sabato 29 agosto 2020

Franck Thilliez, “Il sogno” ed. 2020


                                             Voci da mondi diversi. Francia
   cento sfumature di giallo


Franck Thilliez, “Il sogno”
Ed. Fazi, trad. F. Angelini, pagg. 600, Euro 17,57

    Nord della Francia. Tre bambini sono scomparsi, a intervalli di tre mesi uno dall’altro. Un messaggio del rapitore diceva che sarebbero stati rapiti quattro bambini, non uno di più, non uno di meno. Ogni volta che un bambino scompare viene ritrovato uno spaventapasseri che indossa gli abiti del penultimo bambino scomparso e sulla testa ha, incollati, i capelli dell’ultimo rapito.
  Una psicologa, Abigaël, collabora con il corpo di polizia che si occupa del caso. È lei la protagonista del nuovo romanzo di Franck Thilliez, avvincente e sconcertante quanto il precedente “Il manoscritto”, con alcune scene in ambientazioni cupe e spaventose quanto quelle dell’altro romanzo. E anche qui c’è un romanzo dentro il romanzo, uno scrittore che scrive un libro la cui trama echeggia la tremenda vicenda della realtà. Anzi, sembra perfino che lo scrittore sappia più di quanto dovrebbe: per esempio come può conoscere i soprannomi con cui i bambini venivano affettuosamente chiamati in casa?

  Parlando di Abigaël, c’è una cosa che va subito detta. È narcolettica. Lo è da quando aveva 8 anni ed era stata mandata in una clinica del sonno. Ha imparato a convivere con la sua narcolessia, la tiene sotto controllo prendendo regolarmente un farmaco che è poi la cosiddetta “droga degli stupri”, che deve essere dosato con attenzione per non provocare effetti indesiderati.
   Abigaël resta vittima di un grave incidente d’auto in cui muoiono suo padre e sua figlia. Ma molte cose sono poco chiare in quell’incidente: perché suo padre, ex-poliziotto, ligio alla legge, aveva imboccato di notte una strada chiusa al traffico per lavori? Come ha fatto Abigaël ad essere sbalzata fuori dall’auto se era certa di avere allacciato la cintura di sicurezza? Davvero ne era certa?
    Sì, almeno di quello Abigaël era sicura, ma il tormento della sua vita quotidiana è proprio il non essere sicura di niente, perché il sonno le apre un mondo di sogni- o di incubi?- dai contorni veri quanto la realtà.  Ad Abigaël è sempre più difficile distinguere il sogno dalla realtà. Ha escogitato un mezzo per differenziarli: infliggersi delle bruciature sul braccio ogni volta che succede qualcosa di cui vuole ricordarsi, arriverà perfino a tatuarsi sull’interno della gamba brevi frasi che devono servirle da memento. Perché il farmaco che assume, oltretutto le distrugge la memoria.
 E’ una donna disperata e coraggiosa, Abigaël. Disperata perché ha perso la figlia, perché non è padrona di sé. E c’è chi approfitta della sua debolezza e interferisce con le sue medicine.

   Franck Thilliez è geniale nel costruire trame sul filo dell’ambiguità, nel confondere le carte in tavola, nel far dubitare il lettore di qualcosa di cui, fino al momento prima, era del tutto convinto. Il lettore precipita, insieme ad Abigaël, in un baratro di incertezze, incapace anche lui di distinguere il sogno dalla realtà. Quando ci sembra di essere vicini alla comprensione di quello che è successo o del perché, ogni volta che ci pare di poter essere sicuri di qualcosa, tutto si ribalta e ripiombiamo nel dubbio, nell’incubo. La sequenza temporale, che non è lineare, è un altro fattore di squilibrio.

  In passato ho letto il romanzo di Jonathan Coe, “La casa del sonno”, con una protagonista narcolettica. Non era un thriller, era un romanzo molto bello e il disturbo di cui soffre Abigaël me lo ha riportato alla mente. Del libro di Thilliez ho apprezzato la singolarità del personaggio di Abigaël e la costruzione narrativa del romanzo con le sue cupe atmosfere. Non ho trovato soddisfacente, invece la sbrigativa soluzione finale della trama. Non so che pensare, poi, dello stuzzicante indovinello, del codice da trovare nel libro per poter leggere un capitolo mancante. Confesso di non averlo trovato.




giovedì 27 agosto 2020

Dulce Maria Cardoso, “Eliete. La vita normale” ed. 2020


                                                  Voci da mondi diversi. Penisola iberica


Dulce Maria Cardoso, “Eliete. La vita normale”
Ed. Voland, trad. D. Petrucccioli, pagg. 272, Euro 17,00

     “Io sono io, e vaffanculo Salazar”. Mica male come incipit. E poi che c’entra Salazar, che è morto da quasi mezzo secolo quando entra nella vita della protagonista, Eliete? C’entra, c’entra…, anche se non ci pensiamo più fino alla fine perché, quante persone si chiamano Antonio, come Salazar?
   Si chiamava Antonio anche il padre di Eliete, militante nella Rivoluzione dei Garofani, morto giovane. Così la nonna, che aveva già perso il marito, aveva perso anche il figlio e non avrebbe mai smesso di indossare abiti a lutto.
   E’ Eliete l’Io narrante del romanzo. Vive a Cascais, con il marito e le due figlie ormai grandi. E’ molto legata alla nonna, più ancora che a sua madre che è in eterno litigio con la nonna, sua suocera. All’inizio del libro la nonna è ricoverata in ospedale, è caduta, era uscita in camicia da notte- sono i primi segnali dell’Alzheimer.

    La storia di Eliete è quella di una Madame Bovary dei nostri tempi. In un flusso continuo di parole, in totale sincerità, Eliete ci comunica il suo disagio e la sua solitudine. Un passato di ragazzina mediocre, il tempo vissuto in casa della nonna dopo la morte del padre, le amiche, il primo amore, l’incontro con il marito e gli anni felici con le figlie piccole. Un lavoro di fortuna come agente immobiliare in cui non eccelle. Il rendersi conto che, in famiglia, ognuno è chiuso nel suo mondo, ognuno dialoga con il cellulare. Non si pranza neppure tutti insieme intorno al tavolo.
E’ la sorta di alienazione e di indifferenza di cui siamo tutti testimoni.
   
Salazar
Inizia tutto come un gioco, crearsi un profilo ed una identità fittizia in un sito per chi vuole “acchiappare” un compagno occasionale. Crede di essere furba, Eliete. Pubblica una foto rubata di una donna che le assomiglia, ma è un po’ più brutta di lei, che già non è una gran bellezza. Pubblica foto di parti del suo corpo che nessuno potrebbe riconoscere per identificarla. Crede di poter gestire le situazioni che si presenteranno, Eliete. Vuole solo ravvivare un poco la sua vita monotona in cui il sesso con il marito è riservato al venerdì.
    Il primo appuntamento è frustrante. Ma ce ne saranno degli altri. Ha delle tresche o degli amanti, Eliete? Sottigliezze. Il risultato positivo è che riesce a portare più armonia in casa, dove si è aggiunto il problema della nonna che viene a vivere con loro per un certo periodo.
    Da una parte assistiamo al lento deteriorarsi dell’identità della nonna, perché senza la memoria della nostra vita noi non siamo nulla, dall’altra al tentativo di Eliete di costruire per se stessa una nuova identità, con maggiore sicurezza di sé, meno propensa a farsi calpestare dagli altri.

Forse i nostri tempi richiedono un nuovo tipo di romanzo di formazione, oppure un secondo capitolo, un’aggiunta al romanzo di formazione tradizionale. E il viaggio in rete va a sostituire il viaggio sulle strade del mondo.
   Finché la nonna dice una frase che nessun prende sul serio, come quando aveva detto che Ezer, il calciatore che aveva segnato il goal che aveva reso il Portogallo campione di Europa, era il suo giardiniere.
          Il sottotitolo di “Eliete” è “La vita normale” e questo è quello ci piace del libro. Perché Eliete, con la sua vivacità, le sue frustrazioni, le sue furie, il suo modo di parlare della sessualità, dei problemi di essere madre e moglie, è una donna come tante altre, con le difficoltà quotidiane e la solitudine di coppia di tante altre.
     Il finale ci lascia in sospeso, il libro ha un seguito- lo attendiamo.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it








lunedì 24 agosto 2020

Rosa Liksom, “La moglie del Colonnello” ed. 2020


                                                              vento del Nord
              love story
              la Storia nel romanzo

Rosa Liksom, “La moglie del Colonnello”
Ed. Iperbora, trad. Delfina Sessa, pagg. 203, Euro 16,50
   
    “Il bello della vita vissuta è che non torna più. Però nulla scompare, mai”, recita l’esergo de “La moglie del Colonnello” di Rosa Liksom. Un libro sull’onda dei ricordi, dunque, la storia della vita della protagonista/io-narrante ricostruita su quella della scrittrice lappone Anniki Kariniemi (1913-1984).
     Solo la prima e l’ultima pagina del libro sono in terza persona. Nella prima pagina è notte, le case del villaggio sono immerse nel buio, da una esce una debole luce. E’ la casa della moglie del Colonnello che sta accendendo il camino con rametti di betulla. Si abbandonerà ai ricordi tutta la notte sino alla “tenue luce del mattino” con cui inizia l’ultimo capitolo, termina il suo racconto e forse la sua vita. La quarta delle sue vite, come lei stessa dice- la prima, nella casa della sua infanzia, la seconda, come moglie del Colonnello, la terza, quella della sua convivenza con il giovane Tuomas ed infine la solitudine.
   
Anniki Kariniemi
E’ un destino segnato, quello della protagonista. Cresciuta negli anni ‘10 del ‘900 in una famiglia nazionalista ed anticomunista, entusiasta dell’esperienza giovanile dei campi estivi dell’Associazione Volontaria delle Lotte dove trionfavano gli ideali patriottici e maschilisti, rimasta presto orfana di padre, era ovvio che si sarebbe lasciata affascinare dal Colonnello amico del padre, filotedesco, filonazista. Ne divenne prima l’amante, poi la moglie, sorda agli avvertimenti, cieca davanti ai segnali di allarme che provenivano dai comportamenti di quest’uomo che aveva ventotto anni più di lei. Un uomo spietato, che usava le donne, che raccontava, vantandosene, di sue imprese di stupri seguiti a volte da uccisioni. Molti, molti anni dopo, la protagonista/io narrante metterà a fuoco dei ricordi in cui lei stessa era stata molestata dal Colonnello quando era bambina, e sua sorella le racconterà di essere stata violentata da lui.

   La storia d’amore tra la protagonista ed il Colonnello farebbe felice qualunque psicanalista senza scomodare Freud e segue la parabola di tutte le storie d’amore (se così si può chiamare questo legame) in cui la donna si sente gratificata per essere stata scelta e poi diventa la vittima di un carnefice che gode nel farla soffrire. Sarà una spirale di violenza da cui lei potrà uscire solo se vorrà porre definitivamente la parola fine a questo legame.
  Dietro a questa storia che si fa fatica a definire d’amore, si dipana la Storia della Finlandia e, in un certo senso, questa è specchio di quella e viceversa. Non è stata facile la Storia della Finlandia, stretta fra giganti che se la contendevano, incerta se fidarsi dei Nazisti, gettandosi in un’alleanza con questi per sfuggire ai Comunisti. Per essere delusi e traditi alla fine.
   E’ un racconto molto duro, quello che leggiamo. Un racconto a tratti spiacevole e che ci disgusta. Perché non possiamo provare simpatia per nessuno dei due personaggi, non riusciamo ad amare lei- la voce narrante- per la sua debolezza, per lasciarsi vittimizzare senza reagire, per la freddezza e l’indifferenza con cui vede i crimini dei Nazisti con cui simpatizza. Lei vede e quello che vede non provoca in lei nessun pensiero, nessuna emozione. Quanto al Colonnello, lo odiamo e lo disprezziamo come perfetta incarnazione del Nazismo.

  Da contrappunto alle crudeltà di cui leggiamo- di quelle tra le mura domestiche e di quelle sui campi di guerra- c’è la bellezza e la serenità del paesaggio finlandese, dei boschi argentati di betulle, delle renne al pascolo in Lapponia, delle calme acque del lago Inari.
    La prosa di Rosa Liksom, che si cala nella parte della moglie del Colonnello, è di una freddezza perfetta.

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venerdì 21 agosto 2020

Martin Walker, “Il sapore della vendetta” ed. 2020


                                Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                    Voci da mondi diversi. Francia
   cento sfumature di giallo

 Martin Walker, “Il sapore della vendetta”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena Cantoni, pagg. 313, Euro 17,00

     St. Denis, un idilliaco paesino fittizio in Dordogna, un angolo della douce France della canzone di Trenet, uno di quei luoghi tranquilli in cui non succede mai niente a turbarne la serenità. Se fosse diversamente, sarebbe impossibile per il commissario Bruno Courrèges conciliare il suo dovere come capo della polizia con tutti i suoi passatempi: coltivare l’orto, cavalcare, dare lezioni di tennis, fare l’allenatore della squadra femminile di rugby, cucinare. Un uomo poliedrico dai molti interessi, questo Bruno. Sulla quarantina, ha un legame amoroso fluttuante e a distanza che ci ricorda quello di Salvo Montalbano con Livia.
     Succede qualcosa in questo incantevole angolo di Francia. Una donna inglese, che doveva prendere parte al corso di cucina organizzato da un’amica di Bruno e in cui Bruno stesso avrebbe tenuto una lezione sulla preparazione del paté di fegato d’oca, non si presenta al corso che aveva già pagato. O meglio, la donna, moglie di un ufficiale dell’intelligence britannica, è scesa dall’aereo ed è salita sul treno per St. Denis, ma è scomparsa. Era stata vista con un uomo. Entrambi vengono trovati morti nella bella dimora dell’uomo, un inglese o irlandese con passaporto falso che- come si scopre in seguito- è stato un mercenario a servizio di diversi gruppi militari. Lei è stata pugnalata in bagno e lui viene trovato penzolante da un albero: vero o falso suicidio?

   La trama è complicata (e piuttosto arruffata, a dire il vero), il passato dell’uomo e gli incarichi del marito della donna riportano a galla episodi oscuri della guerra in Iraq e vecchi attentati compiuti dall’IRA: i due dovevano avere molti nemici che avevano lavorato a lungo per vendicarsi. La vendetta è un piatto da gustare freddo, è proprio il caso di dirlo in un libro che si dilunga parecchio a illustrarci ricette regionali.
   “Il sapore della vendetta” è il terzo libro pubblicato da Feltrinelli della serie del commissario Courrèges ed è, però, il primo che mi capita di leggere.
C’è troppo di “non” poliziesco perché questo romanzo possa essere un buon libro di indagine poliziesca.  La parte della trama che riguarda il delitto è concentrata all’inizio e alla fine, sembra che l’autore sia interessato soprattutto a descriverci l’ambiente, a parlarci della vita di un paesino della Dordogna che non si può certo riassumere in un caso di omicidio. Il mistero di chi sia il padre del bambino di cui è incinta Paulette, stella nascente del rugby, occupa più spazio di quello dell’identità degli assassini. E le descrizioni delle attività sportive di Bruno sono troppe, così come troppo rilievo viene dato alle ricette e alla preparazione dei piatti del Périgord, nonché all’esaltazione e alla degustazione dei suoi vini.
   Dopotutto, se fossi interessata alla cucina francese avrei comprato un libro di ricette e non un poliziesco.




mercoledì 19 agosto 2020

Nava Ebrahimi, “Sedici parole” ed. 2020


                                                             Voci da mondi diversi. Iran


Nava Ebrahimi, “Sedici parole”
Ed. Keller, trad. A. Lorenzini, pagg. 336, Euro 18,00

   La mia lingua è la mia patria. Non ho mai dimenticato queste parole dopo averle lette nel libro di Antonio Soler, “Il nome che ora dico”. E anche se Mona è cresciuta in Germania e parla il tedesco molto meglio della lingua delle sue origini, brandelli del persiano in cui si esprimeva sua nonna, espressioni molto colorate che questa usava più o meno a proposito, le ritornano in mente ora che la nonna è morta e lei, Mona, accompagna la madre in Iran per il funerale.
   Un funerale in Iran non è come uno sbrigativo funerale in Germania, servono sette giorni per accomiatarsi da un morto in Iran- è questo il primo confronto tra le due culture, un confronto che accompagna in sordina l’intreccio dei ricordi. Perché questa non è la prima volta che Mona torna in Iran, ci era già stata con un incarico come giornalista. E allora i ricordi e le storie si rincorrono, si sovrappongono, si alternano su piani temporali diversi e la storia della vita della nonna prende forma insieme a quella di sua figlia- la madre di Mona- e di Mona stessa; le immagini del presente- i guardiani della morale che fermano le coppie in automobile per sincerarsi che siano veramente marito e moglie, le donne coperte dal chador, la descrizione dei batacchi sulle porte, uno riservato agli uomini e uno alle donne in modo che le donne dentro la casa possano distinguere dal suono il sesso di chi è in attesa di entrare e si coprano adeguatamente– si mescolano con quelle delle lotte politiche del padre di Mona in un passato più lontano in cui regnava lo scià.

   Sono le donne ad avere un ruolo di primo piano nel romanzo di Nava Ebrahimi, scrittrice austriaca di origine persiana, e, tra queste donne, è la più anziana, la nonna, maman bozorg, a giganteggiare. Stravagante, amante di allusioni oscene, vivace, non riesce a capire come la nipote, che ha già superato i trent’ anni, non sia ancora sposata. Proprio lei che ha dato in sposa la figlia quando questa era ancora una bambina- aveva solo tredici anni. E’ questo un nodo centrale nel romanzo- per l’età della giovanissima sposa, per i dubbi che fa sorgere riguardo al bell’uomo che l’ha sposata dicendo che pensava avesse 17 anni (glielo aveva fatto credere la nonna?), per la breve durata di quel matrimonio alla fine del quale la madre di Mona aveva chiesto il divorzio da un uomo che lei non vedeva mai perché troppo preso dalla politica ed era partita per frequentare l’università in Francia. Si era poi fermata a Colonia, in Germania, ma era libera.
Ecco, la parola azadi, libertà (una delle sedici parole), acquista un valore di Terra Promessa. In azadi tutto è permesso, per azadi si parte con una valigia e si torna con ottanta chili di peso in più, il batticuore all’aeroporto e stratagemmi per affidare qualche bagaglio a qualcun altro.
   Capitolo dopo capitolo, introdotti dalle parole più varie, ogni parola scritta in caratteri persiani e traslitterata, si snoda la storia delle tre donne con un colpo di scena finale di cui, leggendo con attenzione, si potevano raccogliere degli indizi.
Il punto di svolta, con la scoperta di un segreto di famiglia, avviene in una gita a Bam, l’antica città di argilla distrutta dal terremoto del 2003.
Era in quel luogo lontano da tutto, nel caldo soffocante di una tenda, che era nata Mona. Ed era stata sua madre a scegliere il nome che significa “desiderio”. Perché è un dettaglio così importante, detto fra le lacrime?
   “Sedici parole”, storia d’amore, confronto e scontro di culture, ricerca delle radici, ritratto di un paese a tinte delicate, è un libro che piacerà a tutte le lettrici. Soprattutto a quelle che sono state in Iran e lo ritroveranno nelle sue pagine e a quelle che sognano di andarci.

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lunedì 17 agosto 2020

Franco Faggiani, “Non esistono posti lontani” ed. 2020


                                                      Casa Nostra. Qui Italia
                                                         romanzo on the road 

Franco Faggiani, “Non esistono posti lontani”
Ed. Fazi, pagg. 250, Euro 18,00, formato kindle 9,99

    Questo è il romanzo ‘on the road’ più insolito e straordinario che abbia mai letto, con due compagni viaggiatori più insoliti e improbabili che abbia mai conosciuto, l’uno il doppio dell’altro in un’armonia di opposti. Il professor Filippo Maria Cavalcanti è ultrasettantenne, esperto di arte, archeologo, ha ricoperto incarichi importanti al Ministero della Cultura; Quintino Aragonese deve il cognome nobiliare ad una madre adottiva che lo ha preso sotto la sua ala protettiva, ma non ha niente di nobile. Non conosciamo la sua età precisa, potrebbe essere sulla ventina. Da bambino deve essere stato uno scugnizzo, adesso è un giovane che un termine inglese descriverebbe come ‘streetwise’, è un ragazzo a cui la strada è stata scuola di vita, smaliziato, astuto, irrispettoso e però saggio, saggio come- per l’appunto- nessun libro potrebbe insegnare ad essere, ma soltanto la strada. Il vecchio e il giovane, il colto e l’ignorante, l’uomo sempre un po’ ‘ingessato’ e il ragazzo spontaneo e istintivo. Il caso li fa incontrare. Uno scopo diverso ma di uguale importanza li mette insieme.

     È il 1944. Il professor Cavalcanti viene inviato a Bressanone per controllare lo stato di integrità di un carico di opere d’arte che i tedeschi hanno requisito a Roma. Il pretesto è quello di esibirli in un museo di Berlino, ma tutti sanno dei furti di opere d’arte fatti dai nazisti. E Cavalcanti soffre per tutti quei capolavori trafugati e soprattutto soffre per il sarcofago di un bambino che lui considera ‘suo’ perché era stato lui a trovarlo a Volubilis in Marocco, e la storia del ritrovamento è un piccolo cammeo dentro il romanzo: la storia di una perdita dolorosa che pesa sulla coscienza di Cavalcanti e che torna ora alla memoria. Siamo tutti più o meno colpevoli e la morte di un bambino, per un atto di incuria, importa tanto quanto quella della scia di vittime che i nazisti si sono lasciati dietro nella ritirata.
     Cavalcanti e Quintino si conoscono a Bressanone (Quintino ruba la cartella piena di documenti del professore, poi gliela restituisce- conoscenza è fatta) e stringono questo strano patto. Quintino, che fa il meccanico in questo confino forzato, ruberà un camion, Cavalcanti finanzierà l’impresa del ritorno a Roma con il carico dei quadri. Quintino ha pensato a tutto, da come farsi consegnare le opere d’arte dai soldati di guardia indossando divise naziste al percorso da fare, ai viveri, alle bottiglie da usare come merce di scambio.
    Il viaggio incomincia e sarà quanto mai avventuroso. Basti dire che inizia con una deviazione per Salisburgo prima di scendere a Sud e percorrere strade secondarie per non imbattersi nei tedeschi ma neppure nei partigiani. Ci saranno infiniti cambiamenti di itinerario, soste, incontri, amicizie, baratti, fughe precipitose e il viaggio diventa per entrambi un percorso di maturazione, anche se mai Cavalcanti lo avrebbe immaginato, alla sua età. Ognuno dei due dà qualcosa all’altro. Quintino dà la sua maniera realistica, leggera e cinica di affrontare la vita, come se avesse già visto tutto e sperimentato tutto. All’irruenza di Quintino Cavalcanti oppone la sua posatezza, la sua cultura. Lentamente il loro ruolo si trasforma quasi in quello di un padre e un figlio. Il viaggio è lungo, dura più del previsto. Ci sono momenti in cui la narrazione rallenta, c’è lo spazio per tante descrizioni di paesaggi di quiete in un mondo in fiamme. Quello che prevale, però, è il divertimento, l’allegria delle reazioni di Quintino, lo scambio vivace di battute tra i due.

   E poi c’è la Storia, la storia di quei mesi confusi, di quel 1944 dopo l’armistizio, quando i tedeschi imperversano ancora a Roma e sperano di rallentare l’avanzata degli Alleati bloccandoli con la Linea Gotica. Una Storia vista da un’angolatura singolare, di sbieco, mai veramente fronteggiata. Una Storia che rispecchia le paure e le miserie della gente comune.
     C’è tutta la sensibilità di Franco Faggiani, che già abbiamo ammirato nei libri precedenti, in questo romanzo che è una lezione di vita riassunta nelle parole di Quintino, lo scugnizzo saggio: “Non esistono posti lontani, esistono destinazioni da raggiungere.”



sabato 15 agosto 2020

Klüpfel & Kobr, “La recita” ed. 2020


                                          Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                     cento sfumature di giallo

Klüpfel & Kobr, “La recita”
Ed. emons, trad. A. Carbone, pagg. 356, Euro 14,00

      È estate a Kempten in Algovia, una regione nell’estremo sud della Germania, confinante con l’Austria e la Svizzera. Si svolgono le prove dell’annuale recita in cui si rievoca la storia dell’eroe leggendario Guglielmo Tell.
Il romanzo “La recita” inizia con un inseguimento, con un ordine gridato, “consegnateci l’assassino!”, e finché non parte la musichetta del cellulare di uno degli attori, Kluftinger, noi non sappiamo che questo Kluftinger è un commissario di polizia, né che si tratta di una finzione da palcoscenico. Eppure questo è un preambolo importante che ci fornisce alcuni indizi su quello che leggeremo e sul tono della narrazione. Kluftinger, così come appare, in una ridicola calzamaglia verde e con una sigla telefonica che canta “il sole rosso delle Barbados splende ancora per te  e per me”, ci lascia perplessi: dobbiamo prenderlo sul serio come commissario? Quanto alla storia di Guglielmo Tell, ci accompagna per tutto il romanzo, rievocata nelle prove della recita, ed è una chiave di lettura che invita alla moderazione, evitando ogni fanatismo. La storia degli eroi è scritta dai vincitori che li hanno decretati eroi. Guglielmo Tell, ribelle contro l’autorità, l’eroe che diede l’inizio alla lotta per l’indipendenza della Svizzera, era un bandito dal punto di vista dell’autorità costituita, forse addirittura un terrorista, proprio come erano terroristi e banditi i nostri partigiani dal punto di vista dei tedeschi. E i titoli dei capitoli del romanzo che scandiscono, in un conto alla rovescia, “Ancora 12 giorni, 2 ore, 4 minuti, 38 secondi”, non lasciano dubbi su quello che si teme possa accadere.

     Uno studente si è fatto saltare la testa con un colpo di pistola quando ha sentito la polizia austriaca, che lo teneva d’occhio e lo aveva inseguito, bussare alla sua porta. Lo studente era un tipo solitario che si era convertito alla religione musulmana. Sul suo computer si ritrovano disegni di circuiti elettrici e quella scritta terribilmente allarmante con il conteggio dei giorni che mancano- a che cosa? Chi sta preparando un attentato? E dove? Poco importa ‘chi’, a questo punto, perché la bomba sarà azionata a distanza. È importante scoprire dove i terroristi di matrice islamica intendano colpire. Conoscendo i motivi psicologici dei loro piani è probabile che abbiano programmato una strage con forte impatto emotivo. Quale occasione migliore della partita di calcio che deve essere giocata a breve? Coincide la data con il conteggio alla rovescia?

      Piace per parecchi motivi il poliziesco “La recita” di Klüpfel e Kobr. Piace per il tono narrativo che sa di commedia gialla e che smorza la tragicità di eventi che sono diventati il timore nascosto dell’Occidente. Piace il personaggio di Kluftinger, l’ometto messo in ridicolo da una madre che è peggio di qualunque madre italiana e che continua trattarlo come un bambino, e da una moglie che lo obbliga a partecipare a delle lezioni di ballo, il commissario che non si è mai trovato davanti una scena così raccapricciante come quella del suicidio dello studente, che non ha dimestichezza con i nuovi mezzi tecnologici, che rifugge da stupidi atti di inutile eroismo e che però ha degli sprazzi di brillante intuizione. È grazie a lui che la tragedia viene evitata anche se, come lui stesso dice, la piccola città di Kempten non sarà più come prima: ha perso la sua innocenza, è come quando il serpente è entrato nel giardino dell’Eden. Piace anche quello scherzoso paragone continuo tra austriaci e tedeschi, piace curiosare nelle abitudini alimentari dei tedeschi con gli spuntini a base di salsicce, così diversi dai pranzi di Montalbano.
    Tra inseguimenti rocamboleschi, qui pro quo, battute scherzose, ansie, rivisitazione della storia leggendaria di Guglielmo Tell, la trama scorre veloce. Ci divertiamo e questo è perfetto per una lettura estiva.

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giovedì 13 agosto 2020

Andrea Camilleri, “Riccardino” ed. 2020


                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
     cento sfumature di giallo


Andrea Camilleri, “Riccardino”
Ed. Sellerio, pagg, 285, Euro 15,00

      Manca poco alle cinque del mattino quando Salvo Montalbano viene svegliato dal suono del telefono. Una voce che si presenta come, “Sono Riccardino”, e che gli chiede se si è dimenticato che devono incontrarsi davanti al Bar Aurora. Montalbano non si cura di rispondere che non sa affatto chi sia Riccardino e che deve aver sbagliato numero. Dice che li raggiungerà entro dieci minuti. Si dà il caso che questo Riccardino muoia ammazzato, prima che passino i dieci minuti, davanti ai due amici che sono con lui. Gli ha sparato un uomo con casco integrale, su una grossa moto nera.
    Questa è la scena con cui si apre “Riccardino”, l’ultimo regalo del nostro Andrea Camilleri, pubblicato per rendergli onore nel primo anniversario della sua morte. Non è un libro che Camilleri ci manda dall’Aldilà (forse gli piacerebbe questa idea), ma il romanzo che scrisse nel 2005 con l’intenzione che fosse il completamento della serie del commissario Montalbano e che lui stesso rivide nel 2016, correggendone solo la lingua, per adattarla al “vigatese”, lingua immaginaria di un paese immaginario che si e’ andata creando ed evolvendo nei suoi romanzi.

    Non c’è un solo Salvo Montalbano che si occupa dell’indagine sull’omicidio di Riccardino. Ce ne sono tre in questo che è il romanzo più singolare, più pirandelliano, forse anche più cinicamente amaro di Andrea Camilleri.
    Montalbano 1: è lui, il personaggio non più giovane che continua a dire di essere stanco, di non essere più quello di una volta. È  il protagonista della serie ambientata a Vigata, di cui sappiamo tutto o quasi tutto dopo averne letto in libro dopo libro.
    Montalbano 2: è l’attore che interpreta il personaggio sullo schermo, quello in cui ormai il pubblico lo identifica, più reale di quello su carta perché in carne e ossa, più conosciuto perché di certo ci sono più spettatori che lettori.
   Montalbano 3: e questo è quasi un Montalbano 1 bis, un suo doppio, è sempre lui, il personaggio che, però, esiste nella mente dell’Autore prima di acquistare una seconda realtà sulla carta.
    Non vanno d’accordo, questi tre Montalbano. C’è una continua schermaglia fra di loro: Montalbano 1 invidia a Montalbano 2 la maggiore prestanza e agilità fisica, Montalbano 1 e Montalbano 3 dissentono su come procedere nell’indagine. L’Autore stesso interviene, diventa anche lui un personaggio del romanzo, telefona a Montalbano, ci litiga, lo rimprovera, “Questa storia di Riccardino io la sto scrivendo mentre tu la stai vivendo”.
    La storia di Riccardino, dunque. Di Riccardino e dei suoi tre amici, “i quattro moschettieri” come loro stessi si erano chiamati. Ma erano veramente così amici? Tanto amici da permettere a Riccardino di farli cornuti? E allora lui è stato ammazzato per gelosia?
     Quanti delitti giustificati come “delitti d’onore” vengono condonati in Sicilia- questa è la prima amara riflessione di stampo culturale. Come se certe forme mentali non possano mai mutare nonostante l’evolversi della società e il cambiamento dei costumi.

   Se non è stata una questione di corna, quale altro movente può essere stato? Riccardino era Direttore di Banca, gli altri tre moschettieri lavorano nella miniera di sale. Affari, prestiti, giro di soldi, entrano in scena personaggi intoccabili, di quelli che mettono tutto a tacere, come quando Sciascia scriveva “Il giorno della civetta”.
    Ha ragione Salvo Montalbano ad essere stanco. Ha ragione a voler scomparire, così, come parole nell’aria, così, come solo il personaggio di un romanzo, per sua fortuna, può fare. Dissolvendosi.
   E con “Riccardino” ci accomiatiamo- per sempre questa volta- da Salvo Montalbano e dall’Autore. Ci mancheranno. Come ci mancheranno Fazio, Mimì Augello (non era presente in questo romanzo, si sarebbe divertito con il gioco amoroso delle tre donne), Catarella con le sue storpiature di parole. Soprattutto ci mancherà, però, Camilleri, con il suo sguardo vigile e attento sulla realtà che lo circondava, con il suo umorismo, la sua auto-ironia, la sua vivacità che non conosceva la stanchezza degli anni di cui si lamenta il suo personaggio.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it