sabato 30 aprile 2022

Michael Robotham, “Brava ragazza, cattiva ragazza” ed. 2022

                                                 Voci da mondi diversi. Australia

cento sfumature di giallo

Michael Robotham, “Brava ragazza, cattiva ragazza”

Ed. Fazi, trad. Giuseppe Marano, pagg. 400, Euro 17,10

     Evie. Non è il suo vero nome. Quello non lo sa nessuno. Così come nessuno sa la sua vera età. Ha una storia orrenda alle spalle. É stata trovata in una stanza segreta, denutrita e sporca, nella casa dove l’uomo che era stato il suo carceriere era morto- e da un pezzo- legato ad una sedia. Era stato torturato in maniera efferata. Adesso Evie è in una casa di accoglienza per ragazzi disadattati e problematici.

   Jodie, quindici anni, stella del pattinaggio artistico di Nottingham. Non era tornata a casa, la sera dopo aver assistito ai fuochi d’artificio per il Guy Fawkes’ Day. Il suo cadavere giaceva su un sentiero. Il delitto di un pervertito? Oppure?

   Cyrus, giovane psicologo, anche lui, come Evie, con un passato traumatizzante. É proprio Cyrus, dopo aver conosciuto Evie nella struttura in cui lei è ospitata, che si offre di farle da tutore finché non avrà compiuto i diciotto anni nella data di nascita che il giudice le ha attribuito.


    Inizialmente sembra che le due vicende- quella di Evie, diffidente nei confronti di tutti, in fuga anche da un generoso e innocuo Cyrus che fa di tutto per metterla a suo agio, facile preda di gente senza scrupoli, e quella della ragazza che ha iniziato a pattinare in pratica quando faceva i primi passi- non abbiano niente a che fare l’una con l’altra. É lo psicologo Cyrus che le collega e, in seguito, il gioco della sorte.

   Con uno dei protagonisti che è uno psicologo ci sembra quanto mai adeguato che l’interesse del romanzo sia centrato sulla psicologia dei personaggi. Di Evie abbiamo solo sprazzi di flashback, non sappiamo mai se quello che dice è vero o no. Così come non sappiamo, come non riesce a saperlo Cyrus, che cosa le sia accaduto, come sia stata trattata dall’uomo trovato morto. Soffre forse della sindrome di Stoccolma? A volte risponde con dei versi di canzoni, è chiaro che non vuole parlare, lei che ha una abilità singolare- quella di capire dallo sguardo se chi ha di fronte stia mentendo. Evie è difficile da comprendere, è carente di affetto, capace di grandi generosità- lo vedremo nelle scene finali.  

     Il personaggio di Jodie riserva più sorprese. La ragazzina che mirava in alto con i suoi meriti sportivi (o era qualcun altro che mirava in alto per lei, sottoponendola a stress e sacrifici che lei non era più disposta ad accettare?) non era poi così ingenua e innocente. Da dove venivano i soldi trovati nel suo armadietto a scuola? E il pacchetto di preservativi, poi?


    Quanto a Cyrus, anche se abbiamo qualche dubbio sulla legittimità del suo incarico di tutore della ragazza minorenne che ha avuto in cura, ci piace questo ragazzo che vive nella grande casa fatiscente dei nonni e che arriva addirittura a comperare un cane per Evie, dopo aver detto che assolutamente non lo avrebbe fatto, perché si rende conto di quanto sia importante per lei e possa esserle di aiuto.

     La lettura di “Brava ragazza cattiva ragazza” scorre veloce, fa restare più volte con il fiato in sospeso. Le storie principali ci fanno entrare nelle case delle famiglie di chi è coinvolto, ci prospettano complesse dinamiche nei rapporti tra genitori e figli e tra coniugi. Fino al colpo di scena finale. Sorprendente. 

E tuttavia...no, uno scrittore non può terminare così un romanzo, con punti di domanda senza risposte. É come se ci dicesse di aspettare il seguito, se vogliamo saperne di più. Aspetteremo.

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mercoledì 27 aprile 2022

Sebastian Barry, “Mille lune” ed. 2022

             Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

              romanzo storico

Sebastian Barry, “Mille lune”

Ed. Einaudi, trad. Anna Rusconi, pagg. 224, Euro 19,00

 

    Per sua madre il tempo non era una linea retta ma un anello, un cerchio. A camminare abbastanza potevi incontrare persone che erano vissute tanto tempo prima- mille lune insieme. Erano le lune a segnare il tempo.

Sua madre era un’indiana lakota, una tribù dei Sioux, era una donna coraggiosa quanto un uomo ed era stata uccisa dai soldati, come tutti gli altri membri della sua famiglia. Lei, Winona, aveva sette anni e si era salvata. Dopo era stata affidata a John Cole e Thomas McNulty ed era diventata come una figlia per loro.


    Sono Winona. All’inizio ero Ojinjintka, che significa rosa. Inizia così il romanzo “Mille lune “ di Sebastian Barry, con una protagonista strappata dalla sua gente, dalla sua cultura e dalla sua lingua- la perdita del nome, troppo difficile da pronunciare, è la perdita della sua identità indiana. Ojinjintka diventa Winona che significa ‘la primogenita’, ma lei non è una primogenita e la falsità di un nome è anche la falsità di quello che deve diventare. È lei, Winona, a narrare la sua storia. Lei, consapevole di non essere niente e nessuno, di valere di meno della schiava liberata che lavora nella fattoria dei due soldati che avevano combattuto per l’Unione pur essendo di uno stato del Sud, il Tennessee. Qualunque reato venga commesso contro un indiano non è perseguibile- agli occhi della città non ero che cenere di un falò indiano.


      Ci sarà presto un reato, seguito da un altro e poi da un altro ancora che sembra un’esecuzione. Winona, che ha imparato a leggere, scrivere e fare di conto con gli insegnamenti di John Cole (anche lui ha sangue indiano tra i suoi antenati), tiene la contabilità per l’avvocato della cittadina Paris ed è corteggiata dal commesso dell’emporio, un ragazzo dai capelli rossi la cui famiglia viene dalla Polonia. Un ragazzo bianco. Il colore della pelle è importantissimo nel Tennessee del 1870. La guerra civile è finita da poco, il paese sente la spaccatura tra l’Est, che ha combattuto per Lincoln, e l’Ovest. I bianchi spadroneggiano, sotto di loro ci sono i neri ex schiavi ancora a disagio nella nuova condizione e poi, come ha detto Winona, gli indiani. Il ragazzo polacco ha intenzioni serie, parla di matrimonio. Ma una sera Winona ritorna a casa ‘rovinata’. Non ricorda nulla, non sa chi l’ha violata, il vestito da sposa viene messo via.


     Se la legge non prevede nessuna punizione per il reato di stupro, è lecito farsi giustizia da soli? Le acque si intorbidano, la pista è confusa, un nero viene selvaggiamente picchiato, qualcuno dà alle fiamme la casa dell’avvocato presso cui lavora Winona, uomini incappucciati si aggirano sulla scena.

     Ritroviamo in questo romanzo i due protagonisti di “Giorni senza fine”- Thomas McNulty che a quindici anni aveva lasciato l’Irlanda flagellata dalla carestia e, approdato in America, aveva incontrato John Cole, un ragazzino suo coetaneo con sangue indiano. Il libro, tuttavia, non è un seguito e si legge come un romanzo a sé, con la nuova voce narrante della ragazza indiana. Lei scampata ad una strage, McNulty scampato alla morte di fame, tutti e tre legati da un amore che fa di loro una famiglia, anche se insolita. Perché “Mille lune” è tanti romanzi insieme. È un romanzo storico su un periodo confuso della storia d’America in cui è tutta la nazione che si indaga sulla propria identità, proprio come fa il personaggio di Winona. Si può cancellare il passato dei nativi e quello degli schiavi negri? Identità culturale e identità di genere, perché “Mille lune” è anche un romanzo d’amore e l’amore non è solo quello tra uomo e donna, è anche quello tra due uomini o tra due giovani donne o tra due uomini e una figlia adottiva.

     Ottima l’ambientazione del romanzo e anche il linguaggio dal gusto immediato e spontaneo della ragazzina per cui l’inglese non è la lingua madre.

domenica 24 aprile 2022

Melissa Fu, “Nella terra dei peschi in fiore” ed. 2022

                                                        Voci da mondi diversi. Cina

                                                       saga

Melissa Fu, “Nella terra dei peschi in fiore”

Ed. Nord, trad. B. Ronca, pagg. 432, Euro 18,00

   Sembra un titolo romantico, “Nella terra dei peschi in fiore”, uno di quei titoli studiati apposta per attirare lettrici tra colori e profumi e immagini idilliache. E invece c’è un riferimento preciso, ci sono due versioni diverse della storia della terra dei peschi in fiore che è una sorta di paradiso, di giardino dell’Eden. Quando Meilin la raccontava al figlio Renshu, bambino di quattro anni, mostrandogli le delicate figure tracciate sul rotolo di seta che era l’unica cosa preziosa loro rimasta, il contadino che riusciva a raggiungere la terra dei peschi in fiore non se ne allontanava più- aveva trovato la pace e la felicità. Moltissimi anni dopo, un Renshu adulto che già aveva cambiato nome in Henry dopo essere approdato in America, aveva appreso di un altro finale- il contadino era andato via dalla terra dei peschi in fiore e, quando aveva cercato di tornarci, non lo aveva più trovato. È una fiaba a cui continuiamo a pensare, leggendo il romanzo di Melissa Fu, chiedendoci quale sarà la sorte di Renshu e quale sia la sua terra dei peschi in fiore, pensando anche all’altro significato, di un giardino con alberi carichi di fiori e di frutti che contengono una promessa di futuro- ‘pianta un frutteto’, raccomanderà Meilin al figlio.



    1938. I giapponesi hanno invaso la Cina. È la guerra. I due fratelli Dao si arruolano, solo uno tornerà, il maggiore. L’altro era il marito di Meilin, il padre di Renshu, l’erede del loro cognome. Anni duri, durissimi, si susseguono. Dall’originaria Changsha (la città in cui Mao passò gli anni formativi), nella Cina centro meridionale, inizia la fuga di Meilin con la cognata e i bambini, su carretti, treni affollatissimi, a piedi, presi di mira dagli aerei giapponesi. Quando pensano di aver raggiunto un luogo sicuro, devono scappare di nuovo. Renshu ricorderà sempre con orrore i tunnel soffocanti in cui si rifugiavano durante i bombardamenti, dove una cuginetta era morta soffocata. Lo zio, figura importante nelle fila dei nazionalisti, aveva sempre cercato di aiutarli e di proteggerli. Finché, dopo che la guerra civile aveva soppiantato la guerra contro i giapponesi, tutti i Dao avevano seguito il leader del Kuomingtang a Taiwan.

     Questa è la parte iniziale del romanzo di Melissa Fu che seguirà le vicende di tre generazioni in tre diversi paesi, perché Renshu, studente brillante, completerà gli studi in America, dove si sposerà e avrà una figlia con la quale non parlerà mai in cinese, alla quale non racconterà mai le storie che lo incantavano quando era sua madre a raccontargliele, indicando le figurine rappresentate sul rotolo che aveva dovuto essere venduto- e a che prezzo!- per pagarsi i biglietti della nave che li avrebbe portati a Taiwan.


    “La terra dei peschi in fiore” è un romanzo affascinante, anche se segue un modello stilistico tradizionale. Apprendiamo di un’altra Cina che non è quella della Rivoluzione Culturale, “la storia della Cina è una storia triste”, dirà Renshu alla figlia Lily, perché anche in questa Cina sull’isola di Taiwan ci sono sospetti e arresti e morti e torture. E ci appassioniamo alle vicende dei due protagonisti- donna straordinaria Meilin, che pensa solo al bene di suo figlio. Andrà solo una volta a trovarlo in America (tra mille difficoltà) e Renshu (diventato Henry) ritornerà a Taiwan solo quando riceve la telefonata che lei sta morendo. Ammiriamo Henry. Proviamo compassione per Henry. Lo ammiriamo per la determinazione con cui si impegna negli studi per non deludere la madre e lo zio, proviamo compassione per lui perché la sua identità è divisa, perché la paura di nuocere alla madre e di perdere lui stesso quello che ha conquistato gli fa rinnegare le sue origini. Quando torna a Taiwan, non riconosce il paese che ha lasciato- è quella la terra dei peschi in fiore? E lui, che farà? Resterà? Andrà via perdendo per sempre il paradiso? Il finale è una conciliazione delle diverse fasi della sua vita, è l’adempimento di un desiderio, è la raggiunta serenità.

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venerdì 22 aprile 2022

Veit Heinichen, “Lontani parenti” ed. 2022

                                     Voci da mondi diversi. Area germanica.

cento sfumature di giallo

Veit Heinichen, “Lontani parenti”

Ed. e/o, trad. Monica Pesetti, pagg. 278, Euro 18,00

    Torlano, comune di Nimis, 25 agosto 1944. Trentatre civili, fra uomini, donne e bambini, furono uccisi per una rappresaglia da membri delle Waffen SS tedeschi e cosacchi, nonché da collaborazionisti italiani.

     Parte da questo eccidio, uno dei tanti purtroppo ricordato solo nel luogo dove accadde, il nuovo romanzo di Veit Heinichen, lo scrittore tedesco che vive ormai da moltissimi anni a Trieste e che ha preso su di sé il compito scomodo di portare alla luce crimini lontani e vicini della città che è sempre stata un crocevia di culture. Forse le parole che un personaggio di “Lontani parenti” rivolge a Proteo Laurenti, protagonista dei suoi libri, si adattano anche allo stesso Veit Heinichen- tu, dopo decenni che abiti qui non hai ancora perso lo sguardo del nuovo arrivato. Perché solo chi non ha fatto l’abitudine a comportamenti o reazioni, chi non ha già seppellito verità sgradevoli nella memoria, riesce a cercare di vedere chiaro e a tirare fuori verità scomode, polvere spazzata sotto il tappeto.


    Il romanzo inizia con un assassinio. Il morto aveva 75 anni, lavorava ancora come consulente finanziario, aveva la residenza nel principato di Monaco, espediente comodo a molti. Ha lo stesso cognome di uno dei colpevoli della strage di Torlano, sfuggito alla giustizia, citato nelle pagine che gli sono state trovate in tasca. Questo è solo il primo di una serie di morti, tutti uccisi con una freccia scagliata da una balestra (arma singolare che non fa alcun rumore e colpisce da lontano) e per lo più sorpresi in luoghi che hanno un significato nella memoria storica. Il procuratore capo, uomo supponente e borioso che viene dal Sud, si dice certo che si tratti di un serial killer, senza prestare attenzione a ciò che gli dice Proteo- deve essere un vendicatore, e non un serial killer, non c’è niente di ossessivo, nessuna ricerca di feticci in questi morti. Pare quasi che il criminale o i criminali abbiano una lista di nomi da cui trarre una spunta, a mano a mano che portano a termine un’esecuzione.

     Il lettore sa subito chi sono i colpevoli, anzi, li segue nel loro accurato programma. Non c’è quindi la curiosità di scoprirli, piuttosto quella di sapere se verranno fermati, soprattutto se una delle vittime designate, una donna che ha ripudiato sua madre, aguzzina nella Risiera di San Sabba, riuscirà a sfuggire loro.


       La parte più interessante del romanzo è, come sempre, la Storia che c’è dietro, una Storia difficile e dolorosa in tutta Italia, ma forse ancora più complicata in quella zona di confine dove agivano tedeschi, fascisti, partigiani, titini e dove, a fine guerra, tutti, ma proprio tutti, erano improvvisamente diventati membri della resistenza, bianchi come agnelli. E poi, se è tremendamente vero che i tedeschi erano di una crudeltà inaudita (‘ma sei ancora sicura di voler sposare un tedesco?’, dice il figlio di Proteo alla sorella pronta a convolare a nozze con un avvocato di Francoforte), sarebbe bene smetterla di pensare che gli italiani fossero ‘brava gente’. Sarebbe bene smetterla di dire, e di voler credere, che la Risiera di san Sabba era solo un campo di transito.

   


Queste sono le pagine dure del romanzo di Heinichen, alleviate dalla scherzosità di quelle in cui in primo piano è la vita di famiglia di Proteo (al dramma di sangue ‘fuori’ corrisponde il piccolo dramma fra le mura di casa della figlia Patrizia che pensa di essere incinta di un uomo che non è il padre della bambina che ha già, mentre si parla di prelibatezze culinarie, di vini e del matrimonio dell’altra figlia) e dall’apparire di due personaggi intriganti- il vagabondo probabilmente traumatizzato da un’altra guerra, quella dei balcani, e la novantacinquenne amica di famiglia che guida spavalda una Maserati Biturbo rossa. Troppo spavalda. Oppure? C’era qualcosa che non aveva detto?

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mercoledì 20 aprile 2022

Gábor T. Szántó, “1945 e altre storie” ed. 2022

                                         Voci da mondi diversi. Ungheria

          racconti

Gábor T. Szántó, “1945 e altre storie”

Ed. Anfora, trad. Richárd Janczer e Mónika Szilágyi, pagg. 232, Euro 18,50

     Lui, lo scrittore, sceneggiatore, poeta e saggista Gábor T. Szántó, si definisce ‘l’ultimo scrittore ebreo d’Ungheria’. E l’ebraicità, la Shoah, l’antisemitismo, sono tematiche importanti nei racconti riuniti in “1945”, titolo che suggerisce un tempo immediatamente dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Vedremo, però, che non sono gli unici temi, ce ne sono degli altri, ugualmente anche se diversamente dolorosi.

     Che cosa è successo in quel ‘dopo’? come è stato rielaborato quello che era accaduto, da una parte e dall’altra? Il racconto iniziale, “Il ritorno”, da cui è stato tratto il film diretto dal regista ungherese Ferenc Török, stabilisce l’atmosfera e punta l’attenzione non tanto sui due ebrei, uno anziano ed uno giovane, che ritornano in un villaggio su un treno composto solo da una locomotiva, da un vagone passeggeri e uno merci, quanto sugli abitanti che assistono allo scaricare di undici casse e quindi al passaggio di un carretto seguito dai due uomini in lutto e diretto al cimitero.

    ‘Sono tornati…Sono tornati…”, parole come un soffio di vento che percorre le strade del villaggio, entra nelle case, suscita domande, riporta ricordi alla mente, scatena paure. È chiaro chi siano quelli che sono tornati. Il passato riaffiora a sprazzi- case e negozi di cui, dopo la partenza di ‘quelli’, altri si erano impossessati (li rivorranno indietro?), mobili e suppellettili trafugati (li rivorranno indietro?). E che altro vorranno di nuovo? Ricorderanno i visi di chi è rimasto impassibile allora?


   Il racconto è tutto giocato sul non detto, sul ricordo che si preferirebbe non ricordare, mentre il carretto con le dodici casse (contengono cosmetici, corre la voce) sfila per le vie del paese, anomalo carro funebre. Quanto sia anomalo, quanto sia macabro, lo vedremo nel finale. Cosmetici…E intanto, in questi bisbigli, abbiamo percepito la meschinità dei moventi di questi ungheresi che si sono avvantaggiati del genocidio. È la colpevolezza del silenzio, del distogliere lo sguardo, che è sconvolgente.

   In un altro racconto due sopravvissuti cercano di farsi giustizia da soli. Un racconto breve che punta il dito sullo scandaloso rinserimento nelle loro funzioni di coloro che si sono macchiati di crimini di guerra e sono rimasti impuniti. In “A onor del vero” Szántó ritorna sul tema dell’impunità- due fratelli rapiscono un vecchio nazista che vive in tutta tranquillità, lo rinchiudono in una cantina obbligandolo a guardare, a ciclo continuo, il filmato sulla liberazione dei campi con le scene agghiaccianti delle montagne di morti scheletrici. Ma non sono stati solo gli ebrei ad essere vittime della guerra- ne “La notte più lunga” il tema della ‘casa’ e dell’esproprio è affrontato con riguardo alla deportazione  e alla sostituzione di alcune comunità etniche in territorio ungherese. Si può pesare il dolore su una bilancia?


     Lo scrittore affronta anche altri argomenti- una forma distorta di amore materno nato dalla solitudine e dall’isolamento, la scoperta dell’amore omosessuale e infine il dramma dell’incertezza dell’identità sessuale in “Trans”, dove un ragazzo vuole diventare rabbino ma vuole anche sottoporsi all’operazione per diventare donna, e perora la sua causa con un’argomentazione lucida che rivela un intelletto brillante.

    Lo stile di tutti questi racconti è asciutto e spoglio, lascia trapelare i pensieri dei protagonisti, il conflitto interiore che li spinge all’azione. Sono racconti che ci parlano di ingiustizie, di sofferenze nascoste, di ferite mai rimarginate, di un passato che non passa, di pregiudizi e di un antisemitismo che non è mai scomparso.

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domenica 17 aprile 2022

Madeline Miller, “La canzone di Achille”

                               Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Madeline Miller, “La canzone di Achille”

Ed. Marsilio, trad. M. Curtoni e M. Parolini, pagg. 379, Euro 11,00

 

       Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta…

Chi appartiene, come me, alla generazione più vecchia, cresciuta a ‘pane e Omero’, ha la tentazione di disdegnare un romanzo come quello della scrittrice e studiosa americana Madeline Miller, “La canzone di Achille”, vincitore dell’Orange Pize, pubblicato per la prima volta da Sonzogno nel 2013, arrivato ormai alla sua diciassettesima edizione, costantemente presente in classifica. Eppure ci deve essere un motivo per cui il libro continua ad avere tanto successo. Cerchiamo di capirne il perché.

    Quasi certamente la storia non è altrettanto conosciuta in America quanto in Italia, e il primo merito del romanzo è quello di rinverdire il valore di un mito, di rispolverare e- lasciatemelo dire- di svecchiare un classico senza tempi come è l’Iliade, raccontando, e però senza veli, la storia di un amore omosessuale che era del tutto normale per i tempi, ma che è stato invece tramandato e studiato nelle scuole come un’amicizia- quella tra Achille e Patroclo.


   L’Iliade non è la storia della guerra di Troia, è focalizzata piuttosto sull’episodio che porterà alla serie di eventi che segneranno la fine della città assediata dai Greci per dieci anni. E Madeline Miller attinge ad altre fonti, oltre che all’Iliade- all’Eneide per quello che riguarda la figura di Pirro, figlio di Achille, e all’Achilleide di Stazio per il periodo in cui Achille visse nell’isola di Sciro, sotto spoglie femminili per sfuggire alla guerra. A grandi linee, la storia come la conosciamo narra dell’ira suscitata in Achille dalla prepotenza di Agamennone che, avendo dovuto restituire la figlia del sacerdote Crise per mettere fine ad una pestilenza, reclama per sé Briseide che Achille aveva chiesto ed ottenuto come bottino di guerra. Achille, sdegnato, si ritira dai combattimenti- sa benissimo che i Greci non saranno vittoriosi senza di lui. Lascio scoprire il seguito ai lettori che non conoscessero o non ricordassero quanto accade.

    La novità ne “La canzone di Achille” è che la voce narrante è quella di Patroclo e non quella dell’eroe famoso che, per tutto il libro, verrà chiamato con l’appellativo aristos achaion, il migliore dei greci. Ma è veramente il migliore dei greci, Achille? Dapprima certamente sì, soprattutto agli occhi adoranti di Patroclo, il bambino di dieci anni esiliato dal regno di suo padre per aver ucciso un ragazzino prepotente. Era stato un incidente- perché Patroclo non si era giustificato? Ecco il primo divario tra le personalità dei due amici- Achille non si sarebbe mai comportato così. Si ritrovano insieme, Achille e Patroclo, a ricevere gli insegnamenti del centauro Chirone. Poco più che bambini, poi adolescenti, amici che scoprono l’amore insieme. Achille bellissimo, biondo e statuario, figlio della dea Teti, e Patroclo, scuro di capelli e di carnagione, più piccolo dell’amico. Orgoglioso e sicuro di sé il primo, all’ombra dell’altro il secondo.


     A ben vedere, “La canzone di Achille” (e l’Iliade) è un duplice romanzo di formazione: cambiano, eccome, sia Achille sia Patroclo negli anni di guerra. E se ci era parso, nella prima parte del libro, che la scrittrice sfruttasse il lato ‘piccante’ della storia e trasformasse la versione tradizionale della vicenda di due eroi guerrieri in un romanzetto rosa, l’interpretazione che dà degli avvenimenti ci fa cambiare idea, perché è plausibile e intrigante. Perché suggerisce non uno ma due motivi per il comportamento di Achille, perché inserisce il dubbio sull’aristos achaion- non era disonorevole per un ragazzo accettare di travestirsi da donna? E non era disonorevole e vigliacco accettare che il suo amatissimo amico si travestisse da lui, indossando la sua armatura, per far credere al nemico che l’aristos achaion era tornato a combattere? Non era disonorevole oltraggiare il cadavere di un onorevole nemico quale era Ettore?

    Allora questo tanto esaltato aristos achaion, che è avvantaggiato dall’essere figlio di una dea e dall’aver ricevuto armi speciali, non è poi tanto straordinario anche se poi si redime ritrovando la pietà per restituire al vecchio Priamo il corpo straziato di Ettore. E il grande protagonista è invece l’umile Patroclo che ha tutte le doti di umanità e generosità che mancano al migliore dei greci.



mercoledì 13 aprile 2022

Alessandro Robecchi, “Una piccola questione di cuore” ed. 2022

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia

                                             cento sfumature di giallo


Alessandro Robecchi, “Una piccola questione di cuore”

Ed. Sellerio, pagg. 368, Euro 15,00

    Sembra una piccola questione di cuore, all’inizio, quando il giovane studente universitario Stefano Dessì si rivolge alla Sistemi Integrati, l’agenzia investigativa fondata da Carlo Monterossi con la collaborazione di Oscar Falcone e l’ex- poliziotta Agatina Cirriello. Ventitre anni, casa dalla parti di Porta Romana, padre avvocato affermato, consulente di ministeri e di aziende. Denuncia la scomparsa della sua ‘donna’- badare bene, non della sua ‘ragazza’. Lei ha trentanove anni ed è di origine rumena, si chiama Ana Petrescu, ha la cittadinanza italiana grazie ad un marito sposato giovanissima e poi abbandonato, gestisce tre negozi di estetista. Si amano e lei è scomparsa. Non può essere che sia scappata da lui, per dare un taglio alla loro relazione? Proprio no, non capiscono? Loro due si amano. Per davvero. Chiamiamoli la coppia ‘Romeo e Giulietta’.

     Prima di poter iniziare la ricerca di Ana, si deve frugare nella sua vita, nei suoi affari, nella gestione dei negozi, uno dei quali ha subito un furto molto recentemente. Da dove le arrivano tutti quei soldi? In superficie sembra tutto pulito…


    A pochi giorni di distanza dalla denuncia di scomparsa fatta dal giovane Stefano, in un appartamentino affittato a giornata in un grosso complesso di condomini, viene ritrovato il cadavere di un uomo conosciuto nel mondo della finanza, un quarantenne rampante (in seguito spunterà una foto in cui è ritratto insieme ad Ana a qualche ricevimento). Pare un’esecuzione, un colpo di pistola in fronte. E però l’uomo si era appena fatto una dose di eroina. È per quello che affittava un appartamento  a scadenze regolari, quando disponeva di una splendida casa? Morirà anche l’impiegato dell’agenzia immobiliare…E intanto Romeo ritroverà la sua Giulietta e Carlo Monterossi si deve ricredere- forse sì, si amano davvero, forse sì, Ana voleva cambiare vita.

     È un piacere, leggere un romanzo ‘giallo’ di Alessandro Robecchi. Ed è stato un grande piacere ritornare al filone più tipico dei suoi romanzi dopo “Flora”. È un piacere perché la trama è sempre avvincente, possibile, reale. Perché i personaggi piacciono, da Carlo Monterossi ai suoi collaboratori, alla coppia di poliziotti, Ghezzi e Carella, che affiancano- da un certo punto della vicenda- quelli della Sistemi Integrati, alla moglie di Ghezzi, così ‘normale’, ancora così innamorata del marito, all’eterna fidanzata di Monterossi, alla fantastica domestica tuttofare e splendida cuoca Katrina. Perché lo stile è pulito e di un umorismo elegante. Perché piace anche la Milano che fa da sfondo alle vicende, una città con tutti i suoi contrasti, la Milano sfolgorante e super ricca e quella dei piccoli bar di periferia, dei giri di droga di lusso e degli studenti impegnati, delle abitazioni eleganti e degli squallidi condomini dove si fa fatica ad arrivare a fine mese.


    C’è qualcos’altro ancora in questo romanzo, e il titolo è un indizio. Lo spettacolo televisivo ideato da Carlo Monterossi si intitola “Crazy Love” e Carlo, a distanza di tempo dall’enorme successo, ne è nauseato. Gli ripugna la strumentalizzazione che la presentatrice Flora ha fatto dei sentimenti, è disgustato dalla mercificazione delle vicende umane, prova una profonda irritazione alla trionfante esclamazione conclusiva ‘anche questo fa fare l’amore’. Eppure, eppure c’è ancora qualcosa di vero in quella sua trovata geniale. Eppure quelle parole ‘anche questo fa fare l’amore’ si potrebbero applicare alla storia di Romeo e Giulietta di cui si sono occupati e che finirà tragicamente, proprio come quella dei personaggi scespiriani. Pensa all’amore, Carlo Monterossi. L’uomo cinico che aveva guardato con un poco di compassione il ragazzo che credeva possibile che una donna più grande di lui- e con quel passato- fosse capace di vero amore, si deve ricredere. Ah, la potenza dell’amore! Pare incredibile, ma c’è sempre tempo per cambiare. L’aver visto una donna e un ragazzo che si lanciano l’una nelle braccia di un altro su un prato, cambia la visione del mondo di Carlo Monterossi, gli fa rivalutare il sentimento, gli fa scorgere tracce di amore dove prima non avrebbe notato. E, di per contro alla tragedia che ha dato il ‘la’ a tutto, fiorisce l’insospettato amore di Carella, si sposa un altro agente di polizia, e Carlo e l’eterna fidanzata chissà…

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domenica 10 aprile 2022

Abdulrazak Gurnah, “Paradiso” ed. 2022

                                                     Voci da mondi diversi. Africa

         premio Nobel

     romanzo di formazione

Abdulrazak Gurnah, “Paradiso”

Ed. La Nave di Teseo, trad. A. Pezzotta, pagg. 368, Euro 19,00

   Inizi del secolo scorso nell’Africa orientale contesa tra colonizzatori inglesi e tedeschi.

    Yusuf ha dodici anni quando viene venduto dal padre al mercante Aziz che il ragazzo aveva finora ammirato e chiamato ‘zio’. Imparerà a chiamarlo ‘sayid’, padrone, e sarà Khalil a insegnarglielo, anche lui venduto ad Aziz anni prima. Era questa la tecnica del mercante- abbindolare qualcuno con speranze di grandi guadagni, prestargli dei soldi che poi non avrebbero potuto essere restituiti e prendersi in cambio qualche figlio (se poi c’era una ragazzina da prendere in pegno, tanto meglio. Era successo così alla sorella di Khalil quando aveva solo sette anni). Khalil diventerà una sorta di fratello maggiore, un amico per Yusuf che si accorgerà a poco a poco e con rammarico di non ricordare più né le fattezze del volto dei genitori né la loro voce.

     “Paradiso”, di Abdulrazak Gurnah, è un romanzo diverso da quelli che abbiamo già letto dello scrittore vincitore del premio Nobel 2021. Non è più centrato sul tema dell’estraniamento dell’uomo di colore che dall’Africa arriva in un paese europeo, è un romanzo di formazione e, nello stesso tempo, anche un romanzo di avventura. E il Paradiso del titolo è sia il giardino della dimora di Aziz, sia l’Africa stessa prima che la sua cultura originaria e il suo ambiente naturale venissero stravolti dai colonizzatori.


    Yusuf è incantato dal giardino di Aziz, ogni volta che può si introduce oltre i cancelli anche se non ne ha il permesso, diventa amico del vecchio giardiniere che gli insegna i rudimenti della cura delle piante, ammira gli specchietti appesi ai rami che riflettono barbagli di sole, si inebria dei profumi, si chiede quale sia il mistero nascosto dietro le finestre schermate della grande casa. Si dice che dentro quelle mura viva una Signora pazza

    Viene il momento in cui il mercante decide che sia meglio allontanare Yusuf ed inizia il viaggio del ragazzino verso l’interno con una spedizione del cui fine lui non sa nulla, non sa di preciso che cosa venga trasportato e quale sia la meta finale. Si trova insieme a uomini che a volte si prendono gioco di lui, da cui a volte si deve difendere, che spesso lo guardano con sguardi lascivi. Perché- viene spesso ripetuto che Yusuf è un bel ragazzo, lo ammirano sia le donne sia gli uomini.


       La spedizione si addentra in zone selvagge, tra una vegetazione lussureggiante, sfidando zanzare dalla puntura mortale, acque putride, malattie, incontri con tribù che esigono tributi per lasciarli passare e con europei che spadroneggiano e che stupiscono il ragazzo con la loro pelle bianca. Sono loro il serpente che si annida nel Giardino dell’Eden?

      Oppure il serpente della tentazione si nasconde nel giardino con gli alberi con gli specchietti, dove Yusuf scopre, al suo ritorno, vivono due donne, una più anziana che si incapriccia di lui e una più giovane di cui lui si innamora…ma sono entrambe mogli di Aziz.

    Il fascino del romanzo è soprattutto nelle pagine (la maggior parte del libro) in cui gli uomini di Aziz si addentrano in quello che sembra ‘il cuore di tenebra’ di Conrad e il viaggio assume una dimensione duplice, come in tutti i romanzi di crescita. Sono pagine che aiutano anche noi a scoprire un continente. Ma proseguiamo la lettura aspettando sempre che il romanzo ‘prenda il volo’, il che non accade ed il finale ci pare scontato e un poco deludente.

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sabato 9 aprile 2022

Keyi Sheng, “Crescita selvaggia” ed. 2022

                                                           Voci da mondi diversi. Cina

               saga

Keyi Sheng, “Crescita selvaggia”

Ed. Fazi, trad. F. Picerni, pagg. 350, Euro 18,50

       Siamo come frutta selvatica che cade a terra da un albero, dice uno dei protagonisti del libro “Crescita selvaggia” della scrittrice cinese Keyi Sheng ( è “Wild fruit” il titolo dell’edizione inglese). E c’è un’idea di tragico destino in questi frutti che non saranno raccolti né consumati, proprio come è in realtà tragico il destino della famiglia Li.

     Il vecchio Li, il nonno, compirà cento anni alla fine della narrazione, la storia della sua famiglia copre quindi quasi un secolo. Quattro figli- la maggiore si sposa per sfuggire al padre (in realtà nessuno lo ama in famiglia), la minore, Xiaohan, diventerà giornalista ed è la voce narrante, dei due figli maschi, uno viene arrestato e mandato in un campo di rieducazione (non stava facendo assolutamente nulla, si stava divertendo con degli amici), l’altro, studente universitario a Pechino, viene ucciso durante la manifestazione in piazza Tiennanmen e solo le sue ceneri fanno ritorno a casa.


    La famiglia Li vive in un villaggio dello Hunan, provincia montuosa nella Cina Meridionale dove è nato Mao Zedong e dove è nata anche la stessa scrittrice. La voce della Storia arriva ovattata, circolano dicerie sulla durezza dei campi di rieducazione (i Li se ne renderanno conto quando il figlio ritorna, spezzato nel corpo e nello spirito), nessuno sa niente della protesta degli studenti in piazza Tiennanmen, l’unica protesta che un membro della famiglia porterà avanti sarà quella contro il controllo delle nascite. La figlia maggiore non intende smettere di procreare dopo ave avuto due figlie femmine e cerca di tenere nascosta la terza gravidanza, soprattutto dopo aver saputo che è incinta dell’agognato maschietto. Ma non c’è niente da fare perché non riescono a raccogliere abbastanza soldi per pagare la multa esosa che gli è stata richiesta.


    La narrazione procede mettendo a fuoco un personaggio per volta, seguendo le vicende dei Li (il figlio che porterà per sempre il marchio ‘rieducato’ si sposa con una donna molto ambiziosa il cui scopo nella vita è guadagnare abbastanza soldi per far studiare all’estero l’unica figlia) e dei Liu (è questo il nuovo cognome di Chutan e naturalmente delle due figlie).

Conducono tutti delle tristi esistenze, i Li e i Liu, sia nel villaggio, sia quando si trasferiscono a Pechino. Vite fatte di lavoro, lavoro, lavoro. Il figlio ‘rieducato’, la cui salute non gli permette di fare lavori pesanti, si adatta a pescare rane per venderle, si ammalerà gravemente, non riuscirà a fare neppure più quello. Sua moglie, sarta provetta, si abbasserà ad offrire prestazioni sessuali pur di raggranellare soldi, guadagnandosi il disprezzo della figlia che rifiuta di studiare grazie a quel denaro sporco. Chutan e il marito vedranno finire molto male l’iniziativa di vendere spiedini, per non dire della tragica fine di una delle figlie a cui è impossibile rassegnarsi.


    Keyi Sheng dipinge per noi un vasto affresco della Cina anche se sentiamo la mancanza di riferimenti storici più precisi, mancanza giustificata dall’ignoranza dei protagonisti che subiscono tutto quello che accade intorno a loro senza quasi rendersene conto, senza reagire, abituati ad una disciplina di obbedienza, che passano, con minima consapevolezza, dal regime socialista di Mao ad una nuova era di consumismo in cui cercano di inserirsi con scarso successo. L’unica che riesce a fare un salto in avanti è proprio la narratrice diventata giornalista che vede con disappunto lo spreco di intelligenza delle nipoti e non riesce ad evitare le tristissime svolte tragiche finali.

   Un albero genealogico ad inizio del libro aiuta a distinguere ‘chi è chi’ di queste due famiglie con cognomi così simili e con nomi che fatichiamo a memorizzare.