giovedì 31 marzo 2016

Jonathan Coe, “Circolo chiuso” ed. 2005

                                       Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
            il libro ritrovato


Jonathan Coe, “Circolo chiuso”
Ed. Feltrinelli, trad. Delfina Vezzoli, pagg. 397, Euro 16,00

     Gli stessi personaggi de “La banda dei brocchi”, solo che allora erano gli anni ‘70, erano giovani, l’età della scuola, dei primi amori, delle bombe dell’IRA e degli scioperi compatti, adesso è l’inizio del nuovo millennio, alcuni di loro hanno ottenuto quello che volevano, altri no. Benjamin Trotter sta sempre scrivendo il libro che nessuno ha mai letto, suo fratello Paul è il più giovane parlamentare laburista, Claire ha sposato Philip Chase e si è separata da lui, Doug Anderton è un giornalista impegnato. Le vicende personali, matrimoni che si sciolgono, vecchi amori che riappaiono, la soluzione del mistero della scomparsa della sorella di Claire, si srotolano parallelamente ai cambiamenti sulla scena politica, con gli operai che protestano per la minacciata chiusura di una fabbrica e il governo che vota per l’intervento in Iraq. Alla fine il circolo si chiude, si concludono le storie iniziate nel romanzo precedente e anche il neolaburismo del governo Blair sembra riconnettersi alle posizioni della Lady di Ferro.

INTERVISTA A JONATHAN COE, autore di “Circolo chiuso”

   Quando era stato pubblicato, nel 1994, “La famiglia Winshaw” dello scrittore inglese Jonathan Coe, ci aveva colpito la forza dell’ironia selvaggia, quasi swiftiana, con cui il giovane autore sferzava la società britannica. Era un romanzo che offriva vari livelli di lettura in una geniale commistione di generi- pamphlet politico, romanzo nel romanzo, satira sociale, thriller-, condannando i personaggi, colpevoli di crimini contro la società per cupidigia personale, a pene del contrappasso dantesche. Più pacato il tono ne “La banda dei brocchi”, quasi rassegnato in uno sconforto deluso in “Circolo chiuso”. “Circolo Chiuso” non è solo il nome di un club esclusivo, o la chiusura narrativa delle storie iniziate nel romanzo precedente, ma è anche e soprattutto il cerchio che si chiude di un’ideologia politica, quella laburista, che non si sviluppa in una linea divergente da quella del governo conservatore, ma vi si ricollega nel segno dell’ambiguità. L’ambiguità su cui è imperniato il personaggio di Paul Trotter che non dice mai chiaramente quello che pensa, che è il maestro delle frasi che possono essere rigirate e interpretate in maniere opposte. Sempre timoroso di inimicarsi il “Tony” di cui tutti parlano.
E così vota per la guerra in Iraq, e non ha il coraggio di farsi vedere alla manifestazione degli operai della Rover, anche se è nella contea che lo ha eletto. E neppure, almeno fino alla fine, di lasciare la moglie che tradisce, per non rovinare la sua immagine. Quello che è chiaro nei personaggi di “Circolo chiuso”, e che Jonathan Coe riesce ad esprimere con la leggerezza dell’humour britannico, è che qualunque scelta personale è una scelta politica e le storie di ognuno hanno sempre un risvolto politico qualunque sia l’ambiente in cui si svolgono, o le competenze di lavoro di ognuno.
    “Sono passati vent’anni e sotto sotto non è cambiato niente. Non cambia mai niente”, dice uno dei protagonisti riferendosi alla vita sentimentale di Benjamin, ma, nel contempo, a tutta la realtà che lo circonda. Dopo che il Duemila era iniziato senza grandi scosse, senza il temuto Millennium Bug, un altro personaggio aveva detto, “a me sembra tutto uguale a prima”. Perché quello che si avverte è che è tutto un gigantesco gioco di apparenze- come l’enorme ruota del Mondo Nuovo eretta di fronte al Palazzo del Parlamento simbolo del passato-, che la gente crede di aver votato un partito di sinistra, e invece “hanno votato per altri cinque anni di thatcherismo, se non dieci, o quindici addirittura”. Tony Blair è al suo terzo mandato: ci siamo quasi. Stilos ha intervistato Jonathan Coe.


 In genere il seguito di un romanzo inizia da dove quello precedente è terminato. Lei fa l’opposto, “Circolo chiuso” finisce dove iniziava e anche finiva quello precedente.
    Non ho iniziato “Circolo chiuso” con la scena del ristorante con cui termina “La banda dei brocchi” proprio perché questo romanzo è una continuazione del primo, i due libri insieme sono come una singola entità. Avevo pensato ad un dialogo per iniziare, poi non mi sembrava necessario, volevo semplicemente proseguire con le storie incominciate. E non è la prima volta che uso un modello circolare. Già ne “La famiglia Winshaw” finivo con la stessa frase con cui iniziavo- sono portato al cerchio come forma strutturale. Era da almeno quindici anni che avevo in mente questi romanzi. All’inizio pensavo di scrivere una serie di romanzi, forse sei, e l’idea era che le storie sarebbero state raccontate da due personaggi in un ristorante girevole. Perché mi trovavo a Singapore nel 1991 in uno di questi ristoranti e fu allora che decisi che avrei iniziato così la serie e l’avrei terminata in “Circolo chiuso” e avrebbe coperto le varie fasi della vita dei personaggi. Mi piaceva l’idea allusiva del ristorante che gira in cerchio e domina il panorama. Poi, mentre scrivevo, i romanzi sono diventati due, il primo e l’ultimo in pratica, tralasciando quelli di mezzo. Sarebbero mancati gli anni ‘80 e gli anni ‘90 della vita dei personaggi che avrebbero dovuto essere immaginati dai lettori.

“La famiglia Winshaw”, ambientato negli anni ‘80, è molto diverso dagli altri due romanzi. C’è un’ironia selvaggia ne “La famiglia Winshaw”: erano i tempi che la richiedevano, o è lei che ha vissuto quegli anni in maniera più intensa o è un cambiamento che è sopravvenuto in lei?
      Per tutti questi motivi, ma prima bisogna forse rettificare che non si tratta di una trilogia, proprio perché “La famiglia Winshaw” è del tutto diverso. Penso che per me gli anni ‘80 siano stati un periodo meno complesso degli anni ‘70 e del tempo presente.
L’ideologia politica di allora, l’inizio del thatcherismo, segnava anche l’inizio dell’età dell’individuo, mentre negli anni ‘70 l’Inghilterra lottava per l’ultimo tentativo di costruire una società basata su principi di giustizia sociale, in contrasto con le crescenti energie del thatcherismo. Ho scritto degli anni ‘70 come di un decennio che ho goduto da adolescente, quando era possibile credere in degli ideali a cui mi sentivo vicino. Invece la mia risposta agli anni ‘80 era la rabbia e la frustrazione perché la società stava andando in una direzione che non era quella che volevo. E’ per spiegare tutto questo che il tono è fortemente polemico e satirico ne “La famiglia Winshaw”.

Il titolo “Circolo chiuso” suggerisce parecchie idee- il riferimento più ovvio è al nome del club, il più sottile è che, politicamente, ci si trovi in un “cul de sac”: era questo che aveva in mente?
    Il titolo mi piace perché ha parecchi significati. Un’idea è che le due ali politiche, la destra e la sinistra, hanno compiuto un viaggio con una lunga digressione e poi si incontrano: hanno percorso come un cerchio. E poi si riferisce ai personaggi: sembra che abbiano fatto molta strada ma in realtà finiscono per tornare al punto di partenza. Infine anche il mio viaggio come scrittore è terminato, almeno per quello che riguarda questa sequenza di romanzi. Insieme a “La famiglia Winshaw”, hanno in comune una prospettiva panoramica, contengono elementi della tragedia e della commedia, sono un affresco sociale. Con “Circolo chiuso” sono andato anche il più lontano possibile e per me, come scrittore, quel viaggio è chiuso.

Due personaggi sono giornalisti: che opinione ha della stampa in Gran Bretagna? Quanta libertà d’espressione c’è? Perché Doug viene allontanato dal suo incarico per coprire le pagine di letteratura, più innocue.
     Non c’è un’aperta censura, non c’è una chiara censura politica, la stampa è libera, ma il mercato libero impone ugualmente una censura, perché se c’è la competitività la stampa deve attrarre i lettori, e i lettori non vogliono leggere di difficili verità politiche, preferiscono gli articoli di giornalismo inchiesta. C’è sempre meno spazio per il giornalismo impegnato come quello di Doug, ce n’è sempre di più per cronache mondane, pettegolezzi. Ma penso che fare il giornalista sia uno dei lavori più importanti in una democrazia: ci deve essere qualcuno a monitorare quello che sta succedendo.

E’ stato un espediente letterario interessante far tornare Claire dall’Italia, all’inizio del libro, in modo che osservasse i cambiamenti che ci sono stati in Inghilterra negli anni trascorsi tra i due romanzi. Claire è seccata dai comportamenti nuovi che vede, mentre trovava naturali gli stessi comportamenti in Italia: non è un poco ingiusto questo paragone?
     Claire è seccata dalla nuova guida “sportiva” degli inglesi, dall’uso continuo dei telefonini: è scontato che gli italiani guidino come dei pazzi, urlino gli uni contro gli altri. Sono dei clichè inglesi sugli italiani, ma accettiamo che gli italiani siano così, per noi è una conseguenza naturale del loro essere appassionati e pieni di vitalità. Gli inglesi sono cauti e tranquilli, perciò quando la gente guida in maniera aggressiva in Inghilterra, c’è più pericolo. Claire pensa che in Inghilterra lo stesso comportamento significa qualcosa d’altro da quello che significa in Italia. E così per i telefonini: si sa che gli italiani sono chiacchieroni, che comunicano tanto tra di loro. Gli inglesi sono riservati, si tengono i pensieri per sé, e allora ci si domanda, ‘ma che cosa hanno da dirsi? Perché adesso si parlano e prima no?’.

Ne “La banda dei brocchi” diceva che il colore degli anni ‘70 era il marrone: quale sarebbe per lei il colore degli anni che stiamo vivendo?

     Il bianco è il primo colore che mi viene in mente, un bianco lucido, il colore degli iPod che adesso tutti hanno in Inghilterra, come uno status symbol. Un non colore perché i nostri tempi non sembrano avere un loro proprio carattere come invece lo avevano gli anni ‘70.

Sempre ne “La banda dei brocchi” faceva dire ad uno dei personaggi, un gallese, che gli inglesi sono una nazione di “macellai e vagabondi”: non è un’accusa piuttosto pesante?
    Sì, molto pesante, ma qualunque scozzese, irlandese o gallese sarebbe d’accordo e direbbe così. Quello che è importante, però, è la maniera in cui Benjamin risponde: non nega, non acconsente, ma dice: “E’ un punto di vista”. Questa è la maniera inglese di reagire ad un’accusa. La respinge in un modo garbato e questa è una delle forze dell’establishment britannico: considerare ogni punto di vista, non prendere niente di petto, non affrontare niente in maniera drastica.

Qual è il suo personaggio preferito nel romanzo?
     Claire. Perché è forte, indipendente, coraggiosa, ha senso dell’umorismo, vede le cose più chiaramente degli altri, come dice il suo stesso nome. Mi piace anche Philip, la voce della ragione. A differenza di Doug, non ha grandi ambizioni come giornalista e neppure aspira a grandi case a Londra. E’ contento del giornale locale per cui lavora, Philip è un uomo “rispettabile”, una qualità difficile di cui scrivere.

E c’è qualche personaggio che ha avuto un’evoluzione indipendente, diversa da quella che lei aveva in mente per lui?
    Sì, il personaggio di Paul Trotter: sapevo l’inizio della sua storia ma non ne sapevo la fine. Mi è stato detto da dei lettori che hanno trovato terribile il momento in cui Paul ha come una rivelazione di che cosa debba votare e vota per la guerra in Iraq, anche se era contrario, e lo fa perché in questa maniera potrà avere per sé l’appartamento in cui incontra la sua amante, dato che il proprietario verrà inviato a coprire la guerra. Invece è il momento che lo redime, che lo rende umano, prima era un robot al servizio del partito. La personalità di Paul non cambia nel corso del tempo, accenna a cambiare solo alla fine. Ma, dopo tutto, nessuno cambia mai veramente, siamo tutti chiusi in modelli di comportamento ed è quello che viene dimostrato nei miei libri.

Paul Trotter è estremamente consapevole della sua immagine pubblica: fin dai tempi dello scandalo Profumo, penso che non ci sia nessun altro paese, tranne forse l’America, in cui ci sia un rapporto così stretto tra vita privata e vita pubblica.
     E’ qualcosa di molto difficile da capire per gli italiani e i francesi, il fatto che gli uomini politici vengano giudicati per la loro vita privata. Possono comportarsi male, possono non mantenere le promesse fatte agli elettori, essere coinvolti in scandali finanziari, ma hanno la carriera rovinata se vengono sorpresi in una relazione sentimentale “illecita”. In realtà è un atteggiamento molto ipocrita, perché la vita dei giornalisti che riferiscono questi scandali non è certo esemplare. C’è una doppia morale. In Inghilterra siamo convinti di avere un alto standard nella vita privata. La politica inglese non è corrotta come quella italiana: è raro trovare un politico che accetti delle tangenti o che si associ con dei criminali. E allora dobbiamo trovare un’altra maniera per distruggere un personaggio politico. Quello che è interessante è osservare quanto sia stretto il rapporto tra il potere e l’attrazione sessuale, e invariabilmente questi legami coinvolgono uomini politici fisicamente brutti e donne molto belle. I lettori si domandano, ‘ma perché questa donna va a letto con uno così?’. Ma pare che l’aura sessuale intorno agli uomini politici, unita al potere, sia fortissima.

 Ha scritto anche un libro molto diverso dai romanzi, la biografia di Humphrey Bogart, come mai questa scelta?

    In Italia la biografia di Bogart è stata pubblicata solo lo scorso anno, in realtà è qualcosa che ho scritto molto tempo fa, nel 1990, ed è come un lungo saggio di taglio giornalistico. Non è un libro importante per me. Invece ho scritto un’altra biografia, la storia di B.S.Johnson, uno scrittore sconosciuto degli anni ’60, un originale romanziere d’avanguardia che è morto suicida, e questo è stato ed è, per me, un libro importante, ho impiegato otto anni per scriverlo, è il più lungo dei miei libri. E’ importante perché contiene molto di me, del perché scrivo, perché molti scrittori scrivono. Spero che venga pubblicato anche in Italia- i dubbi riguardano il fatto che nessuno in Italia ha mai sentito parlare di B.S.Johnson, ma neppure in Inghilterra era conosciuto.



recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos


a breve troverete il post con la recensione dell'ultimo romanzo di Jonathan Coe, "Numero undici"
                                            

mercoledì 30 marzo 2016

Jorge Barón Biza, “Il deserto” ed. 2016

                                        Voci da mondi diversi. America Latina
               autobiografia
             FRESCO DI LETTURA

Jorge Barón Biza, “Il deserto”
Ed. La Nuova Frontiera, trad. G. Maneri, pagg. 251, Euro 14,45


      E’ un libro di difficile lettura, “Il deserto” dell’argentino Jorge Barón Biza. Perché è un libro doloroso, tanto più perché è autobiografico, anche se lo scrittore avrebbe voluto che i lettori non tenessero conto dei legami familiari che lo univano ai personaggi. E’ una storia che segue due filoni narrativi in cui i protagonisti sono due, sua madre Eligia e lui stesso. Un filone segue il calvario della madre, l’altro il declino del figlio.
    Tutto inizia con una tragedia non da poco: suo padre, una personalità eccentrica che aveva eretto un mausoleo di 70 metri di altezza per la prima moglie, che era di vent’anni più vecchio della seconda moglie Eligia, che aveva avuto con lei un rapporto fatto di separazioni e riunioni, di divorzi e riconciliazioni, le aveva gettato in faccia dell’acido durante l’ultimo incontro e si era suicidato il giorno dopo. Dopo i primi soccorsi ricevuti in Argentina, madre e figlio erano partiti per Milano dove operava il miglior chirurgo estetico del mondo, un dottore che avrebbe proceduto prima distruggendo quanto già fatto e poi ricostruendo. Erano gli anni ‘60, lui, il figlio, era poco più che un ragazzo, ma già beveva smodatamente, come suo padre.

Eligia, la madre, era una studiosa, una professoressa, impegnata politicamente, peronista nonostante suo padre fosse del partito avverso, una donna dalla tempra eccezionale che mostra, nei tre anni di cure, un coraggio e una sopportazione straordinari. Lui- Mario nel romanzo- beve ancora di più per reggere davanti allo scempio del viso della madre. Niente ci viene risparmiato, nelle due narrative, intramezzate da stralci di saggi politici, storie del passato, scritti del padre che era stato un famoso romanziere. Sembra che Mario guardi con distacco il viso della madre, quasi con interesse scientifico quella che era stata una faccia ed ora è scarnificata, più simile ad un teschio che ad un volto, e invece c’è una pena profonda, un dolore che cerca di tenere a bada. Mario registra le frasi dei medici ma anche le parole di spavento, gli sguardi inorriditi di chi gli capita di incontrare nei corridoi dell’ospedale, per non dire dei riguardi esagerati verso la donna durante il viaggio in aereo dall’Argentina, dettati in realtà dal timore che la sua vista possa gettare nel disagio gli altri passeggeri. La serenità altrui va protetta, la pietas viene dopo, quando si è al riparo.

Non ci viene risparmiato neppure l’abbrutimento di Mario, le scene di degradazione totale in compagnia di una prostituta con cui finisce per intrecciare una relazione, la ricerca di qualcosa da bere, non importa che cosa sia, purché sia alcol. Per essere più di una volta raccolto su un marciapiede, incapace di reggersi in piedi. Mario ha due vite, accanto al letto in clinica per aiutare la madre di giorno, nei bar di Milano con compagnie ambigue di notte. Abnegazione e pazienza di giorno, nebbia alcolica e annullamento della coscienza di notte.
E intanto emergono ricordi del coinvolgimento politico di Eligia, del carcere per lei e dell’allontanamento del figlio, degli anni di Perón (sempre chiamato ‘il Generale’) e soprattutto della bionda Evita, la donna che, nata in un misero villaggio della Pampa, era stata accolta come una regina dal Generalissimo Franco nel 1947, venerata come una santa dal popolo dopo la morte per tumore, diventata un mito. Una delle voci che correvano su di lei era che il suo corpo fosse stato mummificato e, sottilmente, siamo portati a identificare Evita con Eligia, la mummia eternamente impassibile con la donna il cui volto ha perso qualunque espressione, quella che era stata una leggenda vivente, la donna senza cultura che si era battuta per i diritti dei poveri e dei lavoratori e la professoressa che aveva lottato per allargare l’alfabetismo dei diseredati. Due donne con una tragica fine.


lunedì 28 marzo 2016

Thomas Mann, “I Buddenbrook”

                                                        Voci da mondi diversi. Area germanica
                    premio Nobel
                    riletture

Thomas Mann, “I Buddenbrook”
Ed. Mondadori, trad. Silvia Bortoli, pagg.716, Euro 8,63


     Thomas Mann, premio Nobel 1929. Un critico lo ha definito ‘l’ultimo dei classici’. Non sono certa che lo scrittore tedesco sia veramente ‘l’ultimo dei classici’- ci sarebbe da discutere su che cosa questa definizione voglia dire. Penso, invece, che il premio che gli è stato conferito sia uno dei più meritati e, avendo appena finito di rileggere “I Buddenbrook”, mi sento colma di ammirazione, di stupore e di inadeguatezza: Thomas Mann aveva ventisei anni quando scrisse “I Buddenbrook”, un romanzo grandioso e splendido che era, allora, e resta, adesso, dopo più di un secolo, un capolavoro.
     La mia vecchia copia del libro reca il sottotitolo “Decadenza di una famiglia”. Preferisco ‘declino di una famiglia’, che ha un connotato meno negativo, dà più l’idea della ruota della vita che gira portando con sé i personaggi dalle vette agli abissi.
E il declino della famiglia di commercianti Buddenbrook è anche il declino della bellissima casa che il console Johann Buddenbrook, proprietario dell’omonima ditta, inaugura con festeggiamenti all’inizio del libro. E’ il 1835, la casa sulla Mengstrasse, con la sua armonica facciata, gli arredi e le tappezzerie, è il segno del successo. Passeranno gli anni, muore il console Johann, muore suo figlio e anni dopo ancora sua moglie. Il loro primogenito Thomas, diventato senatore, abita in un’altra grande casa e la dimora di famiglia deve essere venduta- il tempo ha lasciato i segni anche sull’edificio, sarebbe troppo costoso riparare i danni. Il peggio è che l’acquirente è l’antagonista di vecchia data dei Buddenbrook, un uomo rozzo che si insedia al loro posto. Ed è come se tutto precipitasse, definitivamente, dopo la vendita della casa sulla Mengstrasse, come se mancasse il perno, come se il cuore smettesse di battere.

    “I Buddenbrook” è un romanzo corale, ricco di personaggi di cui alcuni hanno un ruolo centrale anche se tutti, però, sono altamente caratterizzati. Thomas Mann ha un occhio attentissimo per i dettagli, sia fisici, sia dell’abbigliamento o dei comportamenti, o del linguaggio- tutti rivelatori del carattere, tutti intesi a farci ‘vedere’ la persona di cui si sta parlando. Il colorito pallido e la cura maniacale dell’abito di Thomas Buddenbrook (diventa lui il capofamiglia, il punto di riferimento, dopo la morte del padre), il labbro superiore rialzato e la passione di Tony per fiocchi e gale (povera Tony che deve rinunciare al suo amore giovanile ed è per ben due volte malmaritata), le continue lamentele di Christian sulla sua salute (lo scapestrato Christian, la pecora nera, il problema dei fratelli minori), la voracità della parente povera, gli occhi ravvicinati e i capelli di un denso rosso scuro di Gerda, la moglie di Thomas che quasi mai sentiamo parlare, solo suonare il violino, i riccioli castani, il mal di denti e le belle mani del piccolo Hanno: il tempo passa, cambia la situazione della famiglia e cambia anche la società intorno a loro, ma questi dettagli restano immutati, a farci riconoscere i personaggi che vengono travolti dagli eventi a cui non riescono ad adattarsi. Thomas Buddenbrook, l’uomo dalle grandi e brillanti ambizioni, non è capace di seguire il passo del tempo, si intristisce, gli sembra di vivere in un altro mondo, diverso da quello della moglie. E’ il divario tra questi due mondi che Thomas Mann stesso ha sperimentato (il libro è largamente autobiografico)- da una parte il commercio, i valori borghesi, la rispettabilità, il perbenismo, e dall’altra la musica di Gerda dalle ombre azzurrognole sotto gli occhi. Gli stessi occhi di Hanno che ha ereditato il temperamento artistico e sognatore della madre, deludendo le aspettative del padre.
I Buddenbrook nella versione cinematografica
     Non credo di poter dire alcunché di nuovo su un romanzo così famoso. Posso soltanto osservare la mentalità più aperta con cui lo si legge ora e che ci permette di capire più a fondo le tematiche che percorrono tutta l’opera dello scrittore- le stretture dell’ambiente sociale, la pressione delle aspettative famigliari, il contrasto tra quello che lo scrittore inglese Forster chiamava ‘il mondo dei telegrammi e dell’ira’, e cioè il mondo della praticità e del lavoro, e quello dell’arte e dello spirito (in Forster era il mondo delle sorelle Schlegel), la tendenza omosessuale che Mann represse (si sposò ed ebbe sei figli) e che sfiora questo libro nell’amicizia tra il piccolo Hanno e il contino Kai, l’uno amante della musica e l’altro della letteratura.

La mia copia è una vecchia edizione Feltrinelli del 1964, traduzione di Anita Rho, 800 Lire



     

venerdì 25 marzo 2016

Holidays



                                                   Buona Pasqua!




mercoledì 23 marzo 2016

Håkan Nesser, “Il commissario cade in trappola” ed. 2016

                                                                   vento del Nord
cento sfumature di giallo
FRESCO DI LETTURA

Håkan Nesser, “Il commissario cade in trappola”
Ed. Guanda, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 292, Euro 15,30


Se Ernest Simmel avesse saputo che sarebbe diventato la seconda vittima del Tagliateste, forse si sarebbe concesso un altro paio di birre al Blå Skeppet.
   Bene- sappiamo fin dalle prime righe del nuovo romanzo di Håkan Nesser che probabilmente c’è un assassino seriale in azione, che fra poco leggeremo del suo secondo delitto, che, se la stampa lo ha soprannominato ‘il Tagliateste’, l’assassino colpisce le sue vittime sempre nella stessa maniera. Un colpo deciso sulle vertebre vicino al collo, con un’arma che potrebbe essere un’ascia o una mannaia, staccando quasi la testa.
    Infatti assistiamo ‘in diretta’ all’attacco a Ernest Simmel e poi accompagniamo l’assassino sconosciuto a casa, dove si fa un bagno e sorseggia una tazza di tè caldo. Parla da solo, dice che sta andando tutto secondo i suoi piani. Ha in mente la prossima vittima?

     Il commissario Bausen, di Kaalbringen dove si svolge l’azione, andrà in pensione tra un mese esatto: ci voleva questa grana per terminare la sua carriera? Il primo delitto del Tagliateste è rimasto irrisolto, si pensava che si trattasse di regolamento di conti, di una faccenda di droga. Però Simmel era un agente immobiliare, che collegamento ci può essere tra la sua morte e quella del morto precendente, uno sbandato con la fedina penale sporca, implicato in traffici di stupefacenti? Il commissario Van Veeteren arriva a Kaalbringen per aiutare nelle indagini- ha la fama di avere un fiuto eccezionale, l’unico caso non risolto nella sua carriera è quello del caso G di sei anni prima (ne abbiamo letto nel romanzo che ha proprio questo titolo, “Il caso G”)- e, poco dopo, l’assassino colpisce ancora, per la terza volta.
Van Veeteren nei film
      Mi è capitato di dire più volte che i romanzi di Nesser non deludono mai- “Il commissario cade in trappola” non fa eccezione. Anzi, ha qualcosa in più di altri romanzi, qualcosa nella trama che ci colpisce profondamente, che scuote le nostre convinzioni più salde. Ed è meglio che non aggiunga altro per lasciarvi scoprire l’originalità di questo thriller e che parli, invece, dei due commissari protagonisti. Si capiscono bene, Van Veeteren e Bausen. Van Veeteren, reduce da una vacanza forzata con il figlio che gli dà tanti problemi, sente nell’altro- una decina d’anni più anziano di lui- una sorta di doppio oscuro. Quando Van Veeteren va per la prima volta a casa di Bausen, pensa che il commissario che ancora non conosce debba essere un pazzo: c’è un disordine selvaggio nel giardino che nasconde la casa, ci si fa strada a fatica tra la vegetazione, ci vorrebbe un machete. Un’altra volta, dopo uno scambio di battute con dei giornalisti, pensa che Bausen debba avere un passato da attore. Di certo c’è molta sintonia tra di loro, lo stesso tipo di umorismo asciutto, la passione per gli scacchi (la caccia all’assassino non è sempre una sorta di spietata partita a scacchi?), la stessa oscura ombra che avvolge le loro anime.


   In contrasto con i due ‘anziani’ ispettori risaltano le figure dei due giovani, il collega di Van Veeteren che ha il pensiero fisso sulla moglie e i bambini e tuttavia si sente attratto dalla brillante Beate che può ambire a sostituire Bausen quando questi andrà in pensione. E’ questa ricchezza di personaggi- poliziotti e vittime e l’ignoto assassino- che ci fa apprezzare i thriller di Håkan Nesser. L’umanità e la comprensione con cui sono tratteggiati, le riflessioni che affiorano lungo lo svolgersi delle vicende, la tensione non esagerata ma continua, il gradevole umorismo nero e- da non trascurare- la soddisfacente soluzione del caso: è tutto questo che ci fa dire ogni volta che Håkan Nesser non ci delude mai.

la recensione è pubblicata anche su www.stradanove.net


martedì 22 marzo 2016

Dieter Schlesak, “L’uomo senza radici” ed. 2010

                                             Voci da mondi diversi. Area germanica
                autobiografia
               la Storia nel romanzo
               il libro ritrovato


Dieter Schlesak, “L’uomo senza radici”
Ed. Garzanti, trad. Tomaso Cavallo, pagg. 452, Euro 18,60


      Non ricordo di aver letto un libro stillante dolore come “L’uomo senza radici” di Dieter Schlesak. E’ raro che qualcuno abbia il coraggio di guardare con tanta lucidità e onestà dentro di sé, intorno a sé, nel suo passato. Scavando con meticolosità, incidendo col bisturi nel cuore dei ricordi, fino farlo sanguinare. Prendendo su di sé le colpe di altri per un eccesso di scrupolosa responsabilità condivisa- che cosa avrei fatto io al loro posto?, si chiede l’autore.
     E’ un uomo senza radici, Dieter Schlesak, perché non c’è più la terra in cui affondavano le sue radici. Nato a Schässburg, l’odierna Sighişoara, in Romania, era un Volksdeutch, come venivano chiamati i tedeschi delle minoranze che vivevano nei paesi non appartenenti al Reich.
Erano tedeschi, si sentivano tedeschi, la loro lingua era il tedesco, la Germania era la patria di cui coltivavano la memoria e la cultura, di cui copiavano lo stile di vita, di cui accettavano gli ideali e le mire. Allo scoppio della guerra avevano indossato la divisa tedesca, giurando fedeltà al Führer. Non era una scelta da mettere in discussione. E poi, prima che il conflitto finisse, il rovesciamento della sorte, la catastrofe. L’invasione dell’Armata Rossa, la Transilvania contesa, la deportazione dei Volksdeutch ai lavori forzati. E ancora, la nazionalizzazione e gli espropri da parte del governo rumeno e la decisione finale, per molti, di ‘tornare’ in patria, in Germania. Con il cuore diviso. Dieter Schlesak aveva scelto dapprima Stoccarda. Aveva trovato insopportabile vivere in Germania. Era sceso a sud, si era stabilito in Toscana, nel piccolo paese di Agliano. Un bambino può radicarsi in un paese diverso da quello dove è nato, non un uomo adulto. Un uomo adulto può ambientarsi, può godere dei nuovi luoghi, può mettere su casa. Ma affondare le radici, no. E finirà per sentirsi straniero ovunque.

    Dieter Schlesak si è sentito libero di scrivere questo libro autobiografico, così come “Il farmacista di Auschwitz” pubblicato lo scorso anno, solo dopo la morte della madre. Perché- come mi ha detto lui stesso durante un’intervista- non voleva causarle dolore con quello che avrebbe scritto. Nel caso de “Il farmacista di Auschwitz” perché Victor Capesius, il proprietario della farmacia di Schässburg, che consegnava le latte di Zyklon B da versare nei condotti delle docce delle camere a gas, era un amico di sua madre. In quel viaggio nella memoria che è “L’uomo senza radici”, tutto sarebbe causa di dolore per sua madre. Perché Dieter Schlesak si carica sulle spalle il peso dell’adesione al nazismo della sua famiglia, degli amici di famiglia, di coloro che frequentavano la loro casa. Allora lui era un bambino ma- ed è questo che lo tormenta-, se fosse nato dieci anni prima, se fosse stato in età da arruolarsi, con l’educazione ricevuta, il senso del dovere e l’obbligo di obbedienza che gli erano stati inculcati, non avrebbe fatto le stesse scelte degli zii, non si sarebbe macchiato anche lui di quelle colpe per cui lo zio Roland (e gli altri) si giustificavano dicendo che non potevano fare altrimenti, che obbedivano agli ordini?


      Il viaggio nel passato di Dieter Schlesak sembra, a tratti, una discesa nell’Inferno dantesco, per la cupezza dei ricordi, per la folla di morti che si accalcano intorno allo scrittore, di ombre che ritrovano la voce per un’ultima opportunità di parlare, attraverso di lui. Ombre di persone, ombre di luoghi, ombre di case che Schlesak fatica a riconoscere oggi. Lasciandolo traboccante di un doppio dolore, per dei ricordi che devono essere dimenticati e per la consapevolezza che dovrà continuare a vivere desiderando di tornare e non riuscendo a tornare, semplicemente perché ‘il nostro Scheszbrich non esisterà mai più!’. 

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


lunedì 21 marzo 2016

Dan Turèll, “Assassinio di marzo” ed. 2016

                                                     Vento del Nord
     cento sfumature di giallo
     FRESCO DI LETTURA


Dan Turèll, “Assassinio di marzo”
Ed. Iperborea, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg. 262, Euro 17,00


     “Assassinio di marzo”, ovvero assassinii in due giorni, perché la trama di questo serratissimo thriller dello scrittore danese Dan Turèll si svolge in due soli giorni all’inizio del mese di marzo a Copenhagen, con protagonista il giornalista senza nome di tutta una serie di dodici romanzi di cui “Assassinio di lunedì” è già stato pubblicato dalla stessa casa editrice. Il nostro giornalista sta attraversando un periodo di euforia- il suo rapporto con la fidanzata Gitte (avvocato) sembra essere consolidato e, dopo qualche incertezza, lei ha deciso di portare avanti la gravidanza: avrà un figlio il giornalista un po’ squinternato, amante delle soste nei bar (con consumazione di alcolici, naturalmente), con la propensione strana ad imbattersi in cadaveri e cacciarsi in situazioni pericolose. Che però possono assicurargli uno scoop per il giornale per cui scrive.

     Tutto incomincia con una lettera anonima arrivata al giornale, per l’appunto, in risposta alla campagna pubblicitaria ‘Ditelo al Bladet’- una sola frase di domanda: Dov’è Eric Liljencrone? Basta conoscere un poco il giornalista narratore per sapere già che cosa farà dopo aver raccolto qualche informazione: si introdurrà in casa del suddetto Eric Liljencrone e lo troverà morto, con un coltello piantato nella schiena. E mentre si trova lì, insieme all’ispettore di polizia e un agente, entra in casa (con il suo paio di chiavi) la sorella del morto, una donna volitiva e con gran sangue freddo, un tipo che ci fa venire in mente Crudelia Demon. Eric Liljencrone era un mercante d’arte ed infatti dei quadri di gran valore sono appesi alle pareti del suo soggiorno- tra questi un Léger e un Pollock su cui si soffermano gli occhi del giornalista, tanto che sarà in grado di affermare, più tardi, quando ormai sono stati rubati, che si trattava proprio di quei due.
    Nei due giorni di azione altre due morti si susseguono a distanza ravvicinata- è evidente che le persone assassinate debbano avere qualcosa a che fare con Liljencrone. E il giornalista stesso potrebbe rimetterci la vita se non avesse i riflessi pronti. Dai quartieri alti di Copenhagen (le osservazioni e le descrizioni del narratore sono sempre pungenti e divertenti) alle stradine a luci rosse, da case firmate da architetti a night club per soli uomini- sono gli anni ‘80 e il ‘coming out’ non era ancora così frequente, delle tendenze omosessuali si parla con guardinga cautela, si rispetta la privacy di parenti, amici e conoscenti. Arriverà un altro messaggio anonimo al Bladet per dare una spinta decisiva alle indagini e fino a che punto è coinvolta la sosia di Crudelia Demon?

     Se dovessi definire con un solo aggettivo il romanzo di Dan Turèll, direi che è divertente. E che, leggendolo, si ha l’impressione che lo scrittore stesso si sia divertito a scriverlo. E che non escluderei che anche Dan Turèll avesse bevuto qualche buon bicchiere mentre scriveva. Perché è frizzante, su di giri al punto giusto, non impegnato (come è invece la tendenza della letteratura di indagine di oggi). “Assassinio di marzo” è un ‘intrattenimento’, come lo avrebbe descritto Graham Greene.




    

domenica 20 marzo 2016

Colm Tóibín, “Brooklyn”

                                             Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
         romanzo 'romanzo'
        FRESCO DI LETTURA

Colm Tóibín, “Brooklyn”
Ed. Bompiani, trad. V. Vega, pagg. 329, Euro 11,90     2014


     Ho iniziato a leggere per curiosità, perché volevo un romanzo di uno scrittore irlandese. Dapprima ho pensato, ‘un ennesimo libro sull’emigrazione’, e immaginavo tristezza e squallore e lotta per la sopravvivenza quotidiana. Il secondo pensiero è stato, ‘che strano libro, per essere di Colm Tóibín’, perché avevo bene in mente il bellissimo “The Master” e questo era del tutto diverso. Poi sono stata catturata dalla narrazione, dallo stile piano, dai personaggi, dalla vicenda. E non mi è più sembrato strano che l’autore fosse Tóibín, anzi, mi è parso che affiorasse l’influenza del Maestro in quel raccontare la storia in maniera così discreta, usando il punto di vista di Eilis Lacey, la ragazza giovanissima che lascia la piccola città di Enniscorthy in Irlanda per andare in America in cerca di lavoro.
     Siamo agli inizi degli anni ‘50, il boom economico di mezzo secolo dopo non appare neppure nei sogni degli irlandesi, il padre di Eilis è morto, i tre fratelli lavorano in Inghilterra, a casa sono rimaste la madre, Eilis e la sorella Rose che ha un buon impiego. Un sacerdote, che vive ormai da anni in America e che è tornato per una breve visita in Irlanda, offre ad Eilis la possibilità di emigrare- le trova un lavoro come commessa e un alloggio presso una signora irlandese che accetta solo ragazze irlandesi come ospiti. La grande avventura di Eilis incomincia.

     Il melodramma non è da Tóibín. Il tono è sempre pacato, si addice alla compostezza di Eilis- la traversata è un incubo, il lavoro non la entusiasma, la solitudine le pesa, eppure, anche quando è travolta dalla nostalgia, Eilis mantiene la sua dignità. Fino a quando incontra Tony ad un ballo organizzato dalla parrocchia, la New York di Eilis è piccola come la cittadina che ha lasciato. Tony è un altro mondo, Tony è l’allegria e l’entusiasmo. Ne è innamorata Eilis? Forse sì, ma è un amore quieto che si lascia trascinare da quello più ardente di lui che è di famiglia italiana. In compagnia di Tony Eilis scopre Long Island e intanto continua a frequentare i corsi serali a cui il sacerdote generoso l’ha iscritta, si diploma: Eilis ha raccolto l’offerta di migliorare che l’America fa a tutti gli immigrati, il futuro si è spalancato davanti a lei.

    E poi le porte si chiudono, il dramma, il ritorno in Irlanda per stare vicino alla madre nel momento del dolore. Il contrasto tra i due mondi non potrebbe essere più grande e Tóibín lo sottolinea in modo sottile e ricco di sfumature. Eilis, che a Brooklyn sembrava grigia come un topolino accanto alla sfacciatezza vistosa delle altre ragazze ospiti nella stessa casa, appare circonfusa da un alone di fascino, una volta tornata in Irlanda. I suoi abiti, il suo portamento, l’esperienza del ‘nuovo’ e dell’altrove che traspare senza neppure che lei se ne renda conto, attirano gli sguardi e l’interesse. Ancor prima che ricompaia sulla scena un ragazzo che l’aveva snobbata quando lei viveva lì, capiamo che, dopo la smania iniziale di tornare alla sua vecchia nuova vita in America, Eilis sente i lacci d’amore che la trattengono, che la tentazione di adagiarsi nell’ambiente che è suo è fortissima, che sarebbe disposta ad iniziare un nuovo legame e a dimenticare Tony. Ma…c’è un ma.

     “Brooklyn” non regala emozioni forti, ma è un bel libro, un romanzo di formazione femminile in cui il tema classico del viaggio di istruzione diventa viaggio di emigrazione. A volte ci farebbe piacere che Eilis fosse meno acquiescente e più vivace, ma allora non sarebbe più Eilis, la ragazza che sceglie senza essere veramente libera di scegliere.

     Il film tratto dal libro, con la regia di John Crowley, e un’incantevole Saoirse Ronan, è ora sui nostri schermi.


sabato 19 marzo 2016

Dieter Schlesak, Il farmacista di Auschwitz ed. 2009

                                                 Voci da mondi diversi. Area germanica
        Shoah
        il libro ritrovato



Dieter Schlesak, Il farmacista di Auschwitz
Ed. Garzanti, trad. Tomaso Cavallo, pagg. 414, Euro 18,60

Victor Capesius era farmacista a Sighişoara, amico della famiglia dello scrittore Dieter Schlesak. Durante la seconda guerra mondiale Capesius fu  farmacista ad Auschwitz, l’uomo che distribuiva le dosi dello Zyklon B, il gas usato per uccidere gli ebrei. Fu anche riconosciuto come uno degli ufficiali che operavano la selezione sulla banchina di arrivo: mandò a morire uomini, donne e bambini che conosceva di persona. Un romanzo-saggio che ricostruisce la vita di quest’uomo, che fu condannato a nove anni di carcere e poi continuò la sua vita tranquillamente.

INTERVISTA A DIETER SCHLESAK, autore de Il farmacista di Auschwitz


    ‘Capesius, chi era costui?’. In tedesco il titolo del libro di Dieter Schlesak riporta questo nome, Capesius, subito seguito dalla sua qualifica, der Auschwitzapotheker. Nella versione italiana c’è solo quest’ultima, Il farmacista di Auschwitz, perché altrimenti avremmo potuto farci la domanda di Don Abbondio: di certo il nome Victor Capesius non avrebbe detto nulla alla maggior parte degli italiani. Il farmacista di Auschwitz è un titolo senza ombre che colloca nel luogo e nel tempo il personaggio di Victor Capesius come agente di morte.

Nato a Reuβmarkt (nell’impero austroungarico di allora) nel 1907, Victor Capesius era figlio di un medico e farmacista, aveva studiato farmacia a Cluj (in Romania) e, dopo il servizio militare nell’esercito romeno, aveva terminato gli studi laureandosi a Vienna nel 1933. Dopo di che aveva lavorato come rappresentante farmaceutico per la Bayer. In seguito agli accordi tra Romania e Germania Capesius fu arruolato nella Wehrmacht e addestrato nel corpo delle Waffen SS. Dall’autunno del 1943 fino alla liberazione dei campi nel 1945 Victor Capesius fu responsabile della farmacia delle SS ad Auschwitz. Era l’uomo che consegnava le latte contenenti lo Zyklon B, perché fosse versato nella conduttura delle finte docce delle camere a gas. Ma non solo quello- dei sopravvissuti hanno testimoniato sulla sua presenza all’arrivo dei treni, sulla famigerata banchina di Auschwitz dove un cenno verso destra o verso sinistra significava vita o morte: Victor Capesius in quel delirio di onnipotenza che ti fa sembrare simile a Dio, perché sei padrone del destino dei tuoi simili.

     Il libro, romanzo, saggio storico, di Dieter Schlesak si aggiunge alla narrativa che già abbiamo sui campi di sterminio e sulle persone che hanno reso possibile il genocidio degli ebrei. Per alcuni versi Il farmacista di Auschwitz ci ricorda i due libri inchiesta di Gitta Sereny, In quelle tenebre e In lotta con la verità, il primo una lunga conversazione con Franz Stangl, capo del campo di Treblinka, e il secondo con Albert Speer, architetto personale di Hitler prima e poi ministro degli armamenti. Anche ne Il farmacista di Auschwitz lo scrittore interroga Capesius, incontrandolo a Göppingen, dove questi aveva aperto una farmacia dopo aver scontato i nove anni di reclusione a cui era stato condannato nel Processo Auschwitz. Come Stangl che aveva detto ‘Ho la coscienza pulita’, così Capesius non si riconobbe mai colpevole. Come Speer che- molto più intelligente di Capesius- si era costruito un’autodifesa in cui lui per primo voleva disperatamente credere (perché Speer è un incantatore ma è verosimile che, nelle sue parole, ‘non sapevo ma avrei dovuto sapere’?), anche Capesius manipola la verità, fabbrica e altera testimonianze, usa dei mezzucci meschini, tutti rivolti a provare che il tal giorno lui non era là, sulla banchina di Auschwitz, qualcuno lo aveva sostituito… Quanto ai contenitori dello Zyklon B…sì…no…erano sugli scaffali…lui non sapeva…In conclusione, lui, Capesius, come Stangl o come tutti gli altri citati nel libro, aveva obbedito agli ordini. Era innocente, se non davanti agli uomini, almeno davanti a Dio- come si trova scritto in una lettera del cognato Helmut. Perché Capesius era cresciuto con il mito, inculcatogli dal padre, dell’ordine e della legalità della Germania: ‘Sulla base di questo atteggiamento ho ritenuto che anche ciò che accadeva ad Auschwitz fosse legale, benché mi sembrasse crudele’. Non vorremmo usare le parole tanto sfruttate di Hannah Arendt, della banalità del male, eppure è proprio di questo che si tratta. Nel caso di Victor Capesius c’è un’aggravante alla sconvolgente banalità del male: tra la fine primavera e l’estate del 1944 arrivarono ad Auschwitz 34 treni dalla Transilvania settentrionale e dall’Ungheria e Capesius conosceva di persona molti di quegli ebrei che arrivavano sconvolti dal viaggio, si rallegravano al vedere un viso noto, si illuminavano di una troppo breve speranza di aiuto. Capesius non è solo l’indifferente carnefice. Capesius è il carnefice che è pure un traditore, dell’amicizia, della fiducia, di una basilare umanità.

     Dieter Schlesak, lui stesso appartenente alla minoranza tedesca di Romania, i cosiddetti Volksdeutche (cittadini di etnia tedesca ma senza la nazionalità tedesca) reclutati forzatamente nell’esercito nazista, adotta un espediente narrativo che aggiunge qualcosa alla singolarità del libro, trasformandolo da romanzo inchiesta o saggio storico su un personaggio da lui conosciuto in un’opera di alto valore letterario, un capolavoro del genere.
Ci sono due io narranti ne Il farmacista di Auschwitz, un testimone interno ai campi che ha scritto su minuscoli fogli di carta quello che ha visto, e un testimone esterno che raccoglie prove, si documenta, interroga. Il fittizio Adam, l’ultimo ebreo di Schäßburg (oggi Sighişoara), e lo scrittore stesso, nato nel 1934 in quella città.
E a volte, non fosse per quello che viene raccontato, per le scene d’orrore quotidiane nei campi che vengono descritte, pare quasi che le due voci si sovrappongano, divengano una nella compassione, nello sdegno che si sforza di trovare parole. E di trovarle in tedesco, salvando la lingua che è la loro, di Adam e di Schlesak, e non quella dei carnefici che l’hanno trasformata nella lingua dell’odio, un ringhio, ogni ordine come uno sparo.
Stilos ha chiesto a Dieter Schlesak di dirci di più su questo libro e su Victor Capesius, l’uomo dalla mascella larga e i capelli ravviati all’indietro che abbiamo visto nelle numerose fotografie che illustrano il libro domandandoci se qualcosa in quei tratti lasci intendere che è un assassino.
Dieter Schlesak
 La prima domanda che mi sono posta, quando ho preso in mano il Suo libro, è stata: ‘Perché questo libro adesso? Perché solo adesso, a oltre sessant’anni dalla fine della guerra?’ . Perché?
      Ho pubblicato il libro solo dopo la morte di mia madre, perché non volevo arrecarle dolore. In qualche modo, poi, mi sembrava che questo fosse il momento giusto, che il tema del libro fosse ‘maturo’. La sua domanda è importante perché c’è veramente, adesso, un grande pericolo: il fascismo è di moda. Il presidente della camera in Italia, Fini, è fascista. C’è anche il pericolo che Mussolini, o il rumeno Antonescu, vengano riabilitati. Ma era il momento giusto anche per me, il tema era arrivato a maturazione anche dentro di me. Ho incontrato a Monaco il mio amico ebreo-rumeno Norman Manea,
Manea
che ha passato cinque anni in un lager, e insieme a lui, quella sera, c’era il poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger. Entrambi mi hanno incoraggiato, mi hanno detto: “Ora devi pubblicare il libro. E’ il momento!”. Ed era veramente il momento, visto l’interesse che ha suscitato: in Italia si è arrivati alla terza edizione e ne sono state vendute diecimila copie, ed inoltre il libro è stato tradotto in polacco, rumeno, ungherese, e verrà pubblicato in America, Spagna, Brasile, Israele, Olanda.

La seconda domanda è stata: ‘Se il titolo originale è Capesius, vuol dire che c’è un luogo, ci sono delle persone a cui questo nome è noto. Perché non se ne è sentito parlare?’
  Capesius è un personaggio storico, aveva il rango più alto nel processo di Auschwitz, a Francoforte. E’ stato il farmacista della mia città natale, era molto conosciuto tra la mia gente, i sassoni della Transilvania. 

Leggendo il libro, mi sono resa conto che Lei aveva conosciuto di persona Capesius e non solo di recente, ma proprio al tempo in cui lui era ‘il farmacista di Auschwitz’. Che ricordi ha di lui a quei tempi? Era una personalità alla Dr.Jekyll e Mr. Hyde?

      Capesius era un personaggio molto vicino a me, appartiene al mondo dei miei ricordi. Sono state questa vicinanza e questa emozione che mi hanno permesso di scrivere un’opera di letteratura, che fosse nello stesso tempo romanzo e documentario. E tuttavia questo particolare ricordo della mia bella infanzia in Transilvania in quel tempo del massimo orrore ha anche rovinato i miei ricordi d’infanzia. Ho scritto anche di questo…una liberazione! E’ stato come levarsi un gran peso dalla memoria, perché c’è anche, in me, un complesso senso di colpa. Capesius era un uomo normale, un buon padre e un buon nonno. Eppure ad Auschwitz fu un carnefice e un criminale. Una doppia personalità, sì.
Ma io non posso e non devo solo accusare: faccio parte di una famiglia di una minoranza tedesca, con la stessa educazione di Capesius o di Roland Albert, altro personaggio del libro. Capesius è venuto dal mio nido, quasi dalla mia stessa famiglia, come anche Roland Albert. Altri quattro miei zii sono stati ufficiali delle SS nei lager di Buchenwald, Auschwitz, Neuengamme, Dachau e Flossenburg. Ma ho anche ricordi di bambini ebrei nel nostro cortile, la famiglia Baruch, della sinagoga, del rabbino. Anche loro conoscevano Capesius che poi li mandò nelle camere a gas. Fanno parte della mia infanzia. E dopo, quando ho saputo quello che era successo tra il 1940 e il 1945, i miei ricordi sono cambiati e si sono rovinati. Così con questi ricordi, che sono il materiale più vero per uno scrittore, ho scritto non solo Il farmacista di Auschwitz, ma tutta la mia opera.


E che cosa ha significato per Lei, in termini di sofferenza interiore e di emozioni, indagare sulla persona di Victor Capesius?
     Ho scritto il libro con un pensiero che mi assillava: se io fossi stato di otto anni più vecchio, che cosa ne sarebbe stato di me? Sarei finito anche io in questo mulino della morte? Come mi sarei comportato? Avrei eseguito anche io gli ordini, come loro, anche se andavano contro la mia coscienza? Perché io ho avuto la stessa educazione tedesca, dell’obbedire, del sottomettersi, e ho lottato tutta la vita contro me stesso, o contro questa educazione. E così è nata la mia trilogia transilvanica, Transylvanische Trilogie, dopo che, nel 1969, emigrai dallo Stato rosso, dalla Securitate, con tutte le paure e le persecuzioni- e anche questa esperienza si trova nei miei romanzi, nelle mie poesie e nella trilogia. Il primo volume è stato pubblicato a Zurigo nel 1986, sedici anni dopo l’emigrazione, e già lì c’erano Capesius, Roland e tutti i colpevoli della mia famiglia. Esistevano già le discussioni con la mia famiglia, le interviste registrate come documenti, giorni e giorni di interviste a Capesius e a sua moglie, a Roland e a mio zio. C’erano anche le lettere del tempo di guerra dell’archivio di famiglia, scritte dai lager a casa, in Transilvania. Questo materiale si trova nel primo volume che ha un titolo che viene in parte da Hölderlin, I giorni della patria e l’arte della sparizione. Il secondo volume è Il farmacista di Auschwitz e il terzo ha ancora un titolo provvisorio in italiano, Transilmania- sarà pubblicato sempre da Garzanti. No, non posso dire di sentirmi liberato, dopo questo libro, anche perché, dopo la pubblicazione, c’è sempre un grande bisogno di sapere da parte dei lettori. Sono arrivati inviti di presentazioni, interviste come questa, articoli e discussioni. Devo dire, però, che questo è uno stress positivo, è un genere di felicità ‘pesante’: il mio peso della memoria, l’abisso e i dolori che ho portato in me sono diventati produttivi e ora servono…


Quando, cioè in quale momento della sua ‘creazione’ del romanzo, e perché ha deciso che ci sarebbero stato un altro ‘io’ narrante, oltre a Lei stesso, il fittizio Adam?
     Prima ho cercato, come autore, di fare un libro raccontando i fatti con una lingua da autore. Era impossibile, assolutamente impossibile fare un romanzo normale con questa tremenda tematica. Io, come autore, non avevo nessun mandato. Così ho creato un personaggio che radunasse in sé tutti i testimoni che hanno raccontato del loro vissuto ad Auschwitz, tutte voci non Transilvaniche con le testimonianze più dense e drammatiche, sia sentite ai processi o lette nella memorialistica. Così non c’è niente di inventato neppure nella voce di Adam.

Lo ha chiamato Adam come il primo uomo, nome che significa, appunto ‘uomo’, per indicare che al posto di Adam potrebbe esserci chiunque? Adam che è l’umanità, dunque?
    Sì: a prima vista Adam è l’ultimo ebreo di Schässburg, la voce delle vittime di Sighişoara e della Transilvania. Ma alla fine è una voce e una coscienza collettiva, la voce dell’umanità stessa che ha sofferto questa tremenda interruzione della civiltà.


Ricorrono spesso, nel libro, parole in difesa del tedesco. Adam rivendica il tedesco come la sua madrelingua e il suo tedesco non è lo stesso di quello che i carnefici hanno trasformato nella lingua dell’odio. Dietro questa rivendicazione della lingua tedesca c’è anche- se la lingua è la patria di un uomo- la rivendicazione della Germania come la propria Vaterland, la Germania della filosofia e della musica in opposizione alla Germania dei macellai criminali?
     Sì, è proprio così. Ci sono due lingue: il tedesco di Adam, che è la lingua della cultura tedesca- Adam è uno scrittore ebreo tedesco, alla pari di tanti grandi poeti, romanzieri e scienziati ebrei, Kafka, Celan, Freud, Einstein, - in opposizione alla lingua abbaiata dagli SS. Oppure anche alla lingua di Hitler e della ideologia nazista. Victor Kemperer ha scritto un libro su questa lingua, LTI, ‘lingua tertii imperii’.

A proposito di differenze linguistiche: come era il tedesco di Capesius? C’è solo qualche cenno che non sia un bel tedesco, ma noi leggiamo la traduzione e non siamo in grado di capire la portata della differenza.
     La lingua di Capesius non corrisponde neppure del tutto alla LTI, tranne che per qualche termine, come KL, Konzentrationslager, o Entwesung per disinfettare…La sua lingua, anche quella scritta è burocratica e fredda. Sono però importanti gli errori che faceva Capesius nell’uso della lingua, e purtroppo non si possono tradurre: parlava un tedesco scorretto, illogico, scarno. Credo che la sua psiche sia stata traumatizzata, forse distrutta. Era il suo inconscio che parlava. Credo che sia esistita una morte psichica delle SS: anche loro sono state, in un certo senso, delle ‘vittime’. Nessuno è interamente senza coscienza morale, questa coscienza è stata affogata dall’obbedienza e dall’ideologia. Ma la coscienza sommersa ha lavorato dentro di loro.

Ci sono tre strati linguistici nel libro: il primo, di un livello più elevato, è il tedesco di Adam che per lui è anche la lingua in cui si può parlare di Dio; poi c’è la Lagerszpracha, la lingua del campo, e infine al livello più infimo c’è il tedesco dei carnefici. Mi può parlare della Lagerzspracha? Qualcuno ha scritto un dizionario dei termini di questa sorta di esperanto dei campi?
   Il Lagerszpracha è l’esperanto dei prigionieri, formato soprattutto da parole prese dal polacco e dal tedesco, ma anche dalle altre quaranta lingue parlate nei lager. Non esiste un vocabolario del Lagerszpracha, ma c’è un ampio glossario nel lavoro scientifico di Martin Winmann e nel lavoro di Wolf Oschlies. Ci sono forse una decina di testi su questa lingua comune nei campi, ma manca un libro. C’è poi il Dictionar de lagär, dell’ebreo rumeno Oliver Lustig, in cui lo scrittore ha raccontato la sua esperienza del lager utilizzando parole tedesche adeguate, da ‘ab’ fino a ‘Zynismus’.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos