martedì 30 settembre 2014

Roberto Riccardi, "Venga pure la fine" ed. 2013

                                                          Casa Nostra. Qui Italia
guerra dei Balcani
cento sfumature di giallo


Roberto Riccardi, “Venga pure la fine”
Ed. e/o, pagg. 231, Euro 16,50


    La frase arriva secca come una fucilata. Le parole risuonano nell’aria e vi ristagnano insieme all’odore marcio della sconfitta.
  Non c’è altro da aggiungere. I preparativi sono condotti in fretta, la popolazione è allertata. Poi vengono le proteste, le minacce, la paura. Infine la colonna dei mezzi varca i cancelli col suo carico di donne, vecchi e bambini. Srebrenica adesso è un paese di maschi.
   Gli adulti- fra loro anche ragazzi di quattordici anni- restano tutti insieme ad aspettare il destino. Non sarà benigno, è la sola certezza che hanno.

     Bosnia-Erzegovina, 1995. Un gruppetto di resistenti braccati dai serbi in un bosco. Una scena di violenza: una donna- è bella, è musulmana- viene stuprata dal colonnello Dragojević che poi le spara un colpo in testa.
    “Un altro tempo, un altro luogo. Neanche troppo lontano”, Alba in Piemonte. Il tenente dei carabinieri Rocco Liguori riceve l’ordine di recarsi all’Aja dove è stato istituito un tribunale internazionale per i crimini di guerra. E’ successo qualcosa per cui la sua presenza è necessaria. Milan Dragojević, ‘uno dei peggiori bastardi mai apparsi sulla terra’, il macellaio di Gračanica incriminato per la strage di Srebrenica, giace in coma nell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverato per depressione. Pare abbia inghiottito una massiccia dose di farmaci- ma si tratta veramente di un suicidio? Liguori conosce bene Dragojević: nel 1995, giovanissimo e destinato a fare carriera, aveva avuto un ruolo determinante nella cattura del fantomatico Dragojević. Di più. In seguito aveva accettato un accordo insolito con il criminale prigioniero: avrebbe risposto alle sue lettere- era quello che Dragojević aveva chiesto esplicitamente. E suo malgrado si era sviluppata in lui una sorta di dipendenza da quello scambio di missive in cui esponevano la loro opinione sui libri e sugli argomenti di discussione che questi proponevano- la ciclicità immutabile della Storia, la natura del crimine e la sottile linea che separa il criminale occulto da quello manifesto. Circa due anni prima, tuttavia, senza un motivo preciso, Rocco aveva interrotto quella corrispondenza. Poteva essere stata la causa scatenante della depressione di Dragojević?
   “Venga pure la fine” è un bel libro che mescola la Storia della sanguinosa guerra dei Balcani con una singolare caccia all’assassino- è un criminale di guerra- e ad un’altrettanto singolare indagine di tipo poliziesco per appurare se Dragojević abbia voluto uccidersi o se invece qualcun altro abbia fatto il tentativo, per vendetta o per chiudergli la bocca per sempre o per anticipare il verdetto di una giustizia incerta. La trama del libro e i quesiti che pone sono, però, più di questa breve sintesi. La guerra è un terreno minato, l’etica di guerra fa a pugni con il senso morale che dovrebbe essere innato nell’uomo, il confrontarsi quotidiano con la morte porta a dimenticare i limiti, fino a dove ci si possa spingere per obbedienza, fino a dove si possa arrivare per fare giustizia. Dragojević è un criminale, questo è certo. Chi altro c’è, però, dietro di lui? chi lo ha mandato avanti ad eseguire la parte sporca della ‘pulizia etnica’? c’è qualcuno senza colpe, in guerra? perfino la Croce Rossa che riveste il manto dell’equità- è giusto fornire medicine per salvare la vita dei criminali?

   In un alternarsi di passato e presente il racconto procede veloce, con un linguaggio che ha, allo stesso tempo, del quotidiano e del raffinato, che, in poche parole, riesce a tracciare un quadro della Storia in Bosnia e, contemporaneamente, della storia di Rocco Liguori per cui quel viaggio ‘nel cuore di tenebra’ è un percorso di crescita. Incontrerà molte persone, Rocco, nel viaggio in cui scopre anche la bellezza selvaggia del luogo- il simpatico autista per metà italiano e per metà inglese che lo chiama marshallo e gli organizza incontri amorosi, il capitano del corpo d’élite del Regno Unito, l’affascinante Jacqueline della Croce Rossa, ragazze e ragazzi bosniaci con cui va a bere pivo e a mangiare ćevapčići (birra e hamburger) parlando di Ivo Andrić- e ritroverà, a sorpresa, alcune di queste all’Aja, troppo vicino a Dragojević. “La Bosnia fra i miei pensieri, nelle pieghe dell’anima”, ricorderà più tardi, quando pensa di essersi lasciato la guerra alle spalle ed è chiamato invece all’Aja. La morte semina morte- è un caso che, mentre Dragojević forse sta morendo, altri due criminali di guerra abbiano incontrato una morte dall’apparenza accidentale? Tutti con complesso di colpa ritardato?
   Sotto la veste di romanzo di genere Roberto Riccardi ha scritto un libro bello e di grande significato ed è proprio un caso che la sua pubblicazione coincida con la notizia (1 novembre 2013) del ritrovamento della più grande tomba di massa in Bosnia, a Tomasica- più di trecento corpi, uomini e donne appartenenti all’etnia bosniaco-croata uccisi nel 1992.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


  

lunedì 29 settembre 2014

Gaute Heivoll, "Prima del fuoco" ed. 2014

                                                                vento del Nord
       fresco di lettura


Gaute Heivoll, “Prima del fuoco”
Ed. Marsilio, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg.264, Euro 18,50
    

Fu allora che lo vide. Per lo spazio di due secondi, forse tre. Era in piedi come un’ombra nera proprio davanti alla finestra, al di là del mare di fiamme. Sembrava inchiodato al suolo. Come lei, del resto. Poi si riscosse e scomparve.

    Finsland, estremo sud della Norvegia. La notte del 5 giugno 1978 qualcuno appiccò il fuoco alla casa di Olav e Johanna Vatneli. Lei, la vecchia Johanna, era ancora alzata. Aveva visto un’automobile scura passare a fari spenti in strada. Poi l’aveva vista ritornare e fermarsi. La portiera sbattuta. E poi, in un baleno, l’odore di benzina e il muro di fiamme davanti a lei.
Il romanzo “Prima del fuoco” di Gaute Heivoll inizia con questa scena, con due vecchi affranti che in un attimo hanno perso tutto, perfino le dentiere. Ma la storia che lo scrittore vuole raccontare non è solo quella di questo incendio, ma della decina di incendi che scoppiarono in quell’area molto delimitata nell’arco di tempo di un mese, tra maggio e giugno del 1978, quando lui, Gaute Heivoll, aveva due mesi. Quasi che, in un certo qual modo, toccassero anche lui per averli vissuti senza averne consapevolezza, per aver respirato l’aria di tensione che si era creata nel circondario quando, dopo il primo, il secondo, il terzo incendio, ci si era dovuti arrendere all’evidenza che non poteva essere una fatalità, che c’era un piromane che non si sarebbe fermato se non fosse stato scoperto. La vecchia Johanna aveva scostato la tendina della finestra sentendo il fruscio dell’auto perché tutti erano all’erta, tutti temevano di sentire l’ululato della sirena dei pompieri in quello che ormai era un rituale fisso: le fiamme in un casolare o un fienile, ci mettono niente a divampare con le costruzioni di legno norvegesi, la sirena, l’autopompa che arriva, la lotta inutile, le ceneri, la distruzione. Gaute Heivoll ha sentito molte volte raccontare degli incendi, sa chi è stato il piromane e anche noi lettori lo sappiamo subito: si trattava di Dag, figlio unico del capo dei pompieri, Ingemann.


“Prima del fuoco” non è un thriller, anche se c’è una caccia al colpevole, e la tensione che vibra nelle pagine non è quella della curiosità di scoprirne l’identità, piuttosto quella di seguire le mosse di Dag, accompagnandolo nei suoi giri in macchina alla ricerca di un nuovo obiettivo, sperando che venga fermato. Perché c’è un crescendo di intensità nella furia incendiaria di Dag, un incalzare di eventi che sembra seguire la velocità del fuoco una volta che Dag ha scagliato il fiammifero, e, insieme, aumenta anche la nostra inquietudine per lo sdoppiamento che proviamo, in quanto lettori che sanno, a fianco della piccola comunità che si indaga, non riuscendo ad accettare che un folle possa essere tra di loro, accanto al padre di Dag, che si è sempre vantato del figlio che lo aiutava fin da bambino, accanto a quella povera madre che è la prima a sospettare di lui, perché una mamma ‘sa’, avverte cambiamenti di umore, fiuta odori diversi dal solito, sulle mani, sui capelli di quello che era stato un figlio molto desiderato e molto amato.
    Sono due, però, le narrative nel romanzo di Gaute Heivoll che potrebbe definirsi romanzo di inchiesta e romanzo autobiografico. Mentre da una parte lo scrittore ricostruisce la vita di Dag, da scolaro eccellente ad alunno mediocre, dall’esperienza di soldato sul confine russo all’improvviso ritorno a casa chiuso nel silenzio, dall’altra Heivoll ricostruisce anche la sua, di vita, raccontando una scelta universitaria abbandonata per dedicarsi alla scrittura, la morte del padre a cui lui aveva mentito. E’ come se ci fosse una doppia inchiesta nel romanzo- quella sugli incendi del 1978 ed un’altra su due uomini le cui vite si sono sfiorate: che cosa porta a scegliere un sentiero piuttosto di un altro? Quanto incide l’ambiente familiare? e le normali frustrazioni della mancanza di un successo sperato? la solitudine? le aspettative dei genitori?

   Le due narrative si alternano, Dag e Gaute sono i due protagonisti del romanzo. E tuttavia, la prima, la storia del piromane è di gran lunga più avvincente, quasi stregante, di quella autobiografica che ci sembra essere un po’ forzatamente intrecciata all’altra.


domenica 28 settembre 2014

Edmund de Waal, "Un'eredità di avorio e ambra" ed. 2011

                                                        il libro ritrovato



Edmund de Waal, “Un’eredità d’avorio e ambra”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. Carlo Prosperi, pagg. 388, Euro 18,00

     Netsuke: è una piccola scultura di manifattura giapponese in avorio, o ambra, o legno pregiato. E’ un oggetto da collezione, anche se all’origine, nel XV secolo, aveva la funzione di tenere fissato alla cintura del kimono il cordoncino da cui pendeva un portamonete, o un porta medicine.
Edmund de Waal, l’autore di “Un’eredità di avorio e ambra”, si è ritrovato ad essere il proprietario di 264 netsuke alla morte dello zio Iggie. Lui, meglio di chiunque in quanto ceramista, è in grado di apprezzarne la bellezza squisita, la perfezione artistica e il valore. Valore non solo in quanto oggetti preziosi ma anche- e ad un certo punto soprattutto- in quanto oggetti che hanno condiviso la storia della sua famiglia per quasi un secolo e mezzo.
Sono i netsuke che spingono Edmund de Waal sul sentiero del passato, e non potrebbe essere diversamente, essendo loro stessi voci silenti di un passato ancora più lontano nel tempo e nello spazio. Tutto nasce, forse, da una prima domanda: come sono arrivati questi oggetti in mano al loro primo proprietario, Charles Ephrussi, cugino del bisnonno dello scrittore, Viktor Ephrussi? La storia inizia a Parigi, dunque, negli anni ‘70 dell’800, dove Charles Ephrussi è arrivato da Odessa dove, a sua volta, suo padre e suo zio erano arrivati da Berdicev, la cittadina ucraina che diede i natali a Joseph Conrad e a Vassilij Grossman. Erano commercianti di grano, gli Ephrussi, divenuti poi banchieri. Enormemente ricchi, ebrei non praticanti che frequentavano- ovunque vivessero, Odessa, Parigi, Vienna, San Pietroburgo- la migliore società, citati, o presi a modello, nella Recherche di Proust e nei romanzi di Joseph Roth.
  
Odessa
Nella prefazione lo scrittore dice di non volersi lasciare invischiare nelle dinamiche della saga d’altri tempi e scrivere un’elegia della perdita “in salsa mitteleuropea”. E infatti non lo fa. Tuttavia, alla fine, si ritrova a dubitare, “non so più se questo libro parli della mia famiglia, della memoria, di me, o se sia ancora un libro su certi oggettini giapponesi”. Il libro è tutto questo, in realtà. I netsuke sono il filo conduttore che conduce lo scrittore da Parigi a Vienna e poi in Cecoslovacchia, in Inghilterra, a Tokyo e a Odessa per finire a Londra, attuale dimora dei netsuke nella casa dello stesso Edmund de Waal. Sono i netsuke a dettare lo stile, accurato, raffinato, minuzioso senza essere pedante. E, con la stessa precisione con cui si distinguono le fattezze del minuscolo monaco che si nasconde sotto una campana o quelle della tigre o della lepre con gli occhi d’ambra che dà il titolo originale al romanzo, balzano fuori dalle pagine personaggi e ambienti, ‘ritrovati’ dallo scrittore nelle fotografie, nelle lettere, nelle testimonianze di altri. Charles, il dandy parigino, Viktor che non era nato per fare il banchiere ma aveva preso il posto del fratello (fuggito con l’amante del padre), sua moglie Emmy dai molti amanti, la studiosa Elisabeth (nonna dello scrittore), lo zio Iggie che avrebbe riportato i netsuke in Giappone (dove aveva trovato il compagno della sua vita), la poltrona gialla di Charles (citata da Jules Laforgue) e il mobile-vetrina con i netsuke, gli abiti e le pettinature. Ma anche la Storia con l’imperatore Franz Josef e Hitler, la prima e la seconda guerra mondiale, la notte dei cristalli e l’angoscioso dilemma se partire o restare. Finché la decisione si era imposta da sola, quando gli Ephrussi ormai erano stati spossessati di tutto.   

     Non è un romanzo sulla perdita, quello di de Waal. Piuttosto sulla scomparsa di un mondo- che è poi anche una perdita. E tuttavia quello che si è gloriosamente salvato, quello che ci è giunto attraverso le peripezie di una famiglia (che sono quelle del popolo ebraico), la straordinaria collezione di netsuke, ci parla di altro, di una ferrea volontà di sopravvivere e di ricominciare. Di tramandare e di non dimenticare.

     Questo è un libro prezioso, tanto quanto i netsuke. Questo libro è un netsuke.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


sabato 27 settembre 2014

E.L. Doctorow, "La marcia" ed. 2007

                                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                           il libro ritrovato
                                           la Storia nel romanzo

             

E. L. Doctorow, “La marcia”
Ed. Mondadori, trad. Vincenzo Mantovani, pagg. 365, Euro 18,00

Il 23 dicembre 1864 il generale Sherman conquistava Savannah, in Georgia: era quasi la fine di quella “marcia al mare” che era iniziata ad Atlanta, messa a ferro e fuoco in novembre, quasi la fine della guerra civile che sarebbe rimasta per sempre la cicatrice dell’America. Il romanzo è il racconto delle sessanta miglia di marcia, protagonisti uomini del Sud e del Nord, schiavi, uomini e donne liberi, soldati. Ma soprattutto la guerra con tutta la sua inesorabile crudeltà.

INTERVISTA A EDGAR L. DOCTOROW, autore de “La marcia”

    “guerra! ecco una razza armata ecco ora avanza! benvenuta/ la lotta, nessuno si rifiuta;/ guerra! per settimane, mesi, anni, ecco una razza armata avanza e le va incontro.”
Era il 1861 quando Walt Whitman, il bardo d’America, scriveva questi versi. Quattro anni più tardi il tono sarebbe cambiato, dopo la carneficina, le distruzioni, gli incendi, dopo l’assassinio di Lincoln, “bara che passi per strade e sentieri,/ di giorno, di notte, una gran nube oscura la terra,”- e in quella bara c’era non solo il corpo del presidente morto ma anche i cadaveri delle vittime della guerra fratricida e l’innocenza stessa dell’America.
“La marcia” di E.L. Doctorow è il romanzo degli ultimi mesi di guerra, dall’autunno del 1864 alla primavera del 1865. Inizia con una fuga precipitosa, in uno scenario che ricorda le pagine di “Via col vento”: masserizie caricate sui carri, neri schierati ai piedi della scalinata, colonne bianche di una casa del Sud sullo sfondo, senso di incredulità davanti a quanto sta accadendo. E una nube che rosseggia, il terreno che manda vibrazioni sotto i piedi dei 60.000 uomini del generale Sherman che avanza. “Arrivano, sono in marcia. E’ un esercito di cani arrabbiati comandati da questo apostata…”
   Non c’è un personaggio principale nel romanzo di Doctorow: la guerra è la protagonista. Guerra insieme alla sua sorella Morte. Dentro la guerra si muovono delle persone, militari e civili, tutti del Sud questi ultimi, soprattutto soldati e generali dell’Unione i primi. Anche se poi- e questo è uno dei temi del romanzo, a sottolineare la crudeltà peculiare di una guerra civile- c’è chi cambia schieramento, chi riveste i panni dell’altra parte: ci sono cittadini del Sud che simpatizzano con l’Unione, soldati che scambiano la propria divisa con quella di un morto per salvarsi la pelle. Ci sono “i grigi” e ci sono “i blu”, secondo il colore dell’uniforme, ma c’è differenza nell’uomo nudo che è sotto quei panni e che finisce sotto i ferri del dottor Sartorius nell’ospedale da campo? E’ possibile distinguere se appartengano a soldati confederati o unionisti le membra amputate che si accumulano fuori della tenda ospedale? Non a caso si chiama Sartorius il medico di origine tedesca che vede nella guerra- con i suoi occhi colore del ghiaccio- una splendida opportunità di esercizio clinico. Sartorius che taglia gambe e braccia come il sarto taglia i tessuti. Un filone, questo degli abiti, che ritorna in due personaggi voltagabbana, Arly e Will, in prigione perché disertori, poi tra le fila degli unionisti, sempre fiutando il vento, nel caso sia necessario rivestire nuovamente la divisa confederata. Arly farà un cambiamento d’abito finale, quando prenderà persino il nome del fotografo incontrato per caso e morto d’infarto. Per poi, sfruttando un mestiere non suo, attentare alla vita del generale Sherman.  
Generale Sherman
      Non era un’impresa facile quella di Doctorow, di accostare nella sua narrazione uomini consegnati alla Storia e personaggi fittizi. Per questi ultimi Doctorow sceglie un campionario vario, per lo più femminile- la madre che impazzisce dal dolore, la donna non giovanissima che si innamora del dottor Sartorius e lo segue come infermiera, la schiava dalla pelle bianca che si traveste- ancora il tema degli abiti- da tamburino per unirsi alle giubbe blu in marcia e poi indosserà la mantellina da infermiera. La nera bianca si chiama Pearl, figlia illegittima del padrone della piantagione, e a noi viene in mente la più famosa figlia illegittima della letteratura americana, la Pearl de “La lettera scarlatta”, mentre nella domanda di Sherman afflitto dal ricordo della morte del figlio, “dov’è il mio tamburino?”, c’è un’eco della domanda di re Lear nel fragore delle dispute, “dov’è il mio buffone?”.
Doctorow cerca di non attribuire parole ai personaggi reali del romanzo- di Sherman troviamo la frase famosa del messaggio inviato a Lincoln, “è un onore presentarvi come dono natalizio la città di Savannah”, ma in genere seguiamo i suoi pensieri che sono quelli del militare stratega che, pur rammaricandosi dell’incendio di Columbia, pensa “così il Sud è stato punito”, dell’uomo ambizioso che vince la paura della morte confidando nell’immortalità che la Storia può conferirgli e che tuttavia, colpito nell’intimo dalla morte di un altro suo figlio, chiede con angoscia blasfema, “Oh, Signore, sei forse invidioso anche tu?”.

Abramo Lincoln non poteva essere il grande assente in un romanzo sulla guerra civile americana e Doctorow evita il rischio di un’immagine di cartapesta facendolo apparire in una brevissima scena finale- un uomo di cui Sartorius nota “la bellezza sgradevole”, terribilmente invecchiato da quei quattro anni di guerra, l’ombra di quello che era.
     A libro terminato quello che resta nel lettore è il quadro della guerra come lo vede il personaggio “esterno” alla vicenda, il giornalista inglese Pryce. Non la guerra come avventura e neppure la guerra per una grande causa, ma guerra “allo stato puro, un massiccio e irragionevole furore privo di ogni causa, ideale o principio morale”. Un’ecatombe che solo l’uomo di guerra Sherman può considerare in altra maniera, quando rimpiange la fine della marcia: “penso a lei con nostalgia, non per il sangue e la morte di cui è stata causa, ma per il significato che ha elargito alla terra che abbiamo calpestato”. E quando, nella scena in chiusura del romanzo, Pearl e il giovane Stephen escono dal bosco a rivedere il sole, sono come Dante e Virgilio che risalgono dall’Inferno “a riveder le stelle”.
Stilos ha intervistato Edgar L. Doctorow, che è nato a New York nel 1931 ed è diventato famoso nel 1975 con il romanzo “Ragtime”.

Nel suo romanzo viene detto che quella che si sta combattendo è una guerra che viene dopo una guerra e che precederà una guerra: è questo il motivo che l’ha spinta a scrivere il libro- la condizione di guerra perenne in cui viviamo?
    Ho iniziato questo libro nel 2003 e in quel momento era l’unico libro che potevo scrivere. Ci avevo pensato per vent’anni, leggevo libri di storia e mi rendevo conto che la guerra civile era stata una guerra sui generis e che sarebbe stata materiale adatto per un romanzo. Gli scrittori hanno sempre molte idee per un romanzo, ma molte di queste idee sarebbe bene non trovassero mai una forma, che restassero lì dove sono, perché non sono buone. E’ necessario che si abbia un senso delle possibilità di quello che si può fare e poi ci sono delle idee che a un certo punto balzano fuori e ti dicono, ‘Questo è il momento.’ Mi capita di provare dei forti sentimenti che non capisco del tutto, mi vengono in mente delle immagini, delle frasi di musica, un’eccitazione mentale non da me richiesta. Guardavo una foto del generale Sherman in piedi davanti ad una tenda insieme ai suoi soldati e in quel momento ho avuto la netta sensazione che dovevo iniziare a scrivere: il libro si è proposto a me.

I confederati vengono sempre chiamati “i ribelli”: il punto del vista nel romanzo è quello dei nordisti? perché è la questione dei terroristi che, visti dall’altra parte, possono essere dei patrioti…

    Sono sempre gli unionisti a chiamare i confederati “i ribelli” Entrambe le parti avevano molti nomi gli uni per gli altri. I confederati chiamavano gli unionisti “gli invasori”. Il Sud credeva di combattere per la libertà: il fatto che avessero gli schiavi non sembrava loro affatto contraddittorio e neppure ironico. Il Nord lottava per mantenere l’Unione e per liberare gli schiavi.

Quindi la liberazione degli schiavi era un obiettivo secondario?
    Sì, il partito abolizionista era a sinistra di Lincoln. Lincoln, all’inizio, non era affatto per l’abolizione della schiavitù, quello che lui pensava era offrire ai neri un passaggio di ritorno in Africa. Lincoln arrivò gradualmente all’abolizionismo e ci arrivò come manovra tattica per la guerra. Gli sembrava che creasse un’autorità morale che gettava un’ombra sui confederati, e forse era anche sua intenzione coinvolgere i neri in una guerra di resistenza. In un secondo tempo ebbe coscienza che la schiavitù è un Male e che il Presidente degli Stati Uniti è la persona che deve denunciarlo.

Fatta eccezione per Pearl, la nera bianca, non ci sono quasi personaggi neri nel romanzo. Spesso si parla di loro come di un peso: ci sono stati dei neri che hanno combattuto ufficialmente a fianco dell’Unione?

    C’erano delle truppe di neri ma non erano con il generale Sherman. Sherman era un razzista, pensava che i neri fossero un impedimento per l’esercito. Quando gli fu chiesto perché non impiegasse i neri come soldati ma solo come inservienti, disse che non pensava potessero essere utili come combattenti. Sherman non aveva alcuna considerazione per le loro capacità. Il motivo per cui Sherman combatteva era perché considerava i confederati come dei traditori: non gli importava nulla se avessero o no degli schiavi.

Quando il romanzo ha iniziato a prendere forma nella sua mente, come ha deciso a quali personaggi avrebbe dato vita?
     Non è stata una scelta consapevole, è difficile da far capire, ma ogni personaggio mi è apparso nella sua interezza, con tutti i dettagli al posto giusto. Gli scrittori scrivono perché gli altri spieghino quello che loro scrivono. C’è stata una cosa che mi ha aperto la strada: mi sono trovato a scrivere in terza persona. La maggior parte dei miei libri ha un narratore fittizio che parla con la sua voce- una specie di ventriloquo. Nella prima scena di questo libro ci sono parecchie persone ed è questo che mi ha impegnato ad una voce autoriale di un narratore onnisciente. Una volta che ho stabilito il rapporto con il soggetto ho permesso che mi apparissero i personaggi. Ad un certo punto ho deciso che questo era il mio “romanzo russo”, perché ci sono tanti personaggi che si muovono in un ampio spazio.

Ho osservato che i personaggi che non sono soldati sono principalmente donne: un modo per dare voce alle silenziose co-protagoniste della guerra?
     Sapevo che quello che c’era di diverso in questa campagna militare era che i civili furono portati dentro la guerra. Era stata infranta la separazione tra militari e civili: il motivo era che Sherman aveva dato ordine che i suoi soldati prendessero dalla popolazione del posto quello di cui avevano bisogno. E così i soldati bruciavano le città che facevano resistenza, entravano nelle case, razziavano, seminavano distruzione e le persone che erano state liberate o coloro che avevano perso la loro casa si univano alla marcia. La marcia era l’unica sicurezza: la sicurezza non era più nella terra ma ormai era lì, con i soldati dell’Unione in marcia. E allora le donne dovevano diventare personaggi di rilievo nel romanzo.

Per quello che riguarda i personaggi storici, come ha proceduto per “crearli”, perché non apparissero falsi?
    Per il generale Sherman avevo letto le sue memorie e così attraverso quelle pagine ho sentito la sua voce e poi ho letto altri libri su di lui. Però questo libro è il mio ritratto di lui. Quello dello scrittore è un lavoro come quello del pittore: c’è il soggetto e c’è il quadro e non sono uguali. Sherman era un uomo teso, molto nervoso, soffriva di alti e bassi di umore, di quella che oggi si chiamerebbe sindrome bipolare, era un maniaco depressivo, pare abbia avuto un esaurimento nervoso ad un certo punto. Lo Sherman che io dipingo è la mia impressione su di lui.  
Nella scena in cui Lincoln appare, Lincoln è qualcuno che ha assorbito dentro di sé l’intera tragedia della guerra. Lincoln, inoltre, aveva un aspetto strano: di lui si è detto che aveva il morbo di Marphan, una sindrome diagnosticata molto dopo la sua morte, nel 1895, caratterizzata da un allungamento degli arti, delle dita delle mani prima di tutto. “La marcia”, tuttavia, è un lavoro di immaginazione, non un documentario storico. Penso ai personaggi storici come a persone che non hanno realtà maggiore di quelli fittizi: per me esistono allo stesso livello.


Nel romanzo la fotografia e i fotografi giocano un ruolo importante: è per sottolineare che la guerra civile americana fu la prima guerra documentata su rullino?
    Sì, è stata una guerra molto fotografata, ma se si guardano le fotografie, tutte le persone ritratte sono immobili: i soldati sono in posa o sono morti, non sono mai ripresi in azione, perché ogni scatto richiedeva una lunga esposizione. Mettevano alle persone da fotografare una specie di morsa dietro il collo perché non potessero muoversi. C’è una documentazione fotografica enorme sui luoghi di distruzione. Per esempio ci sono foto di Columbia dopo l’incendio che sembra una città bombardata durante la seconda guerra mondiale. E tuttavia il mio personaggio-fotografo è nato perché ho visto la foto di un carro di un fotografo al seguito dell’armata e mi sono reso conto che i fotografi seguivano le campagne di guerra, avevano persino un certificato di autorizzazione. Qualcuno scatta fotografie e qualcuno scrive romanzi: si fa la stessa cosa, si congela il tempo.

Nel romanzo il generale Sherman cita un paio di volte Shiloh: Shiloh è stata la Waterloo dell’esercito dell’Unione?
     Sì, Shiloh è stata una battaglia devastante, e fu dopo Shiloh che Sherman ebbe un crollo nervoso. Era il momento in cui l’Unione stava perdendo, e anche seriamente.

Leggendo il nome Sartorius pensiamo a Faulkner che usò questo cognome nei suoi romanzi e al cognome tedesco Schneider che vuol dire sarto, da cui deriva: Sartorius è un chirurgo che taglia le persone come il sarto gli abiti, con la stessa calma indifferente?
     Il chirurgo come un tipo di sarto…sì, Sartorius era un personaggio di un mio precedente romanzo, “L’acquedotto di New York”, che si svolgeva dopo la Guerra Civile, in un mondo di boss politici molto corrotti. Sartorius sperimentava nel mantenere in vita dei vecchi ricchi: non faceva qualcosa di moralmente giustificabile, la sua curiosità scientifica lo portava a superare la linea tra Bene e Male. Però aveva avuto una carriera onorevole durante la Guerra Civile. E io avevo un obbligo morale verso di lui: dopo averlo mostrato in luce negativa volevo farlo apparire all’opera in maniera positiva in questo romanzo.

C’è un dettaglio che colpisce perché sottolinea i cambiamenti avvenuti nella tecnologia: la notizia della morte di Lincoln fu tenuta segreta sul luogo della guerra, e fu possibile perché solo il generale e il telegrafista ne erano informati. Tutto sommato, però, è una manipolazione della verità- potrebbe accadere qualcosa del genere ai nostri giorni?
    Sherman sentiva che doveva aspettare a dare la notizia, altrimenti le truppe sarebbero uscite dal suo controllo. E lui voleva impedire questo. Sherman era sprezzante della stampa, per lui i giornalisti erano delle spie, temeva che fossero lì per captare informazioni e passarle al nemico, era paranoico. La morte di un presidente è uno shock incredibile. Quando è morto Kennedy la notizia ha fatto il giro del mondo in un baleno. Naturalmente a Washington tutti sapevano della morte di Lincoln, il teatro era pieno di gente, ma avevano solo il telegrafo per una comunicazione istantanea e quindi la diffusione delle notizie poteva essere controllata. Oggi non sarebbe assolutamente possibile tenere nascosta una notizia del genere.





la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos 


                                                                                                

giovedì 25 settembre 2014

Elizabeth von Arnim, "Una principessa in fuga" ed. 2013

                                                               il libro ritrovato



Elizabeth von Arnim, “Una principessa in fuga”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. Simona Garavelli, pagg. 253, Euro 16,50
        Quando uno scrittore è prolifico, ogni volta che viene pubblicato un suo nuovo libro ci viene sovente da sbuffare, pensando, ‘oh, no, un altro!’. Quando la casa editrice Bollati Boringhieri dà alle stampe un nuovo/vecchio romanzo di Elizabeth von Arnim (e ce ne sono già una ventina in catalogo di questa scrittrice nata nel 1866 e morta nel 1941), invece, proviamo subito un’anticipazione di gioia della lettura. E’ vero che i suoi personaggi femminili si assomigliano tutti un poco, quasi fossero una grande famiglia di sorelle maggiori e minori (e forse assomigliano alla scrittrice stessa), ma non ci stancano mai, sanno rinnovarsi con una grazia incantevole. Si chiamino Rose-Marie, Anna Rose, Anna Felicitas o Priscilla (in questo “Una principessa in fuga”), le sue protagoniste sono giovani donne in anticipo sul loro tempo, insofferenti del ruolo che la convenzione ha cucito loro addosso, refrattarie ad adagiarsi nel modello stabilito di moglie e madre che la società richiede. Sono anticonformiste, dolcemente ribelli, vogliono pensare con la loro testa. Ma sono anche ingenue e totalmente sprovviste di quel minimo di malizia che le renderebbe più agguerrite nei confronti degli altri. Perché ci sono loro, le giovani donne di cui anche il lettore si innamora, e ci sono gli altri, che dapprima sono sconcertati dal loro atteggiamento di una generosità utopistica e poi le sfruttano a proprio vantaggio.
    Priscilla è una principessa ventiduenne, figlia del granduca di Lothen-Kunitz, un piccolo regno non precisato nell’area tedesca. E’ l’unica a non essere ancora sposata, delle tre sorelle. Eppure è la più bella, “d’avorio e ambra”, con la carnagione chiarissima e capelli di rame. Ma è lei che rifiuta tutti i partiti. Quando si presenta l’ennesimo pretendente (molto gradito al padre), Priscilla non si dà neppure la briga di conoscerlo. Aiutata dall’anziano bibliotecario del palazzo- lei lo chiama affettuosamente Fritzi perché è anche un sostituto della figura paterna nonché un precettore-, insieme a lui e ad una cameriera, Priscilla fugge. La meta è un idilliaco paesino nella campagna inglese dove Fritzi acquista, in denaro contante, un cottage su cui si è impuntata Priscilla nella ricerca di una casa.



    I romanzi di Elizabeth von Arnim non sono romanzi ‘rosa’. Sprizzano umorismo e ironia che spesso deriva dalla mancanza di consapevolezza dei personaggi. Priscilla è stanca della vita privilegiata che ha condotto finora, vuole vivere in maniera semplice come la gente comune. Il fatto è che non ha neppure idea di come viva la gente comune. Fa pensare alla famosa frase della regina Maria Antonietta davanti al popolo inferocito, “non c’è pane? Dategli delle brioches!”. Così, nello sbalordimento generale, Priscilla distribuisce soldi a destra e a manca, organizza merende e giochi domenicali per i bambini (nella puritana Inghilterra in cui di domenica la vita si ferma!), per evitare litigi assume ventiquattro cuoche a rotazione (e una di queste è fin troppo felice di scappare con un biglietto da cinque sterline senza riportarle il resto), fa innamorare di sé ben due giovanotti. Priscilla e il vecchio Fritzi non hanno mai maneggiato denaro, non hanno la minima idea di come gestire la routine di una casa, gli è sempre stato servito il pranzo in tavola e non sono mai stati sfiorati dal pensiero che, prima di mettersi ai fornelli, bisogna andare ad acquistare qualcosa da mettere in pentola. Il risultato non può che essere buffamente catastrofico, per la protagonista e per tutti coloro che sono venuti a contatto con lei.

    E’ la felice ironia che nasce dal contrasto tra le grandi utopie e la cruda realtà delle esigenze quotidiane che rende così piacevolmente divertente la lettura di “Una principessa in fuga”. Insieme al velo di tristezza che cala inevitabilmente quando ci si rende conto che l’essere umano è fatto di argilla e non ha le ali. 

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


Elizabeth von Arnim, "Il circolo delle ingrate" ed. 2012

                                                                il libro ritrovato


Elizabeth von Arnim, “Il circolo delle ingrate”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. Simona Garavelli, pagg. 393, Euro 17,50
        Impagabile Elizabeth von Arnim. Deliziosa von Arnim. Intelligente e squisita. E’ un piacere da pregustare, leggere ogni suo libro ristampato da Bollati Borlinghieri. L’ultimo, poi, “Il circolo delle ingrate” è particolarmente frizzante e ironico: fa pensare a Jane Austen con quel tocco in più di differenza dato dal secolo che separa le due scrittrici, viene in mente anche- e non stupitevi- Arto Paasilinna, per quello scherzoso amore del paradosso, dell’improbabile. Un Paasilinna meno crudo, meno selvaggio, ingentilito dalla dolcezza femminile della von Arnim.
      Anna Estcourt ha venticinque anni. I genitori sono morti presto e lei, dall’età di dieci anni, vive con il fratello maggiore che ha sposato una donna ricca. Era stato un matrimonio equo: l’uomo ci aveva messo il nome, la donna i soldi. E pazienza se non era bella e non era fine. E’ così che gira il mondo. Ora però la cognata Susie non vede l’ora di sbarazzarsi di Anna: perché mai non si sposa Anna che è così bella? Sembra facile ma non lo è. Essendo priva di mezzi Anna può sposare solo un uomo che ne abbia (la stessa situazione che abbiamo visto nei romanzi di Jane Austen). Il problema è trovare un uomo che abbia soldi e fascino a sufficienza da far innamorare Anna che, invece, rifiuta tutti i pretendenti. Quello che Anna vuole è essere indipendente: sposarsi, però, non vuol dire essere indipendenti, giusto? Significa solo dipendere da qualcun altro che non sia il fratello o la cognata. Poi, il colpo di fortuna, uno di quelli che si verificano solo nei romanzi. Lo zio tedesco, fratello di sua madre, lascia in eredità ad Anna una piccola tenuta in Pomerania. E Anna parte, accompagnata dalla cognata (che fuggirà subito da quel luogo sperduto abitato da gente barbara che parla una lingua incomprensibile), dalla nipotina e dalla governante di questa. Dapprima titubante e con il programma di rientrare presto in Inghilterra, Anna si innamora del luogo, del cielo terso e ventoso. E’ inebriata dalla possibilità di libertà e concepisce un sogno generoso e utopistico di cui chiunque con i piedi sulla terra scorgerebbe la follia: ospitare dodici donne indigenti nella grande casa, farle vivere lì come amiche fondando quasi una società di uguali in cui avrebbero condiviso tutto. Anna voleva che altre donne avessero una possibilità di felicità, come l’aveva avuta lei.



      A questo punto nasce la commedia, perché è tutto un gioco di equivoci, il selezionare le aspiranti ospiti che naturalmente rispondono numerosissime, l’iniziare la vita in comune con le prime tre donne che arrivano, ognuna con le sue menzogne e con i suoi secondi fini. Mentre Anna cerca di non lasciarsi sconfortare, quasi che il suo altruismo e il suo ottimismo potessero incorporarsi nelle altre solo con la sua forza di pensiero. E c’è anche una storia d’amore, naturalmente, con un uomo di cui Anna riconosce il valore ma che, tutta presa dalle sue velleità, dapprima respinge.
     Il lieto fine non è del tutto garantito in questo delizioso romanzo che affronta in maniera scanzonata il tema su cui hanno riflettuto tutte le scrittrici intelligenti della storia del romanzo: la condizione delle donne assoggettate ad un uomo, dipendenti da un uomo per poter condurre una vita decorosa. Peggio ancora: la condizione delle donne che non hanno neppure il permesso di essere intelligenti e di usare il cervello per non mettere a rischio la superiorità maschile che deve essere indiscussa.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net



    

mercoledì 24 settembre 2014

Nickolas Butler. "Shotgun Lovesongs" ed. 2014

                                      Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                fresco di lettura


Nickolas Butler, “Shotgun Lovesongs”
Ed. Marsilio, trad. Claudia Durastanti, pagg. 318, Euro
Titolo originale: Shotgun Lovesongs


   L’America, per me, è gente povera che suona musica, gente povera che condivide il cibo e gente povera che balla anche quando tutto il resto nella loro vita è così triste e disperato che sembra non debba esserci alcuno spazio per suonare, mangiare o abbastanza energie per ballare. E le persone diranno che mi sbaglierò, che siamo una nazione puritana, una nazione evangelica, una nazione egoista. Ma io non lo penso. Non voglio pensarlo.


Henry. Ronny. Leland detto Lee. Kip. Beth, moglie di Henry. Sono le cinque voci che si alternano nei capitoli che portano le loro iniziali di questo primo libro ‘americano’ della casa editrice Marsilio, “Shotgun lovesongs” di Nickolas Butler. I ‘veri’ protagonisti sono, in realtà, i quattro uomini, quattro amici da sempre. E Beth è importante perché offre uno snodo alla trama- cherchez la femme, no? Oppure no, il personaggio principale è, invece, Little Wings, la cittadina del Wisconsin in cui sono nati e cresciuti tutti e cinque, da cui solo Henry e Beth non si sono mai allontanati. Gli altri sì, per poi ritornare, attirati da fili invisibili e forti, perché sembra sempre che sia possibile estrarre la radici e trapiantarle altrove, e poi risulta che non è vero, che ci si allontana, che il paese di poche centinaia di abitanti pare scomparire nella lente della memoria quando qualcosa richiama indietro, e si riscoprono i legami che sono importanti, le amicizie di cui ci si può fidare, le persone che mai ci lasceranno soli.

    Henry: un bell’uomo, fin troppo prevedibile, forse, onesto e leale. Un agricoltore che porta avanti la fattoria del padre, sposato da dieci anni con Beth, due bambini- non ha soldi da sperperare. Lee è il suo amico del cuore, i bambini lo chiamano ‘zio’. Henry ha sempre creduto nel successo di Lee che è diventato un cantante di successo. Anche Kip ha avuto successo, in tutt’altro campo. Kip è un broker. Ha guadagnato talmente tanto da poter realizzare il suo sogno: acquistare e ristrutturare la vecchia fabbrica di Little Wings, un enorme edificio in disuso su cui loro cinque salivano da ragazzini a bere qualche birra e fumare, aspettando l’alba. Il bere ha portato Ronny alla rovina: era una star dei rodeo, immagine di possenza in groppa ad un toro scalciante. Poi l’incidente, quando era ubriaco. L’ospedale, la disintossicazione, la menomazione: è come se Ronny fosse rimasto un ragazzone per sempre. Sotto la protezione di Lee, che copre le sue spese, che controlla che beva solo Coca Cola (ma c’è tutto il paese che sorveglia Ronny, come lo tenessero stretto in un abbraccio), che lo scherma dagli sgarbi di Kip, perché Ronny non sia mortificato, non si senta diverso. E’ bello il legame di amicizia che lega i quattro, ma quello tra Lee, la stella della musica, e Ronny, l’ex stella del rodeo, è speciale, ci fa perdonare tutto a Lee, anche il segreto che condivide con Beth, anche la cecità sentimentale che gli fa sposare la donna sbagliata e divorziare quasi subito.


    “Shotgun lovesongs” è il titolo del primo cd di successo di Lee, quello che tutti, assolutamente tutti, posseggono a Little Wings. E ritorniamo al paese che acquista una vita propria nelle pagine del romanzo di Butler. Perché apprezziamo che il libro sia- una volta tanto- la storia di un amicizia tra uomini, e non fra donne, ma non è quella la parte più bella del libro. E’ il senso di stretta comunità che Henry e Beth, a New York per il matrimonio di Lee, non riescono a sentire nella metropoli che non è estranea a loro soltanto, ma anche a se stessa. E’ la dimensione umana del luogo che non è dovuta unicamente al fatto che si è nati e diventati grandi lì, che tutti sanno tutto di tutti. E’ una vicinanza all’essenza della vita, sfrondando quello che è superfluo e che, nei momenti di grave crisi, si avverte come marginale e ininfluente. Nella notte di tormenta, quando Ronny, sfuggendo al controllo alla vigilia del suo matrimonio, si è ubriacato e si è perso nella neve, tutti si mettono alla sua ricerca: la perdita di un uomo è la perdita di tutta Little Wings. Dove mai si potrebbe provare qualcosa di simile?
     In un romanzo di uomini e di un’amicizia al maschile, in una lettura che ho goduto molto, mi sarebbe però piaciuto uno stile narrativo più ‘duro’ e un finale meno sentimentale- sarebbe stato perfetto.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



lunedì 22 settembre 2014

Tim O'Brien, "Inseguendo Cacciato" ed. 2007

                                         Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
guerra del Vietnam
il libro ritrovato

Tim O’Brien, “Inseguendo Cacciato”
Ed. Feltrinelli, trad. Sandro Ossola, pagg. 300, Euro 17,00
Titolo originale: Going After Cacciato


E poi, a guerra finita, a storia decisa, le avrebbe spiegato perché si era lasciato andare alla guerra. Non a causa di forti convinzioni, ma perché non sapeva. Non sapeva chi avesse ragione o cosa fosse giusto. Non sapeva se fosse una guerra di autodeterminazione o di autodistruzione, sfacciata aggressione o liberazione nazionale; non sapeva a quali discorsi credere, a quali libri, a quali politicanti…non sapeva chi veramente avesse dato inizio alla guerra né perché ne quando né per quali motivi…

    Avviene per la guerra quello che avviene per la Shoah, riesce impossibile parlarne. Lo storico ha la parte più facile- spiega le cause, enuncia i fatti, battaglie, vittorie e sconfitte, conta i morti, i feriti, i dispersi, i prigionieri. Ma come si fa a dare l’idea della guerra a quelli che non l’hanno né combattuta né vista?
Tim O’Brien fa una scelta azzardata, in “Inseguendo Cacciato”, quella di mescolare il reale e il surreale, il vero e il fantastico. Il risultato è spiazzante, il suo è un racconto tanto più doloroso perché ha bisogno di un’evasione per essere sopportato, ha bisogno di alternare scene che resteranno come un incubo nella memoria di Paul Berlin, il personaggio principale, e scene di un sogno- quello di arrivare a Parigi. A Parigi. A piedi o con mezzi di fortuna. Dal Vietnam. Be’, su un’immaginaria linea retta, quale città se non la Parigi della Tour Eiffel, delle Folies Bergères, della placida Senna, delle torri di Nôtre Dame, può trovarsi all’estremo opposto di Saigon o di Hanoi, nel 1968? Parigi, allora.
Tim O'Brien soldato in Vietnam
     Non si può, però, partire, così, per Parigi. Ci vuole un pretesto. Lo offre Cacciato (il nome è già un programma), una sorta di Forrest Gump del romanzo di O’Brien, il marmittone un po’ stupido che si mette a pescare mentre i compagni devono perlustrare una galleria dove probabilmente il nemico è in agguato, ma neppure poi tanto stupido se rifiuta di unirsi alla congiura contro il comandante che li sta mandando verso una morte quasi certa. Cacciato è così grigio e invisibile che nessuno saprebbe descriverlo. E’ il soldato qualunque. E comunque, un giorno, Cacciato dice ‘basta’ e se ne va. L’aveva detto, che voleva andare a Parigi, che aveva studiato le mappe. Un disertore? Bisogna inseguirlo e portarlo indietro. Partono in sette o otto, seguendo la scia degli incartamenti delle barrette alimentari che Cacciato si lascia dietro. Rifiutano di chiamarsi disertori, loro riporteranno Cacciato in Vietnam.
   Inizia così il più straordinario racconto di viaggio- il lettore non deve mai chiedersi dove finisca la realtà dell’esperienza vissuta e dove inizi l’immaginato, si passa dall’una all’altro senza soluzione, quasi come se questo fosse l’appendice indispensabile di quella. E invece non c’è dubbio sul dove incominci la realtà della guerra, a mano a mano più difficile da sopportare- i compagni morti: fino ad un attimo prima scherzavano e facevano battute e poi si era in attesa dell’elicottero che ne portasse via i corpi (ammesso che riuscisse ad atterrare);
la Regione dei Laghi (uno di loro l’aveva chiamata così) con i crateri delle bombe piene di cadaveri galleggianti nell’acqua (già, piove sempre); le maledette gallerie in cui due di loro avevano perso la vita: perché mai esplorarle e non farle saltare subito in aria?; i villaggi bruciati, la gente spaventata. Niente aveva preparato il ventenne Paul Berlin a tutto questo. Perché poi si era arruolato? Questa non era la guerra combattuta da suo padre in Europa, quando era chiaro dove fosse il male. E poi si passa, dal racconto di paura e di morte, a quello del viaggio, avventuroso, divertente, incredibile. Si varcano frontiere senza alcuna difficoltà, uno di loro uccide un bufalo che traina un carro con due vecchie e una ragazza in fuga (questa violenza immotivata è il risultato della guerra) e tuttavia la conseguenza è che Paul Berlin si innamora della profuga vietnamita che arriverà con lui a Parigi. Non prima, però, di essere caduti in una galleria e aver conosciuto un vietcong prigioniero là sotto, di essere arrestati e scappati (come nei migliori romanzi di cappa e spada) dalle prigioni di Teheran- ed altre avventure ancora, per finire in una soffitta (come in un romanzo dell’800) vicino alle campane di una chiesa e ai piccioni che tubano.
    La vera fine, però, è di quelle che segnano per sempre, è la maniera più atroce per diventare grandi, per lasciarsi l’età dell’innocenza alle spalle. E con Paul Berlin (un cognome che ricorda la guerra di un’altra generazione) è tutta l’America che si è lasciata l’innocenza alle spalle. Anche se, come dice il vecchio tenente, “Possono capitare cose peggiori”. Lo sappiamo bene, con la conoscenza che abbiamo di quello che è successo dopo.

    Bello e straziante, questo libro che contrappone la guerra ad un sogno.