venerdì 31 dicembre 2021

i dieci bellissimi del 2021

 


      Dopo aver stilato l’elenco dei dieci bellissimi del 2021, ho osservato due cose: che ci sono sette romanzi scritti da donne e che la casa editrice Einaudi vi appare con tre titoli. Non offro interpretazioni per queste particolarità, potrebbero essere molto banali. Quest’anno non sono stati molti i libri in esubero e la scelta è stata nello stesso tempo facile e difficile. Ripeto come ogni anno che questa è una scelta dettata dal mio gusto personale ed è difficile dire quali corde un romanzo abbia toccato in me per farmelo giudicare ‘bellissimo’ e indimenticabile- può essere stato per via di un personaggio, di un’ambientazione, di un periodo storico. E va da sé che ogni lettore legge in maniera diversa e giudica in maniera diversa. 

Sottolineo infine che l’elenco che segue è redatto in ordine alfabetico e che i libri sono stati scelti tra i 158 da me letti durante l’anno (penso sia necessario dirlo, perché non si pensi che ne ho scelti dieci su venti o trenta).

 

 

Stefania Auci, “L’inverno dei leoni”, ed. Nord

Laura Imai Messina, “Le vite nascoste dei colori”, ed. Einaudi

Nguyễn Phan Quế, “Quando le montagne cantano”, ed. Nord

Maaza Mengiste, “Il re ombra”, ed. Einaudi

Maggie O’Farrell, “Nel nome del figlio”, ed. Guanda

Ann Patchett, “La casa olandese”, ed. Ponte alle Grazie

Norbert Scheuer, “Le api d’inverno”, ed. Neri Pozza

Han Shaogong, “Il dizionario di Maqiao”, ed. Einaudi

Ivana Sojat, “Segreti di famiglia”, ed. Voland

Pitchaya Sudbanthad, “Sotto la pioggia”, ed. Fazi


giovedì 30 dicembre 2021

Ivana Sojat, “Segreti di famiglia” ed. 2021

                                                             Voci da mondi diversi. Croazia

            saga
   la Storia nel romanzo

Ivana Sojat, “Segreti di famiglia”

Ed. Voland, trad. V. Marconi, pagg. 400, euro 20,00

 

    Un viaggio in treno da Zagabria a Osijek, dalla capitale alla seconda città più importante della Croazia. Fine anni ‘90. Erano diciotto anni che Katarina non ritornava a Osijek. L’hanno avvisata che sua madre sta per morire. Quando Katarina arriva, sua madre è già morta. Meglio così, forse, piuttosto che una riconciliazione frettolosa suggerita dalla pietà. Il ritorno nella vecchia casa e l’incontro con Jozefina, la più cara amica di sua nonna, sono lo spunto per riguardare il passato, per lasciarsi sommergere dall’onda dei ricordi, per ascoltare le storie della sua famiglia di cui Katarina non sapeva nulla, per ricostruire, insieme alle storie private, anche la Storia della Croazia che un tempo faceva parte dell’impero austro-ungarico.

    Quanti segreti, quanta sofferenza, quanta felicità risicata in questa famiglia di quattro generazioni di donne- la bisnonna Viktorija, la nonna Klara, la madre Marija e infine lei, Katarina che finisce per non sapere più chi è, quale sia il suo vero cognome. La vita è fatta di amore e di morte, di pace e di guerra, di fortune alterne che vanno dalla ricchezza alla povertà. Viktorija si era innamorata del bel Rudolf che, dopo gli anni della guerra del ‘14-‘18, era tornato un altro uomo, si era messo a bere per allontanare gli spettri che infestavano la sua memoria. Adesso si curerebbe come un caso di shock post-bellico, allora…si perdeva la pazienza con un uomo che si rivelava debole. Dall’amore Viktorija era passata al disprezzo, e per fortuna c’erano i figli, per fortuna c’erano i suoi genitori che erano ricchi.

Osijek

    Basta guerre- almeno così sperava Viktorija. E invece no. E la seconda guerra mondiale avrebbe avuto in serbo altre calamità famigliari, oltre agli eccidi di cui si sentiva parlare, oltre all’amica ebrea che era stata fatta salire su un camion e non se ne era più saputo nulla. Succede in tutte le famiglie ed era successo anche nella loro- il primogenito Adolf e la seconda nata, la bella Greta, il monellaccio di famiglia che calcava il palcoscenico, erano diventati nemici, l’uno nazista e l’altra nelle fila dei partigiani. Eppure, nel 1945, quando tutta la famiglia, per via di quel cognome tedesco che poi avrebbero cambiato, era stata portata in un campo di concentramento partigiano (era lì che erano morte le bambine di Klara e di Jozefina), se ne erano venuti fuori, macilenti e divorati dai pidocchi, era stato grazie all’intervento di Greta. Ne erano usciti, ma avevano trovato le loro case occupate spavaldamente da altri, amici dei ‘rossi’.

   


C’è ancora tanto altro che Katarina apprende, ci sono vecchie fotografie sbiadite con persone che lei non riconosce- non tutte almeno. Bambini che sono morti troppo presto di cui resta solo una ciocca di capelli conservata come un tesoro, che non sono mai scomparsi del tutto nell’aldilà ma riappaiono, passando attraverso le pareti, accanto alle loro mamme che parlano con loro. Come fa nonna Klara, forse il più bel personaggio di questo splendido romanzo. Perché Klara, troppo piccola per ricordarsi del padre ubriacone, si è sposata per amore ed è una figura luminosa che irraggia amore, verso il marito, i figli, la nipote Katarina, l’amica Jozefina.

     Se è vero che leggiamo per vivere altre vite oltre alla nostra, per immergerci in altre storie diverse dalla nostra, per conoscere la Storia di paesi di cui non sapevamo nulla, un romanzo come “Segreti di famiglia” è perfetto. Leggerlo è come vedere una porta spalancarsi davanti a noi e inoltrarci in una realtà che all’inizio facciamo fatica a capire e poi ci stupiamo di averla potuta ignorare. E intanto la capacità affabulatoria di Ivana Sojat ci ha tenuto legati fino all’ultima pagina, quando ogni segreto è venuto alla luce, quando gli spettri del passato hanno finalmente trovato la pace e Katarina è tornata a Zagabria.


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sabato 25 dicembre 2021

Natale 2021





  Abbiamo proprio bisogno di auguri in questo secondo Natale di pandemia che sembra quasi peggiore del primo.

Auguri dunque, per un sereno Natale e per un 2022 in buona salute e, magari, liberi dal virus.

giovedì 23 dicembre 2021

Aravind Adiga, “Amnistia” ed. 2021

                                                          Voci da mondi diversi. India



Aravind Adiga, “Amnistia”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Norman Gobetti, pagg. 320, Euro 19,00

 

    A Sydney, in Australia, è diventato Danny. Prima, a casa nello Sri Lanka, si chiamava  Dhananjaya Rajaratnam. A Sydney si è fatto delle mèches bionde nei capelli. A Sydney controlla il suo accento, cercando di imitare la pronuncia degli australiani. A Sydney assolutamente non ascolta la musica tamil. Il suo scopo: diventare australiano. Il maggiore ostacolo: Danny è un immigrato irregolare, se viene beccato sarà espulso.

   Danny aveva scelto una maniera legale per arrivare a Sydney, spendendo tutti i risparmi accumulati lavorando a Dubai, più quelli del padre- si era iscritto ad un corso universitario e aveva fatto domanda per essere accolto come rifugiato politico. La domanda era stata respinta. Danny aveva iniziato a lavorare come uomo delle pulizie (a metà paga di un lavoratore normale), vivendo nel ripostiglio di un negoziante greco a cui doveva consegnare una parte dei suoi guadagni.


   Il momento di crisi in questa vita sul filo del rasoio, con la paura costante di essere fermato dalla polizia oppure di ammalarsi e non poter esibire nessuna tessera sanitaria, è quando viene ritrovato il cadavere di una donna che Danny conosceva  perché andava regolarmente a pulire la sua casa. La polizia sospetta del marito, ma Danny è stato testimone di troppi incontri della donna con il suo amante (un indiano giocatore compulsivo che viveva in un appartamento di proprietà del marito della donna senza pagare un soldo) per non avere la quasi certezza che sia lui il colpevole. Il dilemma a questo punto è questo: denunciarlo o no alla polizia? Se lo denuncia, Danny pronuncia anche la sua propria condanna, perché sarà espulso.

   Il tempo dell’azione del romanzo è un giorno, scandito dalle ore e seguendo i passi di Danny per la città, sull’onda dei ricordi della vita passata (l’esperienza negativa di Dubai, seguita da quella ancora peggiore del suo ritorno in Sri Lanka dove era stato torturato dalla polizia per uno scambio di persona) e di quella più recente in Australia dove aveva conosciuto (tramite un sito di incontri per vegani) una ragazza vietnamita. Il vecchio telefono che Danny ha in mano, con la batteria tenuta insieme dal nastro adesivo (non può comprare un i-phone non potendo fornire dati), diventa strumento delle sue paure. In seguito ad una telefonata avventata di Danny, l’amante della donna inizia a perseguitarlo con chiamate cercando di allettarlo ad andare a pulire il suo appartamento. Sono chiamate sempre più minacciose e ricattatorie- Danny conosce il numero da fare per le denunce anonime, ma lui, l’amante, conosce quello per segnalare gli irregolari. Vuole sapere che fine fanno quelli come lui, Danny, quando vengono arrestati per essere rispediti a casa? Molti preferiscono suicidarsi…D’altra parte Danny prova più di una volta, o con il suo telefono o con un telefono pubblico, a chiamare la polizia, per mettere giù la cornetta e non dire niente.


    L’attrattiva del romanzo è duplice- nella denuncia, fatta in maniera sempre ironica e quasi giocosa, della discriminazione degli immigrati (dei musulmani si ha paura, ecco perché hanno un trattamento migliore) e delle condizioni di vita lavorando ‘in nero’ (si sa benissimo, però, che la ricchezza dei bianchi australiani si regge su questi lavoratori sfruttati in modo ignobile) e nel quesito etico che va oltre alle circostanze in cui si trova Danny: fino a che punto siamo disposti a mettere a rischio il nostro benessere in nome dell’onestà e dell’integrità?

    Tuttavia il romanzo di Aravind Adiga non convince, e dobbiamo confessare di esserne rimasti delusi, nonostante le forti tematiche, dopo aver molto amato “La tigre bianca” con cui Adiga aveva vinto il Booker Prize 2008 e “L’ultimo uomo nella torre” del 2013. L’inizio è buono, simpatizziamo con il personaggio, ma la narrazione è spesso ripetitiva (purtroppo) e non sembra mai prendere il volo.



martedì 21 dicembre 2021

Lisa Jewell, “Ellie, all’improvviso”

                    Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

cento sfumature di giallo
il libro dimenticato

Lisa Jewell, “Ellie, all’improvviso”

Ed. Neri Pozza, trad. A. Biavasco e V. Guani, pagg. 268, Euro 12,50

 

     Era il 2005 quando Ellie era uscita di casa per andare in biblioteca e non era più tornata. Scomparsa. Si era detto che probabilmente era scappata di casa. Probabilmente? Niente affatto. Impossibile. Era la beniamina della famiglia, era brava a scuola, si stava preparando per gli esami dopo che aveva migliorato anche in matematica grazie alle lezione private dell’irlandese Noelle che la considerava la sua alunna migliore, era innamorata e lei e il suo ragazzo avevano avuto il permesso di passare del tempo da soli durante l’estate: perché mai sarebbe dovuta scappare? In jeans, scarpe di tela e con lo zainetto sulle spalle?

    Non ci si rende conto di essere felici quando si è felici, quando la felicità è la vita di ogni giorno con le incombenze quotidiane, le piccole arrabbiature, i sorrisi, la stanchezza, i pranzi preparati per un paio di ore e divorati in un minuto, i silenzi, le parole dolci. Dieci anni prima Laurel era felice e non lo sapeva. Aveva tre figli e un marito che amava. Adesso è sola, con il ricordo di Ellie, con il pensiero costante di che cosa possa esserle successo. È lei ad essersi isolata, ad aver smesso di prendersi cura degli altri, che si sono allontanati. I figli sono andati a vivere per conto loro, il marito ha trovato una nuova compagna.


    Poi, un giorno, in uno dei soliti caffè che Laurel frequenta, un attraente sconosciuto si siede al tavolo accanto al suo. Assomiglia a suo marito, si veste anche in maniera simile. Lui le offre un pezzo della sua torta di carote. Iniziano a parlare. Dopo tanto tempo Laurel si sente di nuovo viva. Gli telefonerà, usciranno insieme. Lo sconosciuto è separato dalla moglie e ha due figlie avute da due donne diverse. Solo la più piccola, di nove anni, vive con lui. Quando Laurel la incontra, resta fulminata: la somiglianza della bambina con Ellie è stupefacente. Deve essere una coincidenza, no? Eppure, per tutto il tempo in cui Laurel e Floyd si frequentano, Laurel non riesce a lasciarsi andare del tutto. Ha controllato su internet e quello che lui le ha detto, di essere un matematico e anche di una certa fama, è vero. Che cosa non la convince, allora? Perché, dopo essersi infuriata dopo che la compagna di suo figlio le ha detto di avvertire ‘un’aria scura’ intorno a Floyd  e di diffidarne, si sente turbata e timorosa?


    “Ellie all’improvviso” è un altro inquietante romanzo di Lisa Jewell. Una voce narrante in prima persona interviene a metà romanzo, ma, se pensiamo che questa sia una delle tante storie di ragazzine attirate in una trappola, ci sbagliamo. Lisa Jewell è maestra dei colpi di scena e ce ne sono parecchi nel libro. Ci sorprendono, ci stupiscono. Fino alla fine che è duplice ed è una sorta di giustizia, più o meno poetica.

    Un altro page-turner della scrittrice inglese- vi terrà di certo svegli.



domenica 19 dicembre 2021

Margaret Atwood, “Lesioni personali” ed. 2021

                                                      Voci da mondi diversi. Canada

Margaret Atwood, “Lesioni personali”

Ed. Ponte alle Grazie, trad. Guido Calza, pagg. 363, Euro 18,50

 

     Rennie, poco più che trentenne, è una giornalista di lifestyle- scrive articoli leggeri, di viaggi e di moda. Qualcosa di serio e di inaspettato viene a sconvolgere la sua vita. Deve subire un intervento di mastectomia per un tumore al seno. Come ci si abitua ad un corpo menomato, quando si è così giovani? Come cambia l’amore, il sesso, il rapporto con il proprio uomo? Presto detto. Jake si allontana da lei e lei, con una reazione tipica, quasi di transfer, pensa di essere innamorata del chirurgo gentile che l’ha operata. Il quale è sposato, sposatissimo, con tre bambini e uno in arrivo, e che sembra rispondere alle sue avances per consolarla, per aiutarla a riprendersi.

È così che Rennie prende la decisione di sollecitare un invio in qualche isola lontana, per scrivere uno dei suoi articoli. Lontana e sconosciuta- St. Antoine nei Caraibi.


     Il volo, con scalo a Barbados, è già di per sé un’avventura. Quando poi Rennie arriva nell’isola e si registra nell’albergo economico che il budget le concede, iniziano le sorprese. Camera squallida, pasti al limite dell’immangiabile, è guardata con diffidenza e perfino con ostilità dai locali. In questa atmosfera per niente consolatoria, Rennie fa la conoscenza con una donna, Lora, che le mostra simpatia e la introduce alle usanze del posto. È troppo fiduciosa, Rennie. Cresciuta in un ambiente provinciale e rigidamente moraleggiante e religioso, niente l’ha preparata alle basilari regole per la sopravvivenza. Con un’ingenuità che ci fa sussultare, accetta di ritirare un pacco all’aeroporto. Non è capace di rifiutare, si accontenta della spiegazione che Lora è già stata vista troppe volte a ritirare pacchi del genere che- a dire di Lora- contengono medicine per una persona anziana che altrimenti morirebbe. Si può dire di no? Si può, ma Rennie acconsente, stupendosi che la trafila non sia la solita, presentando uno scontrino, stupendosi ancora di più quando si accorge che il pacco è grosso e molto pesante. E adesso come farà a consegnarlo? Per il momento lo nasconde in camera, sotto il letto. E ancora si stupisce quando, dopo essersi assentata, trova la camera messa a soqquadro e il pacco aperto. Tastando all’interno, Rennie tocca qualcosa di metallico…

    Forse Rennie è ancora peggio di Candide, questo è solo l’inizio. Sull’isola tutti sanno, o credono di sapere tutto di lei. Nessuno crede che sia una giornalista, pensano faccia parte della CIA. Perché questo è un momento politico di incertezza sull’isola. E Rennie viene avvicinata da un uomo politico, uno dei tre che si contendono il governo e che lei aveva già incontrato sull’aereo, e da un affascinante e alquanto ambiguo americano.


    “Lesioni personali”, pubblicato per la prima volta nel 1981, con uno stile a tratti comico, a tratti satirico per diventare poi di una brutalità terrificante, con una protagonista che ha qualcosa di alcuni personaggi di Graham Greene al femminile, tratta della violenza, e a vari livelli. C’è la violenza di una educazione costrittiva e limitante e poi quella della malattia, c’è la violenza subdola dello sconosciuto che è entrato in casa di Rennie a Toronto, non ha rubato nulla ma ha lasciato una corda arrotolata sul suo letto, e dell’altro che è penetrato nella sua stanza di albergo, c’è infine la violenza sull’isola, che dapprima si esprime con una cupa atmosfera di sospetto e di presagi ed esplode poi, dopo le elezioni, in una sommossa e in una costellazione di delitti. 

   Chi ha amato i grandi romanzi di Margaret Atwood, da “La storia dell’ancella” che segnò un’epoca, a “L’assassino cieco”, “L’altra Grace”, fino al recente “I testamenti” (vincitore del Booker Prize 2019), non può non restare un poco deluso da “Lesioni personali”. Dopo un inizio in cui il lettore prova simpatia per la protagonista che affronta il trauma di un cambiamento difficile per qualunque donna, la trama si sfilaccia, diventa perfino poco credibile. E siamo sollevati, alla fine, riaccompagnando Rennie in Canada. La straordinaria esperienza, il confronto con situazioni altre dalla sua, la fanno riflettere che, nonostante tutto, lei “è fortunata. Trabocca di fortuna.”

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venerdì 17 dicembre 2021

Abdulrazak Gurnah, “Sulla riva del mare” ed. 2021

                                                   Voci da mondi diversi. Africa

    premio Nobel

Abdulrazak Gurnah, “Sulla riva del mare”

Ed. La Nave di Teseo, trad. A. Cristofori, pagg. 384, Euro 19,00

 

  Il sessantacinquenne Saleh Omar arriva all’aeroporto di Gatwick, a Londra, da Zanzibar. Non ha un visto d’ingresso, sul passaporto risulta con il nome di Rajab Shaaban Mahmud. Non parla inglese. Sa una sola parola, ‘asylum’- chiede asilo come rifugiato politico.

     Sono due le menzogne che lo riguardano. Il nome e la dichiarazione di non sapere l’inglese. Spiegherà in seguito come e perché abbia preso l’identità del suo nemico, sapremo invece presto che è stata la persona che gli ha procurato i documenti falsi a dirgli di fingere di non capire e di non saper parlare inglese.

     Le prime esperienze di Saleh Omar in Inghilterra non sono positive. Il funzionario che perlustra il suo misero bagaglio (per ironia della sorte un immigrato pure lui, dalla Romania) intasca la cosa a cui Omar teneva di più, una scatoletta con il poco oud (una sorta di incenso dall’aroma unico) che gli era rimasto. È l’essenza della sua terra che gli viene rubata, dopo che già ha perso il suo nome e la sua lingua e la sua cultura. Ed è la prova che la corruzione dilaga ovunque. Quando Omar viene accompagnato nella casa dove dovrà alloggiare, lo aspetta un’altra delusione. La signora che lo ospita è rozza e incurante, la casa è sporca, i servizi igienici nauseabondi. Non che Omar si aspettasse un albergo a cinque stelle, ma perfino il luogo dove era stato internato prima era meglio. Soltanto la giovane donna dei servizi sociali che si dà da fare per trovare un interprete (prima che lui le riveli di non averne bisogno) è amichevole, allegra, simpatizzante e sensibile.


    Il professore Latif Mahmud che era stato contattato perché facesse da interprete è l’altro protagonista, l’altro narratore di questa storia di due famiglie e di un paese ‘sulla riva del mare’. È curioso, Latif Mahmud, curioso di sapere chi sia ( e forse ne ha un’idea) l’uomo che ha usurpato il nome di suo padre. E, quando si incontrano, si riconoscono.

    A turno Latif e Omar raccontano ognuno la sua storia, quella di due famiglie che sono entrambe coinvolte in un imbroglio macchinato da un mercante seducente e fascinoso che era poi scomparso. Al suo seguito era scomparso anche il fratello maggiore di Latif. È una storia ingarbugliata che segue le stagioni del musim, il vento dei commerci, che inizia con grandi ricchezze, con un prestito garantito dal possedimento di una casa, con un passaggio di carte, per finire poi nella rovina della famiglia truffata, nell’umiliazione di un padre e marito che già deve sopportare i tradimenti della moglie.

     Il tema del tradimento è l’asse portante del romanzo. Un fratello che tradisce l’intera famiglia, una moglie che tradisce il marito, il tradimento di chi si pensava fosse un amico, tradimento delle aspettative famigliari da parte di Latif quando va a studiare nella DDR, e chissà chi ha tradito Omar facendolo finire in prigione per anni. E insieme a questo, strettamente connesso con questo, il tema dell'esilio e dell'estraniamento, dell'individuo che non sa più a che mondo appartiene.


     Trovano un’intesa i due immigrati dal Zanzibar sulla riva di un altro mare? Riusciranno a perdonarsi? Che vita aspetta Saleh Omar, considerando la sua età (il funzionario ladro, all’aeroporto, glielo aveva fatto notare), se la vita di Latif, che ha lasciato Zanzibar a diciassette anni, è quella di un perenne esilio? E allora i due mari, quello di partenza e quello di approdo, acquistano il valore di una metafora, simbolo di una provvisorietà dove non si possono mettere radici, di un luogo in cui non si può coltivare niente e in cui non cresce niente.

     Quando si legge un libro in traduzione, resta sempre qualche dubbio: la difficoltà che troviamo nel distinguere le due voci di “Sulla riva del mare”, si avvertirebbe di meno o forse non si avvertirebbe affatto se lo leggessimo in lingua originale?

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martedì 14 dicembre 2021

Lisa Jewell, "La famiglia del piano di sopra"- Intervista

                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

                                   cento sfumature di giallo



    Il Noir in Festival a Milano, un altro evento letterario per gli appassionati lettori. Incontro la scrittrice inglese Lisa Jewell al Teatro dei Filodrammatici, prima della presentazione del suo libro, un thriller psicologico dalla forte tensione. Lei indossa la mascherina, io pure- un tocco di mistero, diciamo così…

     La caratteristica dei suoi romanzi, la loro vera particolarità, è che non fanno paura ma sono inquietanti. Non ci sono delitti, o almeno, ce ne sono pochissimi e non ci sono scene di violenza fisica, non c’è indagine poliziesca, forse potremmo definirli thriller psicologici. Come è arrivata a scrivere questo genere di romanzo? Come è iniziato tutto?

  Quando ho incominciato a scrivere- era il 1996-, i primi romanzi che ho scritto erano commedie romantiche. Poi, con il passare degli anni, è cambiata la mia vita, io sono cambiata- non scrivevo di relazioni sentimentali ma di famiglie, di misteri di famiglia. Stavo scrivendo un libro che aveva per protagonista un uomo che si era sposato tre volte e aveva dei figli da mogli diverse, all’improvviso mi sono resa conto che avevo perso ogni interesse per le dinamiche famigliari e…ho ucciso qualcuno: non avevo mai ucciso nessuno dei miei personaggi prima di allora. Questa cosa mi ha aperto una porta verso temi più scuri, più disturbanti. Volevo che i lettori non sapessero di chi fidarsi, che i lettori non sapessero a che punto era l’azione. Io stessa non so molto dei personaggi prima di scrivere.

Nei suoi libri c’è una forte tensione. Come riesce a mantenere la suspense, fin dalla prima pagina?

   


Penso che, come scrittore, non sono molto lontana dall’esperienza del lettore su quello che so della storia che si sta svolgendo. Ho solo delle vaghe nozioni del luogo- in questo romanzo avevo bene in mente la grande casa sul Tamigi, la gente molto ricca che vi abitava e, insieme, l’anonimità dell’area. Sapevo quale era l’atmosfera che volevo creare. Non sapevo che cosa succedeva finché non me lo ha detto il mio personaggio Henry. Infatti non ho mai in mente l’intero libro e poi tengo per me le informazioni che ho, in modo che per il lettore arrivino come una scoperta. Ecco, magari io sarò un capitolo avanti al lettore nella conoscenza della storia.

Ne “La famiglia del piano di sopra” ci sono tre filoni, un narratore in prima persona in uno di questi filoni ed è una voce maschile. Come mai ha scelto Henry come narratore?

     Prima di tutto ho deciso che volevo scrivere della casa, di qualcosa di male che avveniva là dentro, di bambini che scappavano a piedi nudi via dalla casa, ma non sapevo da che cosa scappassero. Avevo bisogno di qualcuno che era stato là e mi dicesse che cosa era successo. Poteva essere chiunque, ma Henry si è fatto avanti. E poi cerco di mescolare i punti di vista- gli altri due filoni sono centrati su delle donne, volevo una voce diversa, maschile.

Da dove trae l’idea per incominciare? Voglio dire: c’è una specie di setta ne “La famiglia del piano di sopra”, una ragazza che scompare in “Ellie all’improvviso”: ha letto qualche notizia simile sui giornali? E’ dalla cronaca che trae delle idee?

     Mi interessava l’idea delle sette che affascinano le persone,


così che queste consegnano la loro autonomia a qualcuno che ha carisma ma nessuna qualità speciale. È straordinario come ci sia della gente che si lascia sottomettere da un altro essere umano. Ho sempre avuto un orecchio attento a queste storie- per il romanzo “Ellie all’improvviso” avevo in mente la notizia di una donna che era stata prigioniera per 30 anni a Londra e poi era riuscita a scappare ed Ellie, in effetti, in un primo momento veniva rapita da un uomo, poi ho cambiato tutta la trama. E, tornando alle sette, è stupefacente come la gente creda a chi gli dice che renderà la loro vita perfetta.

Inizia una storia nella sua mente con un fatto o con un personaggio?

    È diverso per ogni libro. L’idea de “La famiglia del piano di sopra” è nata a Nizza dove ero in vacanza con la famiglia nel 2017. Stavamo pranzando in un ristorante sulla spiaggia, era una spiaggia privata, e ho visto passare una donna, magrissima, con due bambini. Andava alle docce che erano riservate ai clienti della spiaggia e lei chiaramente non lo era. Sentivo che aveva una storia dietro di sé e avevo la sua immagine in mente, la vedevo bambina che scappava da Chelsea a piedi nudi. Quella donna sarebbe diventata Lucy nel mio romanzo e io dovevo scoprire chi era Lucy e perché era scappata.

Ogni libro è diverso. Può nascere da un luogo, da una persona, da un sentimento e però so quale è l’idea giusta quando mi viene in mente.


Ha già anticipato qualcosa della risposta a questa domanda che sto per farle, avevo pensato di chiederle se, quando inizia a scrivere, ha già in mente tutto il libro.

    No, se sono fortunata posso avere in mente i primi capitoli. Una volta la cosa mi angosciava, volevo programmare la vicenda in capitoli ben precisi. Adesso non mi spavento più. Trovo a mano a mano che vado avanti la storia che voglio scrivere.

Di quale dei personaggi de “La famiglia del piano di sopra” è stato più difficile scrivere?

    Libby. Non l’avevo pensata. C’era però questa grande casa che qualcuno doveva ereditare e cercare di scoprirne il segreto. E volevo scrivere di una ragazza del Millennio che doveva lavorare più duramente di quanto abbiamo fatto noi a suo tempo. Era un personaggio che mi serviva, una ragazza innocente e pura gettata in questa storia gotica. Una ragazza forse un poco noiosa ma che ha fatto cose interessanti.


Le famiglie e i loro problemi sono al centro dei due suoi romanzi che ho letto: le famiglie sono il soggetto migliore?

    Sì, scrivo di famiglie e di case: le famiglie vivono nelle case, ho sempre l’idea delle porte chiuse e chissà che cosa succede dietro queste porte chiuse. La vita vera è là, dietro le porte, fuori è teatro.

Le famiglie offrono uno spunto per dinamiche infinite- fratelli, gelosie tra fratelli, nipoti, genitori, coppie, famiglie disfunzionali. Tutto, tranne famiglie felici.

Il romanzo ha un finale che sembra essere in sospeso. Scriverà un seguito de “La famiglia del piano di sopra”?

    Sto proprio scrivendo il seguito de “La famiglia del piano di sopra”. Sarà “La famiglia che resta” e ci saranno parecchie storie- Henry che va in cerca di Phinn, Lucy che finalmente può comprarsi una casa e vivere tranquilla, ma un giorno si trova davanti Rachel, la vedova di Michael, e deve fuggire di nuovo, e un sacco con delle ossa (sono di Birdie) che viene ritrovato nel Tamigi. E ci sarà una grossa novità: introdurrò un detective, Samuel, per risolvere questo cold case. Però lascerò nel vago i dettagli più polizieschi.


Avevo detto all’inizio che una particolarità dei suoi romanzi è l’assenza della polizia: come mai?

   La polizia è sempre rimasta fuori dai miei romanzi perché sono pigra e non ho voglia, non mi interessa, di fare ricerche sulle procedure poliziesche. Sono dettagli importanti e se non si è precisi il romanzo è debole. Ma Samuel mi è simpatico, ha assunto un ruolo importante, non riesco a smettere di pensare a lui. E così finalmente ci sarà un detective.



lunedì 13 dicembre 2021

Lisa Jewell, “La famiglia del piano di sopra” ed. 2021

                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

    cento sfumature di giallo

Lisa Jewell, “La famiglia del piano di sopra”

Ed. Neri Pozza, trad. A. Biavasco e V. Guani, pagg. 334, Euro 18,00

 

    Metti un fine settimana di quelli uggiosi con pioggerella sottile e un poco di raffreddore. Metti non aver voglia di fare niente, tanto meno di mettersi a stirare. E prendi in mano il romanzo di Lisa Jewell, “La famiglia del piano di sopra”. E in un attimo è lunedì.

   Una voce narrante, quella di Henry Lamb, che, nella prima pagina, fa un riassunto enigmatico  della sua vita di un tempo, quando abitava al numero 16 di Cheyne Walk, l’elegante strada di Chelsea dove hanno dimorato un incredibile numero di persone famose, da uomini politici a poeti a persone del mondo dello spettacolo.

Quando arrivarono io avevo undici anni non ancora compiuti e mia sorella nove. (Chi arrivò?)

Vissero con noi per oltre cinque anni, trasformando la nostra vita in un incubo. (Perché un incubo? Che tipo di incubo?)

poi, quando io avevo sedici anni e mia sorella quattordici, arrivò la piccola. (E chi è la piccola?)

Oltre a Henry Lamb, altri due personaggi saranno al centro della scena, portando ognuno avanti la trama o ritornando indietro alle vicende del passato, colmandone i vuoti- Libby Jones e Lucy Smith. Non è il vero nome di nessuna delle due, lo sapremo in seguito.


    Libby sa il poco che c’è da sapere sulla sua primissima infanzia. È stata adottata dopo che la polizia ha trovato la scena di un triplice suicidio entrando nella casa di 16 Cheyne Walk. Tre corpi rivestiti con tuniche nere, sdraiati sul pavimento- una donna e due uomini. Sul tavolo una lettera in cui chiedevano di prendersi cura di Serenity, la bimba di dieci mesi nella culla al piano di sopra. Si trattava di Martina e Henry Lamb, una volta ricchissimi- ora la casa era del tutto spoglia, ma c’era chi ricordava le feste, i mobili e gli arredi. E Martina che vestiva ben altro che un saio nero. Non si sapeva chi fosse l’altro uomo che nella lettera era indicato con le iniziali D.T. Ci doveva essere stato qualcuno ad accudire alla bambina, che stava benissimo e aveva il pannolino pulito.

    Adesso che ha compiuto venticinque anni Libby riceve una comunicazione dallo studio di un avvocato. Ha ereditato la casa di Cheyne Walk, gli altri due eredi non si sono presentati.

     Lucy Smith vive a Nizza con i suoi due bambini ed è in una condizione di estrema indigenza. Suona il violino per le strade, chiedendo l’elemosina. Se ha i soldi, affitta una camera in un ostello. Quando non li ha, manda la bambina a dormire dalla nonna e lei e il maschietto dormono sotto un ponte. Sul suo cellulare appare un pro-memoria: la piccola ha compiuto venticinque anni. Lucy deve tornare in Inghilterra.

    La meta di tutti e tre è Cheyne Walk, dove tutto è iniziato, ma, prima che si incontrino, noi avremo appreso tutta la storia da Henry (è affidabile come io narrante?). E’ una storia forse non molto originale, che echeggia di notizie che abbiamo letto sui giornali e che parla di sfruttatori, di manipolatori, di persone non del tutto felici che si lasciano abbindolare da chi le illude con un potere carismatico, che cadono nelle sue grinfie e restano invischiati in una ragnatela da cui diventa impossibile districarsi, sempre più ciechi, sempre più succubi, sempre più plagiati.


    Lisa Jewell è veramente molto abile nel tenerci avvinti alle pagine del romanzo. Perché la narrazione, spostandosi da un filone all’altro, è molto vivace e ricca di colpi di scena- non ci siamo ancora ripresi da quanto abbiamo letto che sta succedendo a Cheyne Walk alla fine degli anni ‘80 e primi anni ‘90, e già sussultiamo per quello che deve affrontare Lucy a Nizza e per le sorprese in serbo per Libby alla scoperta della casa al 16 di Cheyne Walk. e anche quando tutto sembra essere chiaro…oplà, un’altra giravolta.

    Siamo d’accordo, non è alta letteratura, ma un page-turner, un thriller psicologico intrigante e piacevole.  

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Seguirà intervista con la scrittrice, invitata a Milano per il Noir in Festival




sabato 11 dicembre 2021

Edith Wharton, “Le sorelle Bunner” ed. 2021

                                  Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

                                                       un classico

               love story

Edith Wharton, “Le sorelle Bunner”

Ed. Elliot, trad. C. Fioravanti, pagg. 128, Euro 14,50

 

   New York. Inizio del secolo scorso. Un negozietto stretto fra una mensa e un albergo di bassa categoria. La vetrina espone cappellini e merletti- le due sorelle proprietarie del negozio fanno le modiste ed eseguono piccoli lavori di cucito. Sul retro c’è l’unica stanza che serve da abitazione, sempre in un ordine perfetto- riflette l’arte di essere poveri.

   Ann Elizabeth è la più grande, Eveline la minore. Nessuna delle due è bella, Eveline ha ancora un poco della grazia della giovinezza. Indossano abiti neri dal tessuto un po’ lucido per l’uso, fuori moda. Quando Eveline vorrà agghindarsi, appunterà un fiocco rosso sotto il colletto. Quando Ann Elizabeth vorrà dare un tocco speciale al vestito, tirerà fuori una spilla di mosaico.

C’è stato un tempo in cui qualche giovanotto ha fatto visita alle sorelle, ora, però, entrambe hanno abbandonato ogni speranza di mettere una fine alla solitudine.

    Poi…un orologio fa da galeotto. Ann Elizabeth lo ha acquistato nel negozio di un immigrato tedesco, Hermann Ramy, per regalarlo a Eveline nel giorno del suo compleanno. Ann Elizabeth aveva osservato che l’orologiaio sembrava essere ancora più solo di loro, che il suo negozio era pieno di polvere e in disordine- ma che ne sanno gli uomini della polvere? Non la vedono neppure.


    Possiamo intuire il seguito della trama, ma Edith Wharton è eccezionale nel seguire, sul ticchettio dell’orologio che segna il passare del tempo, il progredire di questa esile amicizia, come palpiti il cuore della sorella maggiore, come escogiti la maniera di rivedere l’orologiaio approfittando del fatto che l’orologio si è fermato, come sia delusa perché l’opportunità svanisce e come sia dibattuta tra la gelosia e una generosa contentezza quando Ramy inizia frequentare la loro casa e sembra corteggiare Eveline. La quale è al settimo cielo. Lui ha raccontato che era capo orologiaio da Tiffany, loro gli hanno creduto.

    Quello che accadrà in seguito è solo in parte prevedibile. Quello che noi ammiriamo è la sottigliezza psicologica della scrittrice nel parlarci di queste due piccole vite- una delle sorelle quasi pronta a sganciarsi dallo stereotipo per cui una donna deve essere maritata, e non importa se bene o se male, l’altra che ne è ancora prigioniera. Non si parla d’amore, piuttosto di solitudine e del desiderio di alleviare questa solitudine con qualcuno che non faccia parte della famiglia e si interpreta la minima gentilezza, come il suggerimento di una passeggiata nel parco, come un indizio di qualcosa di più. E fa parte della classe sociale di una borghesia decaduta il non premunirsi, il non chiedere informazioni su un possibile partito, quasi l’ombra della riflessione- chi sono loro, le sorelle Bunner, per pretendere di meglio di un altro commerciante? Quando chiederanno, sarà troppo tardi.


  Nella New York delle sorelle Bunner non si respira il lusso di quella di May ed Ellen de “L’età dell’innocenza”. La loro casa minuscola, triste e buia è lontana anni luce dai salotti scintillanti delle due protagoniste dell’altro famoso romanzo, se queste si aggiravano in carrozza, quando si avventurano fuori Ann Elizabeth ed Eveline salgono su tram e traghetti e vanno a piedi, l’unica loro spilla non può competere con i gioielli di May ed Ellen. Di simile, nei due romanzi, troviamo la sfiducia nel sesso forte e una certa qual diffidenza nei confronti dell’Europa- la Polonia del conte da cui Ellen ha divorziato e la Germania dell’orologiaio.

   A proposito, l’orologio è stato dato via, alla fine. Ha segnato il suo tempo. “Tutto il resto è silenzio”, come scrive il Poeta.

    Un piccolo gioiello. Da leggere.

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