Casa Nostra. Qui Italia
seconda guerra mondiale
il libro ritrovato
Boris Pahor, “Necropoli”
Ed. Fazi, trad. Ezio Martin,
pagg. 263, Euro 16,00
Non saprei dire se è un bene o un male che un libro dell’importanza e
del valore di “Necropoli” di Boris Pahor ci giunga finalmente nella traduzione,
quarant’anni dopo essere stato scritto in sloveno. Un male perché sentiamo che
mancava qualcosa alla nostra conoscenza di quanto è accaduto durante la seconda
guerra mondiale, perché non abbiamo tributato tutto l’onore e il rispetto
dovuto ad un sopravvissuto, un bene perché è un libro che risveglia la nostra
memoria e le nostre coscienze, riproponendoci l’orrore di quanto dovremmo
impegnarci con tutte le nostre forze affinché non accada mai più.
Boris Pahor è nato nel 1913 a Trieste, quando la
città era ancora sotto il dominio austro-ungarico. Laureato in Lettere
all’Università di Padova, fu arruolato nell’esercito e mandato a combattere in
Libia nel 1940. Dopo l’armistizio dell’8 settembre si unì ai partigiani sloveni
che operavano nella Venezia Giulia, fu arrestato e deportato nel campo di
concentramento di Natzweiler-Struthof prima, a Dachau e Bergen Belsen poi.
Riuscì a sopravvivere a questa tremenda esperienza perché fu impiegato come
infermiere nel Revier dei campi.
Sopravvivere: un verbo che non è adeguato per nessuno come per chi era ancora
vivo al momento della liberazione, che si aggrappava ad un filo di vita pur
domandandosi se valeva la pena di continuare ad essere, in un mondo che aveva
permesso che accadesse quanto era accaduto. E se era una colpa il fatto stesso
di essere un sopravvissuto, se il respiro del vivente aveva significato che un
altro morisse in sua vece.
C’è un episodio che Boris Pahor ricorda con strazio-
nei primi tempi del suo internato aveva scambiato delle sigarette con un pezzo
di pane. Ecco, se avesse regalato le sigarette all’altro prigioniero senza portargli
via il pane, forse questi sarebbe vissuto. Almeno qualche giorno in più. Ad
ogni pagina, ad ogni riga del libro di Pahor viene da chiedersi ‘se questo è un
uomo’ e monta in noi la pena e la compassione per gli internati dei campi,
l’orrore per le scene quotidiane, il tremendo lavoro nella cava, quel salire i
gradoni con il carico di massi, rotolare giù, accasciarsi, subire le percosse.
La fame divorante, il gelo da cui era impossibile trovare riparo. L’abbrutimento
del dover defecare stando in piedi, perché manca la forza di accoccolarsi. E le
malattie di cui Boris Pahor è testimone e che cerca, con i miseri mezzi che ha
a disposizione, di alleviare. Diarrea e tubercolosi, tifo e flemmoni. Ferite
infette e chissà che altro.
memoriale del campo di Natzweiler- Struthof |
Grazie!fondamentale LEGGERE E FAR CONOSCERE!BUON CAMMINO
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