lunedì 30 ottobre 2017

Steinar Bragi, “Il silenzio dell’altopiano” ed. 2017

                                                         vento del Nord
                                                 cento sfumature di giallo
                                                 FRESCO DI LETTURA

Steinar Bragi, “Il silenzio dell’altopiano”
Ed. Marsilio, trad. S. Cosimini, pagg. 282, Euro 15,30

      Due coppie sulla quarantina sono partite da Reykjavic per allontanarsi dalla gente, dai ritmi della vita quotidiana, dai rumori. Una cosa è certa: sull’altopiano centrale dell’Islanda non sentiranno che il fischio del vento e non vedranno un essere umano nel raggio di molti chilometri. Hrafn ha sempre avuto una vita agiata e ha avuto successo come imprenditore. La sua compagna, Vigdìs, è stata la sua terapeuta perché Hrafn ha avuto problemi con l’alcol. Egìll ha tuttora problemi con l’alcol, non fa che bere, durante il viaggio e anche dopo, in tutto il romanzo. Il suo rapporto di coppia con Anna non è dei più felici. In realtà nessuno dei quattro sembra essere molto felice, ci sono discussioni, battibecchi, gli uomini occhieggiano l’uno la donna dell’altro. Poi cala la nebbia, improvvisa e fitta come sempre succede sull’altopiano. E la macchina si schianta contro qualcosa, anzi entra addirittura dentro una casa.
    Da questo punto in poi il romanzo diventa un thriller gotico, una storia dell’orrore, un mystery che trabocca di personaggi strani ed eventi ancora più strani. Una coppia anziana abita nella casa. Il vecchio sembra demente (eppure, poi, ‘gli ospiti’ vedranno incorniciati attestati e certificati che rivelano che un tempo fu un medico e uno studioso), la vecchia è di poche parole (e ambigue). Perché chiudono la porta a chiave? Hanno paura di qualche minaccia dall’esterno?
I tentativi dei quattro di andarsene falliscono- anche l’automobile che prendono in prestito dai vecchi si ferma nel nulla. Il cane dei quattro scompare, c’è una diga con un ponte sospeso staccato ad una estremità, grotte scure, una recinzione, mucchietti di ossa (di uccelli?). Insomma, aggiungete pure alla lista quanto di più orrido e spaventoso possiate immaginare. Per non dire di quello che succede a due di loro che si avventurano in una grotta. Oltre a quello che scopre Anna esplorando la casa- una stanza biblioteca, una parete girevole, una pistola…

     Ho continuato a leggere “Il silenzio dell’altopiano”, anche se non mi piaceva nessuno dei personaggi, anche se i racconti della loro vita mi parevano sconnessi e le scene di sesso sgradevoli, perché ero in continua attesa di una svolta, di una chiarificazione che mi aiutasse a rivalutare quello che avevo letto, perché lo scrittore è abile nel manipolare la curiosità del lettore. E sì, alla fine ho capito il perché di quella trama così granguignolesca al limite dell’assurdo e dell’incredibilità, ma questo non mi ha aiutato ad apprezzare di più il libro. Mi è sembrato di essere stata imbrogliata e di aver sprecato il mio tempo.


domenica 29 ottobre 2017

Daphne Du Maurier, “Mia cugina Rachele” ed. 2017

                                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
  cento sfumature di giallo
   FRESCO DI LETTURA

Daphne Du Maurier, “Mia cugina Rachele”
Ed. Neri Pozza, trad. Marina Morpurgo, pagg. 383, Euro 17,00


   Gli incipit di Daphne Du Maurier sono sempre memorabili. “Un tempo gli assassini li impiccavano a Four Turnings. Ora non più.”. Sono anche le stesse parole che chiudono il romanzo “Mia cugina Rachele”, pubblicato per la prima volta nel 1951 e riproposto ora dalla casa editrice Neri Pozza. Ho divorato il libro con lo stesso piacere provato quando lo lessi la prima volta, tantissimi anni fa, e poi sono tornata a rileggere il primo capitolo, con una comprensione maggiore per le parole del narratore Philip Ashley che ricorda quando- era un bambino ed era insieme ad Ambrose (suo cugino ma anche una sorta di padre-zio-fratello maggiore-tutore-tutto il suo mondo)- aveva visto un uomo penzolare da una forca e gli aveva scagliato un sasso. Il Philip adulto chiede perdono al morto di allora, “Nessuno verrà mai a sapere quale fardello di colpe mi porto addosso; nessuno saprà che ogni giorno, ancora tormentato dal dubbio, mi pongo una domanda alla quale non so dare risposta. Rachele era innocente o colpevole?”.

   Tutta la trama poggia su questo dubbio e Daphne Du Maurier è maestra dell’ambiguità, del condurre il lettore ad una convinzione e poi rimettere tutto in gioco e lasciarlo vagare nell’incertezza sulla vera natura dei suoi personaggi- era così ne “La prima moglie” e lo è pure in “Mia cugina Rachele”.
Il mitico Ambrose, il fantasma che si aggira per tutto il libro e di cui Philip sembra essere il doppio- non solo gli assomiglia tantissimo ma pare rivivere la sua stessa vita con gli stessi suoi sentimenti-, era partito per l’Italia perché il clima della Cornovaglia era troppo umido per lui. Laggiù si era sposato con una vedova, Rachele per l’appunto, figlia di madre italiana e di padre inglese, un parente degli Ashley. Philip si era sentito geloso, le lettere di Ambrose scarseggiavano, parlavano della sua felicità e della bellezza della natura. Gli ultimi messaggi, invece, erano un grido, una richiesta di aiuto. Ambrose era ammalato, aveva feroci emicranie. Velatamente accusava Rachele, “Rachele, il mio tormento, mi sta distruggendo.” .
    Philip è prevenuto e lo è anche il lettore, naturalmente. Il viaggio di Philip in Italia, quando Ambrose è già morto, rinforza le sue impressioni e la sua antipatia. Quando Rachele arriva in Cornovaglia, nella grandiosa tenuta degli Ashley, Philip è corazzato contro di lei, pronto a trattarla con freddezza, a chiuderle la porta in faccia. E invece…se ne innamora perdutamente, come potevamo aspettarci, come era successo ad Ambrose, con l’aggravante che Philip è giovane, è cresciuto senza una presenza femminile in casa, ha un’amica d’infanzia che è quasi una sorella per lui e le altre ragazze del paesotto vicino non sono degne di attenzione.

   Philip deve compiere venticinque anni, un compleanno importante perché solo quel giorno sarà il legittimo erede di tutti i beni di Ambrose che, come sappiamo da stralci di lettere non finite che saltano fuori come fossero state nascoste per sottrarsi ad occhi curiosi, non ha cambiato il testamento a favore della moglie. Philip parte a lancia in resta: è un’ingiustizia, Rachele avrebbe dovuto ereditare tutto, casa, terre, gli splendidi gioielli. Non pensa neppure per un attimo che il soggiorno prolungato di Rachele sia dettato da altro che non sia il desiderio di godersi la sua compagnia nei luoghi amati da Ambrose (ci pensa l’avvocato di Ambrose, però). Il lettore non sa che pensare. Sospetta di Rachele ma è trascinato dall’entusiasmo amoroso di Philip. E’ possibile che Rachele sia una così brava attrice? Dopo un’altalenarsi di episodi ‘pro e contro’, arriva il trionfo del giorno del compleanno e poi la doccia gelata, il colpo di scena. E tuttavia non è l’ultimo colpo di scena, andate avanti a leggere…


    Ci sono certi libri che non tramontano mai. Questo, con la raffinatezza della sua scrittura e la sottigliezza dell’analisi psicologica, è uno di quelli.


per contattarmi: picconem@yahoo.com

Daphne Du Maurier, MY COUSIN RACHEL | Official Trailer

                Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda               
                             dal libro al film



il trailer del film tratto dal libro di Daphne Du Maurier



venerdì 27 ottobre 2017

Mike Phillips, “L’ombra di me stesso” ed. 2006

                                   Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                      thriller
                                                                      love story
        il libro ritrovato

Mike Phillips, “L’ombra di me stesso”
Ed. Baldini Castoldi Dalai, trad. Silvia Fornasiero, pagg. 468, Euro 18,50

Amburgo, Praga, Berlino, anni 1998-1999. George Coker, figlio di padre ghaneano e di madre russa, è coinvolto in un traffico illecito di oggetti d’arte che gli mette la mafia russa alle calcagna. Durante il festival del cinema a Praga incontra il regista Joseph Coker, che ha scoperto casualmente essere suo fratello, figlio dello stesso padre, quel Kofi Coker che era stato a Mosca negli anni ‘50. I drammi familiari si intrecciano a quelli connessi al crollo del blocco dei paesi sovietici.

INTERVISTA A MIKE PHILLIPS, autore di “L’ombra di me stesso”

   E’ pieno di ombre il romanzo “L’ombra di me stesso” dello scrittore Mike Phillips, nato in Guyana ma residente a Londra fin dall’infanzia. Ombre di persone che sembrano sdoppiarsi, ombre di quello che si è stati e non si è più, ombre di minacciose figure politiche e di regimi che hanno plasmato gli individui di intere nazioni, e poi ancora ombre come oscurità nelle scene notturne in una Praga dal fascino pericolosamente ambiguo. “Il mio Doppelgänger”, dice George al fratello minore che gli assomiglia moltissimo, stessa pelle color ocra, stessa increspatura sul labbro. Anche se uno è in parte russo e si considera un tedesco perché è nato a Berlino e l’altro è per metà inglese.
Ma chi sono in realtà questi tre uomini, padre e due figli? “Un tempo ero un ghaneano”, dice il padre, Kofi. “Adesso ho un passaporto britannico. Ma quello che sono qui dentro…non lo so più.” Perché la ricerca dell’identità è uno dei temi di questo romanzo ricco e appassionante, identità personale e identità della coscienza politica dieci anni dopo la caduta del Muro- almeno per tutta la generazione che è stata piegata da forze a cui era impossibile resistere. E, parallelamente, c’è pure un’altra ricerca- del figlio che cerca il padre che non ha mai conosciuto e di cui ha sentito parlare come di un eroe, dell’altro figlio che invece ha sempre saputo chi fosse suo padre ma si rende conto di non conoscerlo affatto, e infine del padre che ritrova entrambi i figli e riconosce immediatamente, visceralmente, quello di cui ignorava l’esistenza e pensa alla parabola del figliol prodigo. Per sapere da dove sia partito Kofi- su una nave diretta a Liverpool dal Ghana-, che cosa lo abbia portato in Unione Sovietica- l’appoggio del futuro presidente Osagyefo che aveva incontrato in un pub- e infine della sua espulsione e del ritorno in Inghilterra, dobbiamo leggere le pagine del diario di Kofi che ci riporta al 1956, a Mosca.
“Quello che più ricordo è il vento…”, ma, insieme al vento, vengono fuori i ricordi dei compagni di corso e di alloggio, la sensazione di vivere costantemente sotto controllo, gli ideali e le delusioni, l’esaltazione di un incontro con Krushev e un viaggio nel Nord del gelo, fino a Kalinin. E naturalmente l’immagine di Katja, l’insegnante di russo di cui Kofi si innamora, la prima in una galleria di donne simili fisicamente l’una all’altra pur se di nazionalità diverse, aureolate da fini capelli biondi, lunarmente bianche vicino alla pelle scura dei tre Coker. Questo è un altro filone del romanzo, accanto all’intreccio dei rapporti familiari e a quello del thriller con esecuzioni e sequestri di persona che ricordano i metodi del KGB: “L’ombra di me stesso” è anche una storia di amore, grande perché contrastato, in un’epoca e in un paese in cui il Partito entrava anche in camera da letto. Solo a quarant’anni di distanza Kofi verrà a sapere da chi era venuta la delazione. Chi aveva frugato tra le sue carte, conoscendo l’inglese così bene da comprendere che il messaggio di Katja- una sola parola, “Abyssinia”, che si pronunciava come “I’ll be seeing you”- era la promessa di un incontro all’estero.  L’incontro c’è, a Berlino e non a Parigi, nel 1999 e non nel 1957. Non c’è più il paese in cui si sono conosciuti; quello che era impossibile e proibito- il loro amore, il libero commercio, l’impresa privata- adesso è permesso. C’è chi si è arricchito e chi è stato travolto, chi è stato ammazzato e chi non si è arreso. “Questo per me è un nuovo mondo. Voglio trasformarmi in modo da avere una vita di successo”, dice George alla fine, inoltrandosi in un’altra ricerca di se stesso e lasciando la moglie e il figlio al fratello, il suo Doppelgänger. Stilos ha intervistato Mike Phillips.


I tre personaggi principali del libro sono di colore e uno dei temi del romanzo è quello dell’estraneità, di sentirsi diverso: riflette la sua esperienza?
     Certamente, ma è più complesso. La mia esperienza ha a che fare con l’essere un immigrato in Gran Bretagna, ma la storia del libro è basata sulla storia di più di una persona che conosco. Mio fratello ha studiato in Russia e Polonia e mi ha raccontato dei suoi anni laggiù. A Londra conoscevo un uomo che negli anni ‘50 fu un agente politico dei comunisti e faceva avere borse di studio per Mosca ai giovani. Ho anche usato la storia di un mio amico che “scoprì” di avere un padre nigeriano e lo incontrò per la prima volta a 30 anni. Ma la parte centrale del libro è proprio su mio fratello maggiore che era venuto in Inghilterra con i nostri genitori- io ero stato lasciato con i nonni in Guyana e li ho raggiunti dopo- e poi è scomparso a 17 anni e non ha più dato notizie di sé. Io sono praticamente cresciuto in Inghilterra, ho frequentato lì le scuole; poi, da adulto, quando dirigevo un ostello per giovani senza casa, qualcuno mi ha suggerito di rivolgermi per consigli ad una persona che faceva lo stesso lavoro a Manchester. Ho telefonato, la persona aveva il mio stesso cognome e a un certo punto mi ha detto, “penso di essere tuo fratello”. Sono andato a trovarlo, non ci vedevamo da 20 anni. Una volta camminavamo per strada e lui si è fermato a parlare con un uomo in una lingua straniera- era polacco, e allora mi ha raccontato della sua esperienza in Russia e Polonia: tutte queste cose sono finite nel mio libro.

E la parte che riguarda Berlino?
   Quella è la mia esperienza: ero a Berlino quando è caduto il Muro e sono andato dall’altra parte per vedere come fosse. Quello che mi ha colpito nella Germania dell’Est e in Cecoslovacchia e in Russia è stato come gli edifici e l’atmosfera ricordassero quelli che avevo trovato al mio arrivo a Londra nel 1956- per inciso, ecco perché è una data importante nel libro. A dieci anni dalla fine della guerra c’erano ancora tante macerie, la gente sembrava scarna, si vedevano le conseguenze delle privazioni. Andare nell’Est dell’Europa mi ha fatto tornare indietro nel tempo. E, parlando con la gente, mi ha colpito come i sentimenti verso i paesi dell’Europa occidentale fossero simili a quelli che avvertivo nelle colonie, un miscuglio di risentimento e ammirazione. Mi pareva importante che, nonostante fossero stati governati da una filosofia che esaltava il materialismo, fossero così assetati di spiritualità. Avevano molto rispetto per il lavoro intellettuale, non c’ero abituato, ad Ovest è importante il successo e significa soldi. C’è tutto questo dietro a quello che cercavo di fare nel mio libro. Il punto è che la mia consapevolezza di essere straniero quando ero giovane fu un ingresso per entrare in esperienze diverse. E poi, a un certo punto, smisi di essere uno straniero e diventai un inglese.


Quando accadde?
     Sembra strano, ma lo so esattamente. Avevo 18 anni ed ero al mio primo viaggio di studio all’estero, a Parigi. Era tutto molto eccitante, ero in stanza con un ragazzo marocchino che continuava a rubarmi la coperta e abbiamo iniziato a litigare. C’era un gruppo di ragazzi di Londra e, quando hanno sentito il mio accento, hanno iniziato a parteggiare per me: ero uno dei loro.

L’ambientazione del romanzo è molto ampia, Amburgo, Berlino, Praga, Mosca. In parte ha già risposto, ma perché ha scelto proprio i paesi dell’Europa dell’Est per questa storia?
     E’ successo anche per caso. Ho sempre avuto un rapporto romantico con i paesi dell’Est; un film che ho amato molto è stato “Il terzo uomo”, immaginavo spesso di vivere in una scena del film. Aggiungiamo la suggestione dell’impero austro-ungarico…E poi ho avuto una fellowship dall’Arts Foundation e sono andato a Praga, sono rimasto affascinato da una frase, ‘la defenestrazione di Praga’ e ho scoperto cose interessanti. Da lì sono andato in Russia e ho sentito che dovevo scrivere di questi paesi. E forse non è popolare dirlo, ma c’è molto che mi intriga della Germania. Dopo la caduta del Muro sembrava che il confronto tra l’Occidente e l’Europa dell’Est includesse l’emigrazione, il colonialismo, cambiamenti nel sistema economico: mi interessava tutto questo.

Nel romanzo ci sono tre uomini di colore e tre, forse quattro, donne bionde: non è uno stereotipo, questa attrazione dell’uomo dalla pelle scura per la donna bionda?

    Ricorda “Cime tempestose”? come i colori della carnagione, degli occhi e dei capelli dei personaggi vengano a simbolizzare un confronto? Quando ho pensato alla prima relazione, quella tra Kofi e Katja, ho pensato alla storia di Kofi, al dramma fisico del colore della pelle e mi è sembrato che quelle diversità sarebbero state simboliche per un lettore, facili da vedere, e volevo continuare quel simbolismo fisico. Quando Kofi arriva dall’Africa, è l’Africa che confronta l’Europa. Poi la cosa si fa più complessa. Joseph e George sono figli di un nero e di una bianca. Sono scuri ma con questa mescolanza- sono visti come neri ma sono neri esattamente come sono bianchi. Per me intellettualmente voleva dire l’insignificanza di quelle categorie.

Kofi, Joseph e George, padre e figli: dei tre, Joseph è la figura più “d’ombra”, George, che ha fatto l’informatore della Stasi ed è ai margini o fuori della legge, è quello la cui vita è più piena di ombre, e Kofi è l’uomo che di sé dice di essere l’ombra di quello che era. Perché questo girare intorno al tema dell’ombra?
    E’ una domanda che mi coinvolge emotivamente e non so bene perché. Ho iniziato con l’idea dell’ombra, con il contenuto letterario del Doppelgänger che mi veniva dal “Compagno segreto” di Conrad: era il principio che teneva insieme tutto il libro.
Il senso che abbiamo tutti un doppio da qualche parte, l’idea platonica che l’amore è due metà che si ritrovano. Kofi e Katja si scoprono e si innamorano per quel processo misterioso per cui due magari non parlano la stessa lingua ma si innamorano. La seconda cosa è il senso di separazione e di perdita che si risolve quando incontri l’altra metà. Ho iniziato con la separazione da mio fratello, ci sono tante famiglie che vengono separate. E’ un libro su coppie divise a metà che cercano di riunirsi. Questa è la prima ombra: tutti sono un’ombra l’uno dell’altro e non potevano essere completi senza riunirsi. L’ombra è parte di te ma è una separazione. E poi un’altra cosa sull’ombra: Praga è un luogo d’ombre, con strade strette e pericolose. Questo luogo d’ombre è una metafora dell’identità politica e sociale della nostra società. Un’ultima osservazione: l’espressione “l’ombra di me stesso” implica degenerazione. Kofi diventa l’ombra di se stesso perché non può essere la persona che doveva essere- è una sua riflessione sulla sua esperienza di emigrante.       

Eppure il personaggio di Kofi appare più grande accanto ai figli, anche se non è un eroe. E’ perché, come dicono Katja e Radka che hanno vissuto in paesi comunisti, l’eroismo era quasi impossibile in quei tempi? E che si poteva solo cercare di fare del proprio meglio?
    Una delle critiche che sono state fatte al mio libro riguarda il relativismo del romanzo. Un critico tedesco si è sentito offeso dal fatto che lo spionaggio non venga condannato. La verità è che Kofi è eroico perché è il prodotto di tempi eroici. Viene da un tempo in cui il mondo è cambiato positivamente. E’ nato e cresciuto nel momento in cui l’intera Africa si scrollava di dosso il colonialismo, il mondo cambiava come non sarebbe più cambiato, come dopo la rivoluzione russa quando tutto sembrava possibile e pareva si potesse rimodellare l’umanità. Poi tutto è scomparso. Ma la gente prodotta da quel momento era di mente eroica. Il libro mostra la scomparsa dell’ottimismo, inizia con l’associazione di Kofi con Kenyatta e finisce con la rassegnazione. Ma serve per confrontarlo con le persone che vennero dopo, che accettarono dei compromessi che li diminuivano.

Valerij, l’uomo che tradì Kofi, che rovinò la vita di Kofi e Katja e salva il loro figlio alla fine, è in contrasto con il personaggio di Kofi: che cosa rappresenta Valerij?
     Valerij è la mafia russa, una parte del nostro mondo. Rappresenta una fase del capitalismo che si è mosso attraverso l’Europa cambiando la società. Valerij è amorale, usa il suo potere in maniera capricciosa, volevo metterlo in equilibrio con Kofi- avevano iniziato insieme con le stesse speranze nella Russia. Il cinismo di Valerij è associato al fatto che capisce. Sono due diverse maniere di trattare con la sconfitta. Kofi si rassegna e Valerij decide di essere potente.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos

                              

mercoledì 25 ottobre 2017

Fernando Aramburu, “Patria” ed. 2017

                                         Voci da mondi diversi. penisola iberica     
                                                             la Storia nel romanzo
                                                              FRESCO DI LETTURA


Fernando Aramburu, “Patria”
Ed. Guanda, trad. Bruno Arpaia, pagg. 623, Euro 16,15

     Euskal Herria: nel romanzo “Patria” di Fernando Aramburu sentiamo spesso ripetere queste due parole- la denominazione dello stato indipendente e socialista per cui combattono i terroristi (o patrioti?) dei Paesi Baschi raggruppati nell’organizzazione armata dell’ETA (acronimo per Euskadi Ta Askatasuna, Paese basco e libertà). Tutti i protagonisti del libro amano intensamente Euskal Herria, tutti loro parlano (e si vantano di parlare) euskera. Anzi, è un fattore discriminante, il parlare castigliano o euskera. Quando Aurantxa si innamora di Guillermo, la prima obiezione di sua madre è- ma che nome è questo? Non è di certo un nome basco. Parla euskera questo Guillermo? E tuttavia non sono tutti d’accordo sulla violenza, sugli attentati, sull’assassinio di persone innocenti a scopo intimidatorio.

     In una cittadina non nominata della provincia di Guipuzcoa vivono due famiglie, amiche da una vita. Il Txato (sempre chiamato con questo soprannome), proprietario di una piccola azienda di trasporti, sua moglie Bittori e i figli Xabier e Nerea da una parte e Joxian, operaio in una fonderia, Miren e i figli, Joxe Mari, Arantxa e Gorka, dall’altra. Non c’è proprio niente da appuntare al Txato, è un uomo corretto e generoso- comprava il gelato per i suoi figli, quando erano bambini, e lo comprava anche per i tre figli di Joxian, regalava un braccialetto alla piccola Nerea ed uno uguale ad Arantxa, era lui che aveva insegnato a Joxe Mari ad andare in bicicletta. Quando sono incominciati i ricatti, le richieste del ‘pizzo’ da parte dell’ETA per alimentare la lotta, dapprima il Txato ha pagato. Quando le richieste si sono fatte più pressanti, si è trovato in difficoltà. Sono apparse scritte minacciose sui muri, il suo nome in un mirino: la sorte del Txato era segnata. Non aveva voluto seguire i consigli del figlio, di trasferire l’azienda altrove, di andare ad abitare a San Sebastiàn- intanto ora nessuno gli rivolgeva più la parola in paese, nessuno voleva essere accomunato a lui. troppo pericoloso. E lo avevano ammazzato. In un pomeriggio di pioggia, nel breve tratto tra la sua casa e il garage.

    E’ la morte del Txato il nodo cruciale del romanzo, il punto in cui tutte le storie confluiscono, anche se non sembra. Il tempo va avanti e indietro- i bambini sono piccoli e Bittori e Miren sono indivisibili, Arantxa è paralizzata dopo un ictus, anni prima Arantxa ha incontrato Guillermo, il Txato persuade Nerea ad andare a studiare a Saragozza perché l’ETA minaccia di colpirlo nei suoi affetti più cari, Joxe Mari inizia la militanza, un suo amico viene trovato morto (suicidio come si vorrebbe far credere? o eliminato dalla guardia civil?), Gorka è l’intellettuale di famiglia, la sua maniera di combattere per Euskal Herria è scrivere poesie in euskera, Xabier fa il medico in ospedale e si innamora di un’infermiera, Joxe Mari viene istradato agli attentati…E il Txato muore e muore ancora. Il Txato è la vittima per tutte le 800 vittime dell’ETA. Eppure abbiamo la sensazione che il Txato non sia l’unica vittima, ma che tutti- compreso Joxe Mari- siano vittime della Storia. Il Txato e la sua famiglia- con Bittori che va al cimitero per parlare con il marito e vuole una cosa sola prima di morire in pace, che Joxe Mari le chieda perdono- sono le vittime riconosciute, ma anche il padre di Joxe Mari, che ha perso il suo migliore amico, che porta di nascosto un mazzo di fiori sulla sua tomba, è una vittima. Lo è Miren che va in chiesa per confidarsi con la statua di san Ignazio ed è costretta a schierarsi a fianco del figlio- potrebbe fare altrimenti una madre?
Lo è lo stesso Joxe Mari che ha passato diciassette anni chiuso in prigione quando l’Eta raggiunge un accordo con il governo e si accorge che la vita per lui è passata. Si sente truffato: per che cosa ha combattuto? Erano validi gli ideali in cui ha creduto, in cui gli hanno fatto credere? La Storia va avanti senza girarsi indietro, calpestando i morti, triturando i vivi.
    Bellissimo, in un alternarsi di storie che a volte strappano un sorriso e a volte ci fanno piangere, che parlano anche di amore- amor di patria e vari tipi di amore- e non solo di guerra e di morte.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net


per contattarmi: picconem@yahoo.com

    

martedì 24 ottobre 2017

Bernardo Atxaga, "Il libro di mio fratello" Intervista 2008

                                     Voci da mondi diversi. Penisola iberica       
                                          la Storia nel romanzo


Il Festival della Letteratura di Mantova si è svolto all’insegna del linguaggio quest’anno- lingue delle minoranze, lingue che corrono il pericolo di scomparire, lingue perseguitate in certi periodi storici. Una serie quotidiana di eventi era dedicata ad un ‘vocabolario europeo’, in cui ogni scrittore ‘regalava’ una parola della sua lingua. In questo contesto il romanzo di Bernardo Atxaga (pseudonimo di Joseba Irazu, scrittore nato nel 1951 a Asteasu, Guipuzcoa) acquista un valore particolare- basta pensare al dettaglio delle parole della lingua basca che il protagonista seppellisce per gioco insieme alle sue bambine. Abbiamo parlato con lui del suo romanzo e dei Paesi Baschi.

 Iniziamo da un personaggio ‘non umano’ che ho trovato intrigante: la farfalla. Di che cosa è il simbolo la farfalla e i cento modi di dire farfalla?

     Penso che in un libro di finzione narrativa tutti gli elementi debbano essere sfruttati, debbano ‘lavorare’ molto. E la farfalla non può essere solo simbolo dello spirito. Ad esempio, quando una farfalla esce volando da una tomba, è un simbolo di resurrezione. E nel libro è questo, però le farfalle rappresentano anche i personaggi. In un capitolo ad ogni persona corrisponde una classe di farfalle- questo è valido anche per i falsi entomologi per cui la farfalla è la scusa per essere sul posto. Per me personalmente la farfalla è un elemento della mia personalità: nel centinaio di poesie che ho scritto, in una trentina appare la farfalla. Nella lingua spagnola la parola farfalla, mariposa, viene da una canzone alla Vergine Maria, dalle parole che dicono, ‘Maria, fermati, posati’- c’è un’associazione tra la farfalla bianca e Maria. In basco è notevole che ci siano quasi 100 modi di dire ‘farfalla’- il più raro è pinpilìnpausa, una parola che imita non un suono ma il movimento: è una rarità linguistica.

Il libro è pervaso dalla nostalgia per un mondo che scompare: il ‘vecchio paese’, ‘la vecchia lingua’…teme l’assimilazione da parte della Spagna e della cultura spagnola? C’è stato un tentativo di genocidio culturale da parte della Spagna franchista?
     Credo che il tono del libro sia elegiaco più che nostalgico, perché inizia dalla fine della vita. Mi piace il tono elegiaco, mi piace lo sguardo sulla vita dalla fine, c’è molta verità nello sguardo finale come nello sguardo dei vecchi. I vecchi sanno quello che è importante nella vita, hanno esperienza. Mi piacciono gli sguardi finali, sono più esatti. Il rapporto dei Paesi Baschi con la Spagna della dittatura fu molto duro, ma non sarebbe giusto dire che la dittatura fu contro i baschi. Non fu una lotta tra Spagna e baschi, non fu una repressione di una dittatura fascista sui diversi. Era contro la cultura basca, questo sì. Non posso e non voglio dimenticare che era proibito parlare in basco in pubblico e anche a scuola, naturalmente. Era una situazione incredibile a pensarci ora. E tuttavia c’erano molti baschi nel governo franchista.

Di quali significati aggiunti, di quali dramma aggiunti, si è caricata la guerra civile nei paesi baschi?

     Durò più a lungo nei paesi baschi. E’ apparsa ora una tomba collettiva di 1000 persone fucilate in Andalusia, in Navarra 3000 persone furono fucilate nel primo mese di guerra: ora viene fuori la verità. Nei paesi baschi fino al 1958 non si poteva pubblicare un libro in basco: il dopo-guerra durava ancora. Prendiamo il caso di Guernica- il primo bombardamento su civili nel corso della guerra. Fino a quasi il 1970 non si poteva scrivere che il bombardamento era stato opera dei nazi-fascisti: l’ombra durò di più sui paesi baschi. Perché la guerra civile fu brutale in Andalusia, in Navarra, e non sarebbe giusto dire che fu più tremenda nei paesi baschi. Quello che fu brutto è che non ci poteva essere un’università nei paesi baschi, oltre a quella privata. E’ paradossale che io mi sia laureato all’università di Bilbao e che, però, sui documenti, risulti laureato a Valladolid.

Dopo la farfalla, un altro personaggio centrale e non umano: il nascondiglio. Mi è parso che il nascondiglio abbia un significato arcano, al di là del luogo in cui si sfugge al nemico…
      Il nascondiglio esiste veramente: nella mia casa c’era un nascondiglio così che risaliva al secolo XIX. Dava l’idea di un paese in guerra. L’ho utilizzato perché mi serviva un posto per nascondere il cappello e tirare fuori la storia dell’americano. E’ un simbolo della storia dei paesi baschi: in passato serviva per nascondere i ragazzi che si sottraevano alla leva forzata durante le guerre carliste; nella guerra civile serviva per nascondere quelli che erano perseguitati; nella mia generazione per nascondere i sequestrati…rappresenta la storia politica e violenta dei paesi baschi.


Ora una domanda su cui Lei- o meglio, il personaggio-scrittore- ironizza nel romanzo: c’è Lei dietro Joseba, c’è qualcosa di lei in entrambi i due personaggi?
     Ci sono tante persone dietro tutti i personaggi di questo romanzo: quelli che hanno studiato con me a scuola e poi i miei compagni di università. Ma anche i miei fratelli e la mia famiglia: io sono dietro tutto quello che accade nel romanzo. Non si può arrivare alla verità poetica se non si ha un’esperienza diretta. Io prendo dettagli dalla mia esperienza, penso a mio fratello, al mio editor basco…quello che racconto è tutto esatto, non c’è retorica.

Senza svelare nomi: perché denuncia l’impresa, il ‘traditore’? perché non approva i metodi terroristici? Perché non crede nelle finalità?

      Il finale del libro, la questione del traditore, è stata occasione di una forte polemica in Spagna. Ma la mia spiegazione del tradimento viene dalla mia esperienza: tradisce per motivi molto realistici, si rende conto che ci sarà presto un’amnistia e che ne godranno quelli che sono in carcere in quel momento. E pensa che, se invece finisce in prigione dopo, ci resterà per almeno vent’anni. Quello del traditore fu un calcolo reale e che ha funzionato. Mio fratello era stato arrestato un anno prima e ne uscì proprio con l’amnistia. Mentre il personaggio che mi ha ispirato il capo entomologo è appena uscito dal carcere uno o due anni fa. Certo che il tradimento ha suscitato una tale reazione nei paesi baschi- perché non c’era nessuna ideologia dietro. Eppure fu una decisione non certo bella ma comprensibile.

intervista e recensione sono state pubblicate su www.stradanove.net


Bernardo Atxaga, “Il libro di mio fratello” ed. 2008

                                                 Voci da mondi diversi. Penisola iberica
 la Storia nel romanzo     
 il libro ritrovato

Bernardo Atxaga, “Il libro di mio fratello”
Ed. Einaudi, trad. Paola Tomasinelli, pagg. 393, Euro 19,00
    
    Due amici, due quasi fratelli. David e Joseba. Hanno così tanto in comune, hanno condiviso talmente tante esperienze nella loro vita. Entrambi sono nati e cresciuti nella terra a cui Bernardo Atxaga dà il nome di Obaba, rendendola mitica- e Obaba è una delle minuscole e tormentate aree d’Europa che hanno vita a sé stante nei confini di Stati più grandi. In questo caso i paesi Baschi, tra Spagna e Francia, terra di luce e di ombre, di montagne e pascoli e bestiame.
Libro speculare, libro doppio e con due titoli, - “Il figlio del fisarmonicista” (che è quello che gli ha dato David), e “Il libro di mio fratello” (quello suggerito dalla moglie di David al romanzo completo, che include le revisioni e aggiunte di Joseba)-, il racconto inizia dalla fine, quando Joseba riceve il quaderno scritto in basco da David: lo leggerà in aereo, tornando in Spagna dalla California, dove è andato a trovare l’amico, dove poi lo ha accompagnato nell’ultimo viaggio al cimitero. E’ David l’io narrante nella maggior parte del romanzo, fulcro e filtro di tutte le vicende. E’ lui il figlio del fisarmonicista, suonatore di fisarmonica lui stesso finché questo strumento diventa l’emblema dell’antagonismo con il padre, quando un’amica consegna a David il ‘quaderno del gorilla’ (c’è un gorilla raffigurato sulla copertina, ma che simbolo minaccioso diventa questo animale!) con l’elenco delle persone fucilate dai fascisti a Obaba e David è roso dal dubbio, dalla quasi certezza, di essere figlio di un assassino.

    Perché “Il libro di mio fratello” è un romanzo che ha molti strati e molti livelli di lettura. Se la prima pagina rievoca il primo giorno di scuola, quando la maestra invitò David a suonare, questo è un romanzo di formazione e di crescita, attraverso lo studio, le amicizie (Joseba, ma anche lo stalliere Lubis, anche Martìn, il figlio dell’uomo soprannominato Berlino per le sue simpatie naziste), gli amori (Teresa che lo corteggia senza respiro, Virginia che poi sposa il suo marinaio), i legami famigliari (la madre, ma soprattutto lo zio Juan, il suo vero maestro, da cui David erediterà il ranch in California), la malattia (la scoliosi deformante di uno, la poliomielite dell’altra), la morte (Lubis- si vuol far credere che sia scivolato nel fiume, mentre pescava). La formazione avviene anche attraverso la conoscenza e la presa di coscienza: la guerra civile è finita da un quarto di secolo, Guernica è stata bombardata nel 1937, nella stessa famiglia ci sono stati schieramenti opposti. In quale modo è stato coinvolto il padre di David? E allora il romanzo è anche un libro sulla guerra fra fratelli, per addentrarsi poi nelle azioni del movimento separatista, sul dolore dell’espatrio. Sul tradimento- il libro si chiude con tre confessioni, una delle quali ci giunge a sorpresa. Sull’identità culturale e linguistica- bellissima la poesia che apre il romanzo e che parla di una lingua che scompare- così muoiono le parole antiche…
Guernica bombardata
     Tra i tanti personaggi del libro ne vogliamo sottolineare ancora due, che sono dei luoghi e che diventano dei simboli: una casa che ha un nome, Iruain, ed è la casa del cuore di David, immersa nella natura e vicina alla natura, rifugio fisico e spirituale, e un nascondiglio dentro questa stessa casa che ha un ruolo centrale nella trama in tre momenti diversi. E vorremmo aggiungere le farfalle che svolazzano nelle pagine del romanzo- vuoi come esempio di parola che scompare (mitxirrika), o di bellezza del luogo, o, infine, come pretesto per un attentato dell’ETA.

la recensione e la seguente intervista sono state pubblicate su www.stradanove.net



     

domenica 22 ottobre 2017

Francesca Segal, “L’età ingrata” ed. 2017

                                                       Voci da mondi diversi. Francia
             love story
            FRESCO DI LETTURA


Francesca Segal, “L’età ingrata”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. Manuela Faimali, pagg. 313, Euro 15,30

     Come sono belli i nostri tempi, con le famiglie allargate dove, in un sogno idilliaco, sono quattro i genitori che amano i figli, sia i propri sia quelli del nuovo compagno o compagna! Come sono difficili i nostri tempi in cui niente è più certo, neppure di poter contare sulla presenza stabile della madre e del padre oppure di poter abitare nelle stanze in cui conserviamo i preziosi ricordi dell’infanzia.
James e Julia sono una coppia ‘nuova’. Lui cinquantacinquenne, medico ostetrico, americano, divorziato da una moglie che fa la sua stessa professione, esuberante, estrosa, invadente. Due figli, una ragazza che frequenta l’università negli Stati Uniti e un ragazzo di diciassette anni, Nathan, che ora vive con il padre nella casa di Julia a Londra. Julia è un’insegnante di pianoforte (è così che ha conosciuto James- suo suocero l’aveva indirizzato da lei per prendere lezioni di musica, per quanto suoni incredibile), è vedova da cinque anni, ha una figlia sedicenne, Gwen, spigolosa, egocentrica, con una gran chioma rossa, viziata come può esserlo una figlia rimasta orfana troppo presto di un padre molto amato. E Gwen, naturalmente, è ostile all’usurpatore James, ostile a suo figlio che ha l’ardire di portarsi la fidanzatina in casa e fare rumorosamente sesso con lei nella sua stanza.

    Che cosa succeda è facilmente prevedibile. Mettete due adolescenti in piena tempesta ormonale nella stessa casa e la meccanica del passaggio dalle frasi pungenti alle parole dolci, dall’antipatia e dall’odio all’amore e al sesso, è da manuale, soprattutto se ci aggiungiamo il senso di abbandono e il desiderio, anche se inconscio, di fare un dispetto ai genitori. E adesso? Ne nasce un putiferio. Perché poi? Non è mica incesto. Ma…c’è un’altra conseguenza, anche questa facilmente prevedibile.
     Francesca Segal è figlia del defunto Eric Segal, lo scrittore americano che ha fatto versare fiumi di lacrime con il suo romanzo “Love Story” negli anni ‘70 e con il film tratto dal libro che richiedeva agli spettatori una buona riserva di fazzoletti. “L’età ingrata” non è lacrimevole come “Love story” e però è un romanzo sentimentale ben costruito e piacevole. Uno di quei romanzi che leggiamo, consapevoli che non abbiano un gran valore letterario ma sono ben scritti e con una trama e dei personaggi che ci incuriosiscono.
    Il tema del romanzo è l’amore in varie età, e non solo il primo tipo di amore a cui si pensa- quello di una coppia- ma anche amore genitoriale, amore filiale e amore in età matura. La coppia che all’inizio è al centro della scena, quella di Julia e James, sta godendo di una seconda possibilità di amore nella vita- Julia non lo avrebbe mai creduto possibile. Nei cinque anni trascorsi dalla morte del marito Daniel, Julia si era lasciata totalmente assorbire dalla figlia circondandola di un doppio amore. Vivevano quasi in simbiosi- come può accettare, ora, Gwen, di essere defraudata dell’interesse materno non più diretto solo a lei? quando succede quello che doveva succedere, è naturale che i due genitori dei ragazzi pensino, ognuno, al bene e al futuro del proprio figlio, che ognuno dei due consideri il figlio dell’altro responsabile dell’infrangersi dei sogni e delle speranze. E i ragazzi? Sono in grado di prendere la loro vita nelle loro mani?


La sorpresa ci arriva da chi proprio non avevamo tenuto in conto, come capace di nuovi sentimenti- il nonno Philip che giustamente non ne può più dell’autoritaria nonna Iris che (perché ci rimane così male?) lo aveva già lasciato da tempo. L’anziano nonno Philip a cui tremano le mani è la figura più simpatica di tutto il romanzo in cui peraltro l’attenzione della scrittrice si sposta dall’uno all’altro, con leggerezza e humour, portandoci ad un finale aperto dove siamo noi a scegliere come vorremmo, come sogneremmo che le varie storie proseguissero nel tempo.


per contattarmi: picconem@yahoo.com

sabato 21 ottobre 2017

Antonio Soler, “Il sonno del caimano” ed. 2012

                                           Voci da mondi diversi. Penisola iberica
        guerra civile spagnola
         la Storia nel romanzo
         il libro ritrovato

Antonio Soler, “Il sonno del caimano”
Ed. Tropea, trad. Paola Tomasinelli, pagg.  188, Euro 14,50
Titolo originale: El sueño del caimán


     La mia vita è un treno. Sono un uomo che viaggia su un treno e questo treno è la mia vita. Percorro i vagoni del mio passato, retrocedendo, camminando all’indietro mentre il treno procede a tutta velocità verso il futuro. Un treno carico di persone. Mentre avanzo verso l’ultimo vagone riconosco alcune facce. Ogni volta sono più nitide, più definite nella memoria, mentre mi allontano dal presente. Mi guardano quei volti dagli occhi penetranti, e guardano pure il pavimento e fuori dai finestrini appannati dal vapore. Vedono passare indistintamente stazioni notturne dove sanno che non potranno mai scendere.

      Toronto. Hotel Regina, trentaquattro camere. Un portiere a cui mancano pochi mesi per andare in pensione. Si presenta un cliente a chiedere una camera. Dice il suo nome: Luis Bielsa. E il portiere lo riconosce.  Poi pensa che è impossibile che sia lo stesso uomo che gli ha spezzato la vita, quasi quarant’anni prima in Spagna. La carta d’identità riporta il nome per intero: Luis Bielsa Solá. Nato il 1919, residente a Barcellona. Il portiere non ricorda quale fosse il secondo cognome, determinante per identificare uno spagnolo senza errore, del Luis Bielsa responsabile dei nove anni che lui ha passato in un carcere franchista, del Luis Bielsa che, prima ancora di tradire lui e i compagni, lo aveva tradito rubandogli Vera, la donna che amava. Per un attimo pensa di avere un’allucinazione, di avere davanti un morto. No, Luis Bielsa allunga la mano per prendere la chiave magnetica della stanza 208, quella che in genere è riservata a una prostituta ma che il portiere gli dà perché è connessa alla portineria con un microfono nascosto. C’è, su quella mano, la cicatrice che aveva  il Bielsa del 1956? Il portiere non riesce a vedere. Il destino sarebbe proprio strano, se gli offrisse una possibilità di vendetta, o di giustizia, dopo tanto tempo.

    La guerra civile, che dominava il bellissimo romanzo “Il nome che ora dico” di Soler, resta come sfondo della vicenda che lo scrittore ci racconta adesso. Resta nelle imprese passate di cui si gloriava Bielsa, nel monumento alla brigata internazionale che è il motivo per cui Luis Bielsa è venuto in Canada dove si inaugurerà un monumento commemorativo. Ma l’anno cruciale, il 1956 che serve da spartiacque nella vita del protagonista narrante, è il dopo-guerra, quando i comunisti rialzano la testa, sognando la rivoluzione e la fine della dittatura, portando avanti la protesta con rapine e una sorta di lotta armata, programmando di far saltare una polveriera. Era questa l’impresa in cui erano coinvolti l’uomo che adesso fa il portiere, alcuni compagni di lotta e Vera. E Bielsa, il borghese che voleva fare il proletario. Fino all’agguato in una piazza deserta, uno di loro era morto, tutti gli altri arrestati e poi il processo, il carcere, l’esilio in Canada. C’era stato un Giuda tra di loro.

    Nella manciata di tempo che il portiere ha per prendere una decisione- telefonare all’altro compagno scarcerato dopo e arrivato da poco a Toronto? Agire da solo?- rivive tutto il passato. Come parlare di una vita non vissuta, del grigiore di un matrimonio senza amore, di giorni monotoni dietro il bancone della reception? Soler lo fa adottando uno stile tra il poetico e il metaforico in cui la realtà più brutale non è quella del passato lontano ma quella del presente dove un assassino ha colpito e continua a colpire in maniera selvaggia, amputando parti del corpo delle vittime. Il portiere sembra quasi aggirarsi come un sonnambulo lungo i suoi soliti itinerari a Toronto, casa e albergo. E’ come se, ora più che mai, avvertisse l’estraneità del paesaggio che lo circonda, della moglie morta che gli sorride da una fotografia. E’ proprio sua questa vita? Come sarebbe potuta essere altrimenti? “Senza di lui, senza Luis Bielsa, tutto sarebbe stato diverso, migliore.” E tuttavia Vera aveva sostenuto l’innocenza di Bielsa.
Passato e presente, dapprima separati nella narrazione, dapprima ricordo e realtà, si aggrovigliano poi, sono inestricabili l’uno dall’altro, causa ed effetto. Non serve girare intorno alla domanda di chi siano state le vittime e chi i carnefici. Allora l’immagine è quella del sonnecchiante caimano a pelo d’acqua che, nello spazio di un secondo, fa scomparire la preda.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it