazioni dei suoi personaggi, o nel loro aspirare alla bellezza, ci ricorda Francis S. Fitzgerald. Salter è capace di scrivere frasi bellissime che si incidono dentro di noi. E tuttavia è anche capace di innervosire con appunti arbitrari su di un personaggio, come quando, descrivendo il padre di Nedra, dice che ha una fossetta nel mento che lo rende simile ad un postino tedesco. Oppure quando dice, in maniera piana e scontata, che “un ebreo senza soldi è come un cane senza denti”.

     James Salter è un grande scrittore, anche se o lo si ama o lo si odia. Però leggetelo, perché ne vale la pena. E decidete se lo amate o lo odiate.

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lunedì 23 febbraio 2015

Peter May, “L’uomo di Lewis” ed. 2013

                                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
          cento sfumature di giallo
          il libro ritrovato

Peter May, “L’uomo di Lewis”
Ed. Einaudi, trad. Chiara Ujka, pagg. 362, Euro 18,50
Titolo originale: The Lewis Man


Fece scorrere la pagina e guardò la fotografia della testa di un corpo trovato sessant’anni prima in una torbiera in Danimarca. Un volto color cioccolato incredibilmente ben definito, una guancia schiacciata contro il naso dal lato appoggiato per riposare, una barba di qualche giorno ancora chiaramente visibile sul labbro superiore e sul mento.


    Il titolo italiano del secondo romanzo della trilogia dello scrittore scozzese Peter May, “L’uomo di Lewis”, fa pensare semplicemente a Fin Macleod, l’uomo dell’isola Lewis (nell’arcipelago delle Ebridi, al largo della costa occidentale scozzese) che è il protagonista dei libri di Peter May, il poliziotto che, ne “L’isola dei cacciatori di uccelli”, ritornava sull’isola dopo vent’anni di assenza per indagare su un caso. Il titolo originale, “The Lewis man”, ricorda, invece, ad un lettore inglese, “The Tollund man”, una delle poesie più belle di Seamus Heaney, il poeta irlandese che vinse il Nobel nel 1995 e che è scomparso da poco: Un giorno andrò ad Aarhus/ a vedere la sua testa scura come torba/, i morbidi baccelli delle sue palpebre,/ il suo cappuccio di pelle a punta. L’uomo di Tollund era stato trovato in Danimarca nel 1950, un corpo sepolto nella torba la cui acidità l’aveva preservato intatto per duemila anni.

    Il romanzo di Peter May inizia proprio così, con il ritrovamento di un cadavere mentre uomini, donne e bambini stanno tagliando zolle di torba, il combustibile più economico in tempi di crisi. Si tratta di un uomo giovane e solo il materiale di una placca inserita nel suo cranio per un qualche intervento chirurgico può permettere di datarne la morte verso la fine degli anni ‘50 e non anche mille anni prima. Un altro dettaglio conferma la data: un tatuaggio di Elvis Presley, con il titolo di una sua canzone. Amava la musica del re del rock, il ragazzo sconosciuto, morto sgozzato come per un sacrificio (proprio come l’uomo di Tollund) e sepolto nella torba! Nel romanzo precedente era stato rilevato il DNA di tutti gli abitanti del paese di Crobost per individuare il colpevole ed è in base a quello che si scopre che la vittima deve avere un legame di parentela con Tormod Macdonald, il padre di Marsaili, il primo amore di Fin Macleod che ora non è più un poliziotto, ha divorziato e ha lasciato definitivamente Edimburgo per tornare a restaurare la casa dei suoi genitori sull’isola.

    Scrivere una trilogia di romanzi del genere thriller ambientati su un’isola che ha otto abitanti per chilometro quadrato non è facile- lo ha detto lo stesso scrittore durante il festival della letteratura di Mantova di quest’anno. La gente non passa il tempo ad ammazzarsi (per fortuna). Bravissimo Peter May, dunque, nell’ideare trame affascinanti che spaziano dal passato al presente, nel tratteggiare personaggi di grande spessore, nel raffigurare la vita dura e claustrofobica di gente che sa vivere accontentandosi di poco, reggendo alla sfida di una natura selvaggia, desiderando allontanarsi da quelle spiagge spazzate dal vento e incapaci però di restare lontani a lungo dall’aria tesa, dal profumo del mare aperto, dalla mancanza di confini in un orizzonte che si tuffa nel mare. Se ne “L’isola dei cacciatori di uccelli” Peter May alternava la narrativa in prima e in terza persona mantenendo un unico personaggio principale, Fin Mcleod, che ricordava il passato e cercava un assassino in un presente collegato a quel passato, ne “L’uomo di Lewis” lo scrittore affida le memorie del passato (narrate in prima persona) ad un personaggio che suscita in noi compassione, rispetto, una pietà ancora più grande quando veniamo a conoscere tutta la sua storia che ha qualcosa di dickensiano nella rievocazione di orfanotrofi e bambini vessati. L’anziano Tormod è affetto da demenza senile, non è un narratore affidabile, soprattutto perché- come avviene nei casi come il suo- il tempo ha perso valore per lui, fatti accaduti più di mezzo secolo prima gli sembrano appartenere all’ieri, le sue lacrime davanti alla foto dell’uomo di Lewis ci straziano il cuore. Il racconto in terza persona, invece, porta avanti l’inchiesta, il riambientarsi di Fin sull’isola, il suo riallacciare il legame con Marsaili e con il loro figlio- il finale, con tanto di mafia irlandese, è mozzafiato.


   Non sarà facile attendere la pubblicazione del terzo libro, perché i romanzi di Peter May sono di quelli che ti fanno amare i personaggi, ti fanno desiderare di seguire ancora le loro vite. Sono bellissimi romanzi, prima ancora di essere ‘thriller’. In più fanno venire la voglia di prendere un aereo per Glasgow e da lì un volo locale per Stornoway, per ricevere in faccia le sferzate del vento che viene dall’oceano.

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Alessia Gazzola, “Una lunga estate crudele” ed. 2015

                                                                Casa Nostra. Qui Italia
                                                                cento sfumature di giallo
                                                                FRESCO DI LETTURA



Alessia Gazzola, “Una lunga estate crudele”
Ed. Longanesi, pagg. 313, Euro 16,40, ebook Euro 9,99

   Mi chiamo Alice Allevi e sono una specializzanda in Medicina legale al quarto anno. A volte mi sento l’alieno del mio Istituto: vengo da un pianeta in cui la Medicina legale è un sogno di romantiche e un po’ lugubri avventure, ma sono atterrata in un mondo fatto di giochi di potere tra periti e avvocati e di scadenze impossibili da rispettare.
  Io mi aspettavo qualcosa di un po’ diverso.
 Forse perché quando mi sono innamorata della Medicina legale mi sono innamorata anche di un medico legale e credevo che sarei diventata come lui.

     So di ripetermi: Alessia Gazzola mi piace. E mi piace il suo personaggio, la specializzanda in medicina legale Alice Allevi. D’altra parte è anche una ripetizione (graditissima) il piacere che provo leggendo ogni suo nuovo romanzo, con un’Alice che non è più la sprovveduta ventitreenne di “Sindrome da cuore in sospeso” e però ha mantenuto tutta la freschezza, la sincerità e il brio che ce la fanno amare. E’ soltanto- forse- un po’ meno maldestra, ma a pagina 149 del nuovo romanzo “Una lunga estate crudele” mi sono ritrovata a ridere di gusto leggendo del disastro causato dalla sua goffaggine. Questa volta, con un insolito spirito cavalleresco, è proprio Claudio Conforti a salvarla dalle ira della Wally, il bel Claudio che ha fatto innamorare Alice fin dal primo incontro e che, ora lo dice apertamente, non vuole nulla di più di quello che c’è adesso tra di loro: perché sciupare l’amore costringendolo in una routine?
    Il segreto dei libri di Alessia Gazzola è, prima di tutto, nella creazione del personaggio di Alice che non ha uguali sulla scena del romanzo di genere. Lo spirito di certe sue battute ci fa pensare a Pedra Delicado di Alicia Giménez Bartlett (Alice sta leggendo un suo libro in “Una lunga estate crudele”, un omaggio alla scrittrice spagnola) ma Alice è diversa, è più prettamente italiana, con il suo attaccamento alla famiglia, più ‘la ragazza della porta accanto’ che ci sembra di conoscere di persona. E poi le trame di Alessia Gazzola sono in perfetto equilibrio tra il giallo e il rosa, il macabro delle scoperte di cadaveri è bilanciato dalla scelta di un abito per una serata o da una schermaglia amorosa, il male e la morte hanno la controparte nella vitalità di Alice e nell’amore.

Questa volta Alice si trova davanti a un ‘cold case’ molto ‘freddo’: in una sorta di cripta del teatro romano dove si rappresentano le opere di Shakespeare vengono ritrovati dei resti umani. Appartengono ad un attore che era scomparso venticinque anni prima. Il suicidio è da escludere, la porta era chiusa dall’esterno. Come al solito Alice non riesce a limitarsi ai suoi compiti medici, ormai l’ispettore Calligaris ha imparato a sfruttare la sua curiosità e il suo intuito e si rivolge a lei per aiuto. Non è facile ritrovare gli altri attori che avrebbero dovuto recitare in “Molto rumore per nulla”, solo uno vive ancora a Roma ed è diventato famoso- era un amico del morto, a suo tempo ne aveva denunciato la scomparsa. Il mondo della medicina legale, le rivalità e gli screzi sono nulla in confronto alle correnti dei sentimenti, delle gelosie, delle ambizioni del mondo dello spettacolo. Inoltre quel vecchio caso falcia una nuova ‘quasi’ vittima.
     Questa, in cui Alice si occupa di un caso ‘freddo’, è veramente un’estate molto calda a Roma. Alice si lascia tentare- perché no?- e accetta l’invito dell’antropologo forense Sergio Einardi a passare un fine settimana ad Alicudi.
Terzo uomo che si affaccia nella vita di Alice, Sergio è tutto quello che Claudio e Arthur non sono: galante, affidabile, rispettoso senza essere affatto noioso. Sergio è un gentiluomo. Perché le cose di cuore non sono mai facili? Perché Alice non può incoraggiarlo e smettere di lasciarsi manovrare dagli altri due corteggiatori che la prendono e la lasciano secondo il loro umore? Perché al cuore non si comanda. Peccato, perché proprio perché Alice è ‘la ragazza della porta accanto’ noi vorremmo vederla felicemente sistemata, vorremmo che desse un’opportunità a Sergio che sembra uscito da un’altra epoca.
    La lettura del romanzo di Alessia Gazzola è l’ideale per rallegrare queste uggiose giornate invernali. Peccato dover aspettare un intero anno prima di leggerne un altro (sappiamo bene, però, che un intervallo più breve finirebbe per stancarci).

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domenica 22 febbraio 2015

Tan Twan Eng, “Il giardino delle nebbie notturne” Ed. 2013

                                                             Voci da mondi diversi. Asia
                                                             il libro ritrovato


Tan Twan Eng, “Il giardino delle nebbie notturne”
Ed. Elliot, trad. Manuela Francescon, pagg. 368, Euro 18,50
Titolo originale: The Garden of Evening Mists

Una volta che avrò perduto la facoltà di comunicare con il mondo esterno, mi resterà solo la memoria. I ricordi saranno il banco di sabbia che si staccherà dalla riva sotto la spinta della marea. Col passare del tempo anch’essi saranno sommersi, diventeranno inaccessibili. L’idea mi terrorizza. Perché cosa resta di una persona quando non ha più i ricordi? Un fantasma intrappolato fra i mondi, senza identità, senza futuro, senza passato.

    Malesia. Sul finire degli anni ‘80. Il giudice Yun Ling Teoh ritorna a Yugiri, un tempo splendida casa con un rinomato giardino giapponese- ora sia la casa sia il giardino hanno bisogno di parecchio lavoro per essere di nuovo come erano in passato.
Sempre Yugiri, ma nel 1951: la ventottenne Yun Ling, assistente avvocato nel tribunale che persegue i crimini di guerra, si è presa una pausa da un lavoro che le annienta l’anima ed arriva sull’altopiano del Cameron dove sarà ospite di un amico di famiglia, proprietario di piantagioni di tè. Yun Ling ha uno scopo: incontrare lo schivo Aritomo, il giapponese che è stato il giardiniere dell’imperatore e che ora ha creato per sé il giardino di Yugiri, per chiedergli di realizzare per lei un giardino in memoria di sua sorella. Aritomo rifiuterà ma le proporrà, invece, di diventare sua apprendista per offrire lei stessa un giardino giapponese alla sorella che si era innamorata dei giardini durante un viaggio con la famiglia in Giappone e che era morta in un campo di prigionia giapponese.

    Yugiri: Nebbie notturne è la traduzione del nome del giardino, protagonista straordinario del bellissimo romanzo di Tan Twan Eng, vincitore del Man Asian Literary Prize. E una leggera nebbia di mistero avvolge sempre il giardino e i personaggi- a tratti si dirada, mentre ognuno di loro confida una parte della sua storia, mai tutta interamente, perché restano zone buie, angoli inesplorati di un giardino dell’anima che ha bisogno di un raggio di sole, di un soffio che spazzi il dolore del ricordo. Proprio come avviene per l’area del giardino in cui Aritomo ha ‘dipinto’ le due gocce del Tao, il bene e il male, positivo e negativo, tagliando l’erba ad altezza diversa in un disegno che si rivela solo con il vento e una certa luce.
Quando il Giappone invase la colonia britannica di Malesia l’8 dicembre 1941, lo stesso giorno dell’attacco di Pearl Harbor, le forze inglesi non fecero nulla per difendere la popolazione e Yun Ling e sua sorella, appartenenti ad una famiglia cinese, erano state deportate in un campo di prigionia. Dopo- a guerra finita- Yun Ling aveva fatto indagini per ritrovare quel campo, per dare sepoltura alla sorella. Non era riuscita a sapere nulla- sembrava che nessuno avesse mai sentito parlare di quel campo di cui Yun Ling era l’unica sopravvissuta. Perché era un segreto che doveva essere difeso così strenuamente? Che cosa c’era nelle casse che i prigionieri trasportavano nella miniera che era stata fatta saltare in aria?
Le ferite che Yun Ling ha riportato dalla prigionia non sono solo le dita che le mancano sulla mano sinistra (e lei è mancina). Sono il ricordo del viso della sorella obbligata a compiacere le voglie dei giapponesi, dei mezzi che Yun Ling ha usato per vivere, per sopravvivere, ad ogni costo, ad onta di tutto. Sono l’odio e la rabbia che si porta dentro: come può creare un giardino giapponese, l’essenza della calma e del vuoto, se si porta dentro questo furore? Come può lavorare fianco a fianco con un giapponese, anzi con il giardiniere giapponese dell’imperatore, con un uomo che ogni mattina si inchina tuttora davanti all’immagine di Hirohito, come lei è stata obbligata a fare nel campo?
truppe giapponesi entrano a Kualu Lumpur
    Il romanzo di Tan Twan Eng procede con la stessa accurata pazienza che un giardiniere impiega nel suo lavoro. Aritomo diceva: “Prenditi buona cura del giardino e il giardino conserverà i ricordi al posto tuo”. Diceva anche: “Una vecchia casa possiede un suo gruzzolo di ricordi”. Ecco, è il tesoro della memoria che la non più giovane Yun Ling è tornata a cercare a Yugiri. Ha una malattia, che non è demenza, che non è Alzheimer, che le farà perdere i ricordi, che la renderà incapace di capire il mondo che la circonda. Tra il presente degli anni ‘80, in cui forse- ma solo forse- si arriva a capire perché Aritomo sia scomparso all’improvviso trentaquattro anni prima, e il passato del 1951 e 1952 ancora traboccante della sofferenza della guerra, il romanzo si snoda lungo i sentieri del giardino, spiegandoci le tecniche del giardinaggio e il significato di ogni sasso e della sua collocazione, raccontandoci più di una storia d’amore, illustrandoci le xilografie di Aritomo e mostrandoci, da ultimo, un inaspettato e fantastico horimomo, il tatuaggio a corpo intero, quasi un colorato batik sulla pelle.
    Un libro indimenticabile, di quelli che vorremmo non finissero mai.

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venerdì 20 febbraio 2015

Derek B. Miller, “Uno strano luogo per morire” ed. 2015

                                                                  cento sfumature di giallo
      FRESCO DI LETTURA


Derek B. Miller, “Uno strano luogo per morire”
Ed. Neri Pozza, trad. Massimo Gardella, pagg. 313, Euro 18,00, e-book Euro 8,99
Titolo originale: Norwegian by Night



   Hanno fatto la stessa cosa anche a noi, pensa sbirciando dallo spioncino. La compassione svanisce ed è sostituita dall’indignazione latente appena sotto la superficie delle sue abitudini quotidiane e risposte per le rime.
   Gli europei. Quasi tutti loro, in epoche diverse. Osservavano dallo spioncino- i loro occhi sottili e loschi incollati alle lenti convesse per guardare la fuga di qualcun altro- mentre i vicini di casa stringevano al petto i propri figli e bruti armati li stanavano da un edificio all’altro come se tutta l’umanità dovesse essere sterminata. Dietro lo spioncino alcuni erano spaventati, altri provavano pietà, altri ancora gioivano della mattanza.

   Che cosa ci fa un ottantaduenne ebreo americano, ex marine che ha combattuto in Corea, a Oslo? Come ha fatto a finire lì, circondato dai volti imperscrutabili di persone che parlano una lingua di cui non capisce una parola? A dire il vero, non sa neppure lui perché si sia lasciato convincere a sradicarsi dalla casa in cui ha vissuto con la moglie e il figlio, dalla strada in cui c’era il suo negozio di orologiaio. Oppure lo sa benissimo: perché sua nipote Rhea ha sposato un norvegese ed ora è incinta. C’è un bambino in arrivo. Non potrà mai sostituire il figlio Saul che è morto in Vietnam, ma è ugualmente una promessa per il futuro. E Rhea era preoccupata per lui, che avesse un inizio di demenza senile, come sosteneva la nonna. Perché da un po’ di tempo Sheldon si era messo a raccontare di essere stato un cecchino nella guerra di Corea, di aver ucciso una dozzina di coreani, di aver ricevuto delle medaglie (com’è che prima aveva detto solo di essere stato un furiere? E dove erano, poi, queste medaglie?). Ed era certo che i coreani lo spiassero, che fossero pronti a tendergli una trappola. Anche in Norvegia, figurarsi.

   Il primo romanzo di Derek Miller, scrittore americano con una specializzazione in politica internazionale che vive da anni con la moglie e i due figli a Oslo, è uno dei migliori che mi sia capitato di leggere in questo inizio di anno. D’altra parte è stato scelto come romanzo dell’anno (2013) da The Guardian, The Economist, The Financial Times. E’ stato definito come ‘crime novel’ e la casa editrice Neri Pozza l’ha inserito nella collana dei noir ma, come spesso avviene, qualunque definizione va stretta a questo libro di Derek Miller che è, nello stesso tempo, una storia di forte tensione con degli assassini pronti a tutto, una visione sulla Storia  che pare essere un condensato di guerre- la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea, quella del Vietnam, quella dei Balcani-, ognuna con i suoi orrori e il suo bagaglio di morte, un esame delle responsabilità del ruolo dei genitori, una riflessione sulla vecchiaia, i suoi limiti (tanti) e i suoi vantaggi (pochi ma preziosi), e infine il racconto del viaggio avventuroso (e divertente, se non ci fossero gli inseguitori con il fiato sul collo) di un vecchio e un bambino che ricorda, volutamente, quello di Huck Finn e dello schiavo Jim.
     Mentre si trova da solo nell’appartamento della figlia, Sheldon Horowitz sente urla e colpi provenire dall’appartamento di sopra. Non è la prima volta che sente quei due litigare in una lingua che gli pare dei Balcani. Sente passi per le scale. Mette l’occhio allo spioncino e vede una donna e un bambino. Stanno scappando. Sheldon, l’ebreo americano che non aveva potuto arruolarsi perché troppo giovane all’epoca della seconda guerra mondiale, fa quello che la maggioranza silenziosa d’Europa non fece. Sheldon apre la porta e offre rifugio alla madre e al bambino. Non riuscirà a salvare lei ma farà di tutto per sottrarre il bambino ai suoi inseguitori. E’ questo il filone della crime story con un protagonista eccezionale che sfodera tutta la sua esperienza di ex marine (non c’è limite alle sue trovate, spesso fantasiose e divertenti) per rimediare- se possibile- a quella che considera la colpa più grave della sua vita: è stato il suo idealismo (ma era giusto, poi?), sono state tutte le sue storie di guerra che hanno spinto suo figlio a combattere in Vietnam, dove è morto. La vita del bambino, albanese o kosovaro o serbo, per quella di Saul morto a ventidue anni. No, non è demente, Sheldon. Ha l’artrite ma è in gambissima, se hai imparato ad usare un’arma, lo sai fare sempre. Come andare in bicicletta. E’ solo che la sua mente vaga tra presente, con tutti i sensi all’erta, e passato- il suo, in Corea, e poi gli anni con Saul bambino e dopo con Saul adulto, e l’arrivo di Rhea-, vede amici che sono già morti come se fossero lì, in carne e ossa, vive la fine di Saul come se fosse stato con lui sul Mekong. Che male c’è se questi amici ‘della memoria’ gli danno consigli, lo obbligano a riflettere, come se fossero il suo doppio?

     “Uno strano luogo per morire” è un libro che ha diverse chiavi di lettura- quella semplice del romanzo poliziesco (c’è una coppia di poliziotti norvegesi un poco ‘fuori dal tempo’, spiazzati dal caso complesso che si ritrovano a risolvere), quella ricolma dei problemi dell’oggi, dall’immigrazione alla politica internazionale, e infine quella più propriamente intimistica e umana, del vecchio che tira le somme alla fine della vita. E comunque è impossibile dimenticare Sheldon Horowitz.

     

mercoledì 18 febbraio 2015

Capodanno cinese 19 febbraio 2015

                                                      Un giorno. Un paese
                                                    Capodanno cinese. 




Ho scelto il libro "La Cina sono io" di Xiaolu Guo per festeggiare il giorno del capodanno cinese.



Xiaolu Guo, “La Cina sono io” ed. 2014

                                                             Voci da mondi diversi. Cina
                                                             FRESCO DI LETTURA


 Xiaolu Guo, “La Cina sono io”
Ed. Metropoli d’Asia, trad. Gaia Amaducci, pagg. 388, Euro 15,00, ebook Euro 7,99
Titolo originale: I am China

     Jian era ossessionato dall’idea di tentare di capire il potere. E’ cresciuto ricevendo pochissimo amore ma circondato da una rigida ideologia, di cui era prigioniero. Gli uomini spesso si perdono in queste cose. Venivamo da ambienti diversi, e probabilmente lei ha scoperto anche questo. Se dobbiamo sempre impegnarci nella lotta ideologica come Jian, per cercare di ottenere il potere politico, che spazio resta per la vita? Alla fine ci uccide.

Kublai Jian: un musicista punk espulso dalla Cina per attività antirivoluzionarie. Questo è il suo nome d’arte. Solo alla fine del romanzo sapremo la sua vera identità.
Deng Mu: la sua ragazza, poetessa, studiosa delle letterature occidentali.
Iona Kirkpatrick: traduttrice dal cinese.
Sono questi i tre personaggi principali del libro “La Cina sono io” di Xiaolu Guo, scrittrice e regista cinese che vive dal 2002 in Inghilterra e che ha scelto l’inglese per scrivere. Tutto il romanzo ruota intorno a questa dichiarazione, “la Cina sono io”, e intorno al Manifesto che è la causa dell’esilio di Jian. “La Cina sono io. La Cina siamo noi. Il popolo. Non lo Stato”- era la conclusione orgogliosamente sbandierata nel Manifesto che Jian aveva distribuito a piene mani al termine del suo ultimo concerto. Al termine della sua vita in Cina.
    Il libro incomincia con una lettera di Jian a Mu, la prima di molte che noi leggeremo insieme alla traduttrice Iona. Fanno parte di un incartamento che è stato fatto pervenire all’editore inglese Barker: lui non ha la minima idea di che cosa si tratti ma, chissà, se ne può tirar fuori qualcosa, la Cina, la censura in Cina, la politica in Cina, sono argomenti ‘forti’, che attirano il pubblico. Il punto di vista di Iona- una sorta di esule anche lei, fuggita dall’isola scozzese su cui vivono ancora i genitori- è del tutto diverso. Iona si appresta a leggere con curiosità, poi si lascia assorbire, resta irretita dalle vite che non sono le sue, dai due innamorati separati da forze più grandi di loro. Si pone domande, non capisce, fa ricerche su Google, chiede aiuto al professore con cui ha studiato all’Università, è stuzzicata, a volte fino all’esasperazione, dalla barriera linguistica, dalla molteplicità di significati che una frase può avere. E’ la lingua che, per prima, ci mette davanti all’evidenza di un mondo del tutto diverso dal nostro.

    Iona Kirkpatrick ‘interpreta’ per noi la storia di Jian. E quella di Mu. Il fascino del romanzo di Xiaolu Gu è nella varietà dei testi, nelle storie diverse raccontate da personaggi diversi con esperienze diverse. Le lettere di Jian a Mu e quelle di Mu a lui- come messaggi affidati ad una bottiglia nel mare della vita, e poi il diario di Jian e il diario di Mu, nonché una narrativa in terza persona che ci racconta l’arrivo di Jian in Inghilterra e la sua difficoltà ad ambientarsi, l’ingenua lettera alla regina perché intervenga in suo favore, il campo profughi in Svizzera e il passaggio in Francia. Neppure Mu resta in Cina: riceve la proposta di una tournée negli Stati Uniti in cui si esibisce come poetessa punk. Sempre pensando a Jian, il suo amore perduto, sempre sperando che in una qualche miracolosa maniera le loro lettere possano intrecciarsi. E poi, in quel malloppo di carte senza ordine che Iona deve tradurre, ci sono anche stralci di vita del passato dell’uno e dell’altra, del nonno di Jian, eroe della Lunga Marcia, e del suo misterioso padre, dell’infanzia di Mu e della sua famiglia nel Sud della Cina, della madre di Jian arrestata per un rossetto ed un cd di Erik Satie trovati nel suo cassetto, della vita di Jian e Mu come coppia. E degli avvenimenti di Piazza Tienanmen nel 1989, naturalmente, il massacro di studenti che ha spazzato le speranze di un cambiamento significativo. Non per nulla, in questo romanzo ricco di richiami all’Occidente, il libro ‘Bibbia’ di Jian è “Vita e destino” di Vassilj Grossman, la gigantesca epopea della sopravvivenza umana in un regime totalitarista.

     “La Cina sono io” è una storia della Cina di oggi e di ieri, una storia di passioni e di ideali, un confronto velato tra Oriente e Occidente. C’è molto da criticare nell’Oriente, ma anche nell’Occidente- così come lo vediamo attraverso gli occhi di Mu.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


      


Xiaolu Guo, "la Cina sono io", Erik Satie - Gnossienne No.4



                                                       musica per un libro
                                                 Voci da mondi diversi. Asia

Un cd di Erik Satie è stata la causa dell'arresto della madre di Jian, in Cina. Ascoltiamolo.

martedì 17 febbraio 2015

Vasilij Grossman, “Vita e destino”

                                                              Voci da mondi diversi. Russia
                                                              il libro ritrovato


Vasilij Grossman, “Vita e destino”
Ed. Adelphi, trad. Claudia Zonghetti, pagg. 827, Euro 34,00


Erano giornate straordinarie!
Krymov aveva l’impressione che la storia non fosse più un libro, ma che fosse confluita nella vita vera, confondendosi con essa.

   Ci sono dei libri che sono di più che dei semplici romanzi. Sono dei libri-mondo, perché racchiudono tutto il mondo dentro di sé e, a lettura terminata, lasciano una sensazione di completezza, come se niente altro potesse venire aggiunto a quanto essi contengono. I libri-mondo sono quelli che sceglieremmo se dovessimo essere confinati su un’isola deserta, perché siamo certi di poterli rileggere senza fine, godendone ogni volta, anzi di più, perché scopriremmo nuovi significati ad ogni nuova lettura.
    “Vita e destino” del russo Vasilij Grossman è un libro-mondo che non ha bisogno di aggettivi per qualificarsi. Ma lo diciamo ugualmente: è straordinario. Un libro-mondo ad iniziare dal titolo, che fa pensare a quello tolstojano di “Guerra e pace”, ma è più complesso. Il titolo di Grossman non gioca su due opposti, piuttosto suscita la riflessione su quale sia il legame tra la vita e il destino, e la risposta verrà solo alla fine, nel caso non l’avessimo appresa dalle 800 pagine precedenti. Perché “in epoche tremende l’uomo non è più artefice del proprio destino”, anzi, “è il destino del mondo ad arrogarsi il diritto di condannare o concedere la grazia, di portare gli allori o di ridurre in miseria…”. Che cosa può fare allora l’uomo, nelle grinfie della Storia, succube della collera dello Stato? Soltanto cercare di difendere, a tutti i costi, il suo diritto di chiamarsi uomo.
E’ questa la preoccupazione costante dei protagonisti di “Vita e destino” e a noi lettori italiani, nella cui memoria è indelebile il “Se questo è un uomo” di Primo Levi, pare di guardare la scena dal lato opposto di una lente. Oppure dall’alto di una scala da cui non si è ancora precipitati. Così Sof’ja Osipovna si avvia verso la camera a gas stringendo la manina di un bambino non suo; così il prigioniero russo Chnel’kov avverte di essere più colpevole dell’uomo con cui lavora a smistare cadaveri- perché questi è scagionato dall’essere nato mostro, mentre lui, Chnel’kov, è nato uomo e non mostro; così lo scienziato Viktor Pavlovič Strum, dopo aver firmato una lettera di falsa accusa contro due medici, prova schifo verso se stesso e promette di lottare, per ogni giorno e ogni ora e ogni anno a venire, “per conquistarsi il diritto di essere uomo”.

    E’ difficile cogliere il punto da cui iniziare a parlare di un libro-mondo, ma, dopotutto, il mondo è sferico e di ardua presa. Qui il nodo centrale è dato dall’assedio di Stalingrado che durò dall’autunno 1942 al 2 febbraio 1943: momento cruciale della guerra che, terminando con l’inattesa sconfitta della VI armata tedesca, segnò l’inversione delle sorti e diede il via all’Armata Rossa verso Berlino. Come l’insediarsi di Napoleone a Mosca era stato tutt’altro che una vittoria, ma il presupposto per la ritirata. E, proprio come Tolstoj aveva dipinto un enorme affresco della guerra contro i francesi, con due grandi famiglie- i Rostov e i Bolkonskj- in primo piano, Vasilij Grossman ritrae la lotta dei russi contro i tedeschi (l’umiliazione delle sconfitte dapprima, la tenace resistenza poi e infine la vittoria russa e la cattura del generale Paulus come prigioniero), seguendo nel contempo le vicende della famiglia Šapošnikov- c’è chi è sfollato a Kazan (Ljudmila Šapošnikov con la madre, la figlia e Viktor Strum, suo secondo marito) per poi tornare a Mosca, chi combatte a Stalingrado (Krymov, il primo marito di Ženja, sorella di Ljudmila), chi viene deportato dal ghetto (“Vivi, vivi per sempre…”, sono le ultime parole dell’ultima lettera della madre al figlio Viktor, personaggio che è riflesso dell’autore stesso), chi è in un lager stalinista ( “Invidio chi sta nei lager tedeschi”- dice il primo marito di Ljudmila- “Che bellezza! Sapere che a picchiarti è un nazista. A noi, invece, è toccata una sorte tremenda: siamo prigionieri dei nostri stessi compagni”), chi muore (il giovane figlio di Ljudmila) e chi nasce (sì, si viene al mondo anche sotto le bombe, anche su una chiatta, come succede al bimbo di Vera, nipote di Ljudmila).

    In un libro-mondo c’è tutto, tutti i sentimenti- dai più abietti ai più generosi-, tutti i legami- di amicizia e di amore, tutte le ambizioni e tutte le paure. In un libro-mondo che è la storia d’Europa negli anni centrali del XX secolo c’è anche lo scontro tra i blocchi delle due maggiori ideologie e la constatazione sconfortante che le somiglianze tra nazismo e comunismo sono di più delle loro differenze, perché qualunque dittatura si regge su una sorta di ipnosi con cui ottiene l’obbedienza, su una nuova maniera di plagiare gli esseri umani riducendoli ad una condizione di remissività totale, ad una sorta di paralisi estrema dei cuori. I campi di concentramento hitleriani si equivalgono a quelli di Stalin (cambia, forse, un’incredibile ingenuità che non vuole abbandonare un mito: “Ma fammi capire: Stalin le sa, queste cose?”), la punizione per il dissenso è uguale ed uguale è pure la visione megalomane del futuro in entrambe le dittature. “E’ come se ci guardassimo allo specchio”, dice il nazista Liss al bolscevico prigioniero. “”E’ la tragedia della nostra epoca: odiando noi odiate voi stessi.”
     Terminare di parlare di un libro-mondo è altrettanto difficile quanto incominciare a parlarne. Perché non si finirebbe più- sono talmente tante le cose da dire e speriamo di non aver tralasciato quelle essenziali, che invitano ad aprire il libro. Lasciamo al lettore scoprire le altre, addentrandosi nella mente dei personaggi e imparando a conoscerli dopo il problema iniziale (non mentiamo, è un piccolo problema) di districarsi tra nomi composti da un primo nome, un secondo nome che è il patronimico, il cognome e, spesso, il diminutivo del nome.
Ancora un cenno alla storia di “Vita e destino”, avventurosa quanto le vicende che contiene. Il primissimo titolo della prima stesura sarebbe dovuto essere “Stalingrado”, sostituito con “Per una giusta causa”, più palatabile per la censura, e il libro uscì in fascicoli nel 1952. Dopo la morte di Stalin nel 1953, Grossman rimise mano al romanzo, in pratica lo riscrisse, dandogli il titolo che conosciamo. E però la rivista a cui lo inviò per pubblicazione lo consegnò immediatamente al Kgb che non solo sequestrò il romanzo, ma addirittura requisì la macchina da scrivere di Grossman: di certo lo scrittore sarebbe finito in Siberia se Stalin fosse stato ancora vivo. Comunque Grossman cercò di protestare- il capo della sezione ideologica del partito, dopo averlo convocato, gli disse che il suo romanzo probabilmente non avrebbe visto la luce prima di due o trecento anni. La fortuna di noi lettori sta nel fatto che Vasilij Grossman (morto nel 1964, a 59 anni) aveva consegnato tre copie del romanzo a tre amici: le copie rimasero nascoste per quasi vent’anni in luoghi impensabili, finché una di queste riuscì ad essere fatta pervenire in Europa, sotto forma di microfilmato. Sembra che lo scrittore avesse chiesto espressamente che la prima pubblicazione fosse in russo, e il libro fu pubblicato in russo, da parte di un editore serbo a Losanna, nel 1980. Seguì poi un’edizione in francese e una italiana, pubblicata da Jaca Book e tradotta dal francese: l’attuale edizione di Adelphi è la prima tradotta dall’originale russo.
     E vogliamo lasciare il lettore con una delle tante immagini molto belle che costellano il libro, pur nell’asciuttezza dello stile. Perché ci richiama alla mente una pagina joyciana e assume un valore metaforico, con la candida neve a coprire le brutture del mondo: La neve si posava sulle spalle di Bach ed era come se il silenzio scendesse a fiocchi sul Volga ammutolito, sulla città morta, sulle carcasse dei cavalli; nevicava ovunque, non solo sulla terra, ma anche sulle stelle, l’universo era pieno di neve. E sotto la neve tutto spariva: i cadaveri dei caduti, le armi, i vestiti putridi, i sassi, il ferro ritorto.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it





lunedì 16 febbraio 2015

Blaine Harden, “Fuga dal campo 14”

                                                                   Voci da mondi diversi. Asia
                                                               testimonianze
                                                                  FRESCO DI LETTURA 

Blaine Harden, “Fuga dal campo 14”
Ed. Codice, trad. I.Oddenino, pagg. 290, Euro 14,37, ebook Euro 4,99

    Shin Dong-hyuk ha iniziato a vivere a ventitre anni. Perché si può considerare vita quella vissuta interamente in un campo di prigionia, senza neppure sapere che esiste un mondo al di là delle recinzioni elettrificate? Forse sì, a livello animale. No di certo a quello umano, se un essere umano si differenzia dalle bestie per la capacità di pensare, di agire valutando le conseguenze delle azioni e di avere una coscienza. Shin era nato nel campo 14, uno dei peggiori campi di prigionia della Corea del Nord, figlio di due prigionieri politici a cui veniva permesso di dormire insieme un paio di notti all’anno, come ricompensa per il lavoro ben svolto. Non aveva mai avuto altri orizzonti che quelli del campo. La fame cronica, il freddo, l’essere ricoperto di stracci, la mancanza totale di igiene, le percosse, le torture, le sparizioni, le esecuzioni pubbliche: tutto rientrava nella norma per lui che non conosceva altro. Leggendo la storia di Shin come la racconta per lui il giornalista Blaine Harden, ho pensato al noto caso di Kaspar Hauser, il ragazzo che apparve in una piazza di Norimberga all’età di sedici anni- biascicava qualche parola che forse era il suo nome, tollerava mangiare solo pane e acqua; dopo mesi di terapia, quando imparò a parlare, rivelò di essere rimasto rinchiuso in una cella per dodici anni, al buio e incatenato al pavimento. Kaspar, tuttavia, aveva un solo carceriere che gli portava da mangiare e lo picchiava se faceva qualche rumore. Nel campo 14 c’erano le guardie e poi tutta una gerarchia di sorveglianti aguzzini che stroncavano qualunque minimo tentativo di insubordinazione, di furto, di amicizia, o anche solo di lavorare di meno.

      La vicenda di Shin è agghiacciante. Quello che dà la misura della sua esperienza sconvolgente è l’episodio centrale della sua vita, quello che, dopo essere fuggito dal campo nel 2005, raccontò prima in una versione ‘edulcorata’ e poi nella nuda e crudele verità: aveva tredici anni quando, avendo sentito che la madre e il fratello maggiore stavano programmando la fuga, li denunciò. Tutti i sistemi dittatoriali hanno incoraggiato la delazione- quando si striscia quotidianamente nella melma, la speranza di un solo chicco di granturco come premio vale la vita di chi ci ha messo al mondo. L’abbrutimento sistematico dell’individuo è la colpa più grave dei campi di prigionia, siano nazisti o comunisti. Considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no. Primo Levi parla anche di Shin Dong-hyuk. Ci vorrà del tempo, molto tempo, prima che Shin, arrivato in America, provi il peso tremendo della colpa. Non si può parlare di colpa in un luogo in cui i sentimenti non esistono, dove esiste solo la forza bruta. Shin era stato torturato, dopo l’arresto della madre e del fratello. Le braccia di Shin sono tuttora distorte per le torture subite, la sua schiena ha le cicatrici delle ustioni. E comunque non era stato l’esempio della madre e del fratello a spingerlo a fuggire. O l’immagine della loro esecuzione a trattenerlo dal farlo. Se non ci aveva mai provato, era stato per l’assenza totale dell’immaginazione che si potesse fuggire. Finché un nuovo prigioniero, una persona colta che aveva studiato e viaggiato fuori della Corea del Nord, riuscì a risvegliare il suo interesse, a fargli barluginare la possibilità di una vita diversa.


      Blaine Harden si fa interprete di una storia tragica, ma non ci parla soltanto dell’esperienza di Shin. Traccia anche la Storia della Corea, ascolta opinioni sull’auspicabilità di una riunione delle due Coree (nessuno la desidera, nella Corea del Sud, la frattura è troppo grande), riferisce lo spaesamento e l’incapacità dei nord coreani che hanno trovato rifugio al Sud dopo mille peripezie ad ambientarsi tra gente ormai troppo diversa da loro (perfino la lingua è diversa), sottolinea infine il problema morale davanti a cui il mondo (siamo tutti noi) si trova: le immagini dai satelliti sono chiare, i campi di prigionia sono ben in vista, perché non si fa nulla, dunque? Perché si assiste allo spettacolo del mostro che divora il suo popolo?