venerdì 30 giugno 2017

Guzel' Jachina, "Zuleika apre gli occhi" Intervista 2017

                              Intervista a Guzel Jachina
                           Voci da mondi diversi. Russia


  E’ piccola, minuta, con i capelli cortissimi e grandi occhi. Le dico che ci tenevo tantissimo ad incontrarla, che ho amato molto il suo libro. L’interprete le traduce in russo. Lei sorride.
Inizia così il mio incontro con Guzel’ Jachina, a Milano per partecipare all’evento letterario della Milanesiana.

Chi è Zuleika?
     E’ un personaggio inventato, ispirato dalla sorte di mia nonna. La nonna è stata vittima delle purghe staliniane negli anni ‘30 ed ha seguito i suoi genitori nell’esilio siberiano quando era solo una bambina- ha vissuto sedici anni in esilio. La nonna è cresciuta in Siberia. Io ho deciso di raccontare non il destino di una bambina, ma di una donna adulta che vive la seconda possibilità che la sorte le propone, una donna che sembrava aver terminato il ciclo produttivo e scopre in Siberia che tutto ricomincia proprio lì. La vita siberiana è diversa da quella di prima e il viaggio della protagonista è non solo un vero e proprio viaggio ma anche un viaggio mentale e interiore. Abbandona il passato arcaico ed entra nel mondo presente paradossalmente proprio in questo esilio.

Chi le ha raccontato questa storia? La bisnonna? O la nonna?
    Non ho conosciuto la mia bisnonna, era morta prima che io nascessi. Ho saputo molte cose dai racconti della mia nonna. Purtroppo, però, non sono stata così brava a registrare i suoi racconti e ho dovuto leggere e cercare dettagli nei documento scritti. Ho letto moltissimi libri di memorie di persone che hanno subito la dekulakizzazione- un kulako (la parola vuol dire ‘pugno’) è uno che non è interamente povero ma, siccome c’era la lotta di classe, Stalin voleva che questa gente fosse privata di ogni bene e messa nel kolchoz. Quelli che non erano consenzienti venivano mandati in esilio. La dekulakizzazione, quindi, è l’esilio. Mettendola in cifre, questa sorte toccò a tre milioni e mezzo di persone. Moltissime persone furono mandate così lontano che la sopravvivenza per loro era difficile- nelle steppe del Kazakistan, o nell’estremo Nord e in Siberia. Furono catapultati su spazi incolti dove crearono nuovi centri abitati. All’inizio si scavarono un rifugio sottoterra e dopo costruirono le isbe. Era un’esistenza primitiva. Negli anni ‘30 furono create 1800 cittadine come queste, con una popolazione di sei milioni di abitanti in totale. Questa è la storia nel mio romanzo.


Si dice spesso, nel libro, che Zuleika e altri deportati non capiscono il russo: di quale ceppo etnico fanno parte i tatari, in quale area vivono, qual è la loro cultura?

      Nel mondo ci sono 12 milioni di tatari, 5 milioni in Russia e, tra questi, 2 milioni in Tatarstan che è una regione che si chiama Repubblica di Tatarstan, fa parte della Russia, si trova lungo il Volga e il Kama e ha per capitale Kazan. Il kanato di Kazan fu inglobato nell’intera Russia nel 1552 e fu la conquista di maggior successo per lo zar Ivan il Terribile. A Kazan due culture, quella tatara e quella russa, convivono fianco a fianco. C’è la moschea e c’è la chiesa cristiana, il 30% dei matrimoni sono misti- una percentuale sempre uguale nel tempo. E la lingua tatara appartiene al ceppo delle lingue turche.
Kazan
Zuleika è musulmana: i tatari sono tutti di religione musulmana? Hanno potuto mantenere la loro religione sotto Stalin?
   Sì, l’Islam è la religione dei tatari anche se, in epoca sovietica, sono diventati atei perché la religione non era concessa. Le moschee furono chiuse e ricordo di avere visto, nella mia infanzia, moschee con i minareti troncati. Furono trasformate in luoghi di divertimento o asili nido. Io frequentavo una scuola di scherma in quella che era stata una chiesa luterana. Nel romanzo c’è una convivenza di religione islamica e residui di credenze pagane, ed è normale per questa religione. Ricordo di aver visto nella casa di campagna dei miei nonni i residui di questa polifonia di religioni. Sulla palizzata c’erano tre teschi, di un cavallo, di una mucca e di una pecora. Erano stati messi lì per spaventare gli spiriti maligni. I miei nonni erano atei, ma non si sa mai, per ogni evenienza è meglio seguire le antiche credenze…Ecco, volevo incastrare nel mio libro questi ricordi della mia infanzia. La casa dove vive Zuleika, la divisione dello spazio tra uomini e donne, le stalle- questo è come l’ho visto nella casa dei nonni quando ero piccola.

Ci sono i buoni e ci sono i cattivi nel suo romanzo, come sempre e come ovunque. E però sembra che prevalga l’ottimismo nel romanzo, che i buoni siano in numero maggiore. Sono tanti quelli che cercano di aiutare Zuleika e il suo bambino. E’ forse il carattere di Zuleika che tira fuori il buono dalle persone?

    Per me era importante trasmettere l’atmosfera di bontà di cui mi ha raccontato la nonna descrivendo i suoi ricordi di infanzia nel villaggio. C’era un’atmosfera di amicizia, di fratellanza, una sensazione di parentela e bontà che la nonna ha assorbito quando era piccola ed è rimasta con lei per tutta la vita. Naturalmente la vita in Siberia era tragica, ma c’erano barlumi di felicità basata sui sentimenti che l’addolcivano.

Mi è piaciuto molto il personaggio di Ignatov che mi è sembrato complesso, completo, credibile. C’è un seguito alla storia di Zuleika e Ignatov?
    No, non ci sarà un seguito. Questa storia è nata come sceneggiatura per un film. In questa sceneggiatura poteva essere inserita anche una nuova esperienza di Juzuf nel 2015, quando ritorna nel villaggio e trova solo le rovine. Nel romanzo questo seguito non c’è. Ci sarà invece una serie di otto film per la televisione e lì questo episodio c’è.

Mi è piaciuta molto anche la natura selvaggia: è stata laggiù sulle tracce di Zuleika?
    No, purtroppo no. sono andata per la prima volta a Krasnojarsk, centro del territorio dei lager, a novembre dello scorso anno. Ho trovato migliaia di persone che mi volevano abbracciare perché il mio libro era l’unico che raccontava questa realtà dei gulag. Quando lavoravo al romanzo volevo andare sul posto, però il viaggio per arrivare a dove era stata la mia nonna era così difficile che non ho avuto il coraggio di farlo. Bisognava arrivare prima a Krasnojarsk, poi prendere l’aereo e poi fare ancora 300 km. sul fiume. Il viaggio sarebbe durato due settimane. E poi ho scoperto che il villaggio della nonna non c’era più. C’è però il cimitero e ogni anno un gruppo di discendenti di coloro che sono vissuti e sono morti laggiù prende la barca per andare a curare le tombe.
Krasnojarsk
Quanto si sa tra la gente comune di quello che è successo, delle purghe, delle deportazioni, del terrore sotto Stalin? Quanto sanno i giovani di tutto questo? O forse per loro è storia passata?

   I giovani sono diversi. Per chi è idealista il passato è una bella favola, e poi i giovani hanno tutti i mezzi meccanici per cercare materiale informativo su internet. Però nel paese c’è grande interesse per il passato sovietico, è sufficiente osservare come tutti i grandi premi di letteratura sono stati attribuiti di recente a scrittori di storie sovietiche. “Zuleika apre gli occhi” ha vinto il Big Book Literary Award (il massimo premio russo) nel 2015 e nel 2016 tutti e tre i libri che hanno vinto raccontano lo stesso periodo dello stalinismo.

recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.net


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giovedì 29 giugno 2017

Guzel’ Jachina, “Zuleika apre gli occhi” ed. 2017

                                                          Voci da mondi diversi. Russia
         la Storia nel romanzo
          FRESCO DI LETTURA


Guzel’ Jachina, “Zuleika apre gli occhi”
Ed. Salani, trad. C. Zonghetti, pagg. 496, Euro 18,90

    Zuleika. Impareremo ad amare questo nome arabo che significa ‘bellezza’ leggendo il romanzo “Zuleika apre gli occhi” della scrittrice russa di etnia tatara Guzel Jachina. Come impareremo ad amare lei, personaggio indimenticabile quanto le eroine del passato- Natasha, Lara, Anna Karenina. Non dimenticheremo lei e neppure questo libro straordinario- uno di quei libri di cui viene da dire ‘non se ne scrivono più, così’. Profondo con leggerezza, realista con un pizzico di immaginario, dolce e crudele. Un libro che contiene la vita.
     Quando, all’inizio, Zuleika apre gli occhi risvegliandosi al mattino, non la aspetta una giornata facile. Vive in un paese vicino a Kazan, nel Tatarstan. Aveva solo quindici anni quando è andata sposa ad un contadino molto più anziano di lei e, nell’arco di una quindicina di anni, ha messo al mondo quattro bambine, tutte morte poco dopo la nascita. Zuleika teme il marito e teme la suocera- la Vampira-, una vecchia centenaria cieca che adora il figlio e naturalmente odia, maltratta e spadroneggia la nuora. Ma questo è il destino delle donne, Zuleika non si sognerebbe mai di ribellarsi. Finché è il destino a liberarla. Zuleika viene deportata insieme agli altri kulaki, i contadini che Stalin ha decretato essere nemici dell’Unione Sovietica. Zuleika non sa neppure chi sia Stalin, anche se riconosce quel volto con i baffoni. Le sembra perfino che abbia uno sguardo paterno. Come Zuleika (rimasta sola perché il marito è stato ucciso) riesca a sopravvivere ai sei mesi di viaggio in treno verso la Siberia, è un mistero. I deportati erano più di ottocento alla partenza, poi il freddo, le malattie, la fame soprattutto, li avevano dimezzati. Fino all’ultima catastrofe sulla bara galleggiante che doveva portarli sul fiume Angara fino a destinazione. Era stata salvata dall’uomo che aveva ucciso il marito, il comandante Ignatov, che vedeva in lei una possibilità di riscatto personale- una vita per tutte quelle che aveva contribuito a mandare all’altro mondo.

     Saranno dimenticati in quel luogo desolato nella tajga per un intero inverno, la trentina di deportati superstiti. E sappiamo che un inverno siberiano è più lungo di altri inverni. Li conosceremo ad uno ad uno questi ‘fortunati’ che per una casualità che ha operato in senso contrario ha salvato i ‘leningradesi’, appartenenti alla intellighenzja, coloro che per costituzione e stile di vita erano i meno adatti a sopravvivere. Eppure si adattano, l’ingegnere organizza la costruzione del rifugio sotterraneo, l’agronomo imposterà le colture a primavera, un esperto di pesca procaccerà pesce fresco quando Ignatov non riesce più a cacciare selvaggina, il dottor Leibe, diventato un folle gentile dopo lo shock della Rivoluzione, recupererà la sua lucidità nel momento del bisogno, aiutando Zuleika a partorire.

    “Zuleika apre gli occhi” è la storia di poco più di sedici anni in un angolo di Unione Sovietica dove le notizie non arrivano, dove ogni giorno è una lotta per la vita, dove ogni deportato diventa un Robinson Crusoe obbligato a crearsi il suo habitat, cercando di ritagliarsi uno scampolo di gioia e di bellezza guardando la trapunta di stelle del cielo o il verde del bosco quando gli alberi si scrollano dalla neve dell’inverno. Zuleika apre gli occhi su una nuova vita, sulla miseria e sulla grandezza dei suoi simili. Non è più la vittima obbediente la cui dignità è calpestata da marito e suocera. Diventa ‘la madre’ che tutti rispettano e cercano di aiutare, con un boccone in più perché abbia latte per il piccolo Juzuf (il dottore gli aveva dato questo nome, come il Giuseppe di cui si era invaghita Zuleika, la moglie di Putifarre), e il bambino diventa per lei la luce dei suoi giorni. Scopre anche l’amore, Zuleika. Sentendosi in colpa perché un amore fuori del matrimonio è contro le leggi di Allah. Ma esistono ancora leggi in quella terra dimenticata da ogni dio e dagli uomini?


     Intenso e drammatico, questo romanzo che è un frammento di Storia sovietica, una storia d’amore materno ma anche una storia di come le asprezze della vita possano cambiare gli uomini, è assolutamente da leggere. Imperdibile.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net
seguirà intervista con la scrittrice


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lunedì 19 giugno 2017

Daisy Goodwin, “Victoria” ed. 2017

                                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
    romanzo storico
    love story

Daisy Goodwin, “Victoria”
Ed. Sonzogno, trad. A. Di Luzio, pagg. 432, Euro 19,50

       Non è mai stato un personaggio attraente e simpatico, Vittoria, Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e Imperatrice d’India. Forse perché l’immagine più diffusa di lei la ritrae già anziana, con i suoi eterni abiti neri- il lutto che non smise mai di portare dopo la morte dell’amatissimo consorte Principe Alberto- e tendiamo a pensare che sia sempre stata vecchia, anche perché è vero che è stata vecchia a lungo. Aveva solo 18 anni quando salì al trono nel 1837 e regnò per 63 anni. Anche lei, come la regina che tanto ammirava, Elisabetta I, diede il nome ad un’epoca- l’età vittoriana, segnata da progressi sociali ed economici ma anche caratterizzata dalla ‘prudery’ che la distingueva. Ed ecco che la biografia romanzata di Daisy Goodwin ci fa conoscere un’altra Vittoria, giovane, palpitante, appena salita sul trono, impreparata a reggere il peso della corona (figurativamente e letteralmente: la misura della corona dovette essere ridotta perché non le cadesse fin sul naso), desiderosa di dimenticare l’infanzia infelice nella reclusione di Kensington con una madre iperprotettiva e ambiziosa.

     Tutti gli occhi sono puntati su Vittoria, quando diventa regina. Tutti pronti a cogliere il minimo errore di questa ragazzina minuta, alta poco più di un metro e mezzo, con grandi occhi azzurri, che non sa niente di niente. Tutti pronti a sbalzarla dal trono, a dichiararne l’incapacità a regnare per debolezza d’intelletto (come suo zio), ad affiancarle un reggente (sua madre e il suo consigliere sarebbero felici di assumersi l’incarico). E invece lei la spunta su tutti. Con l’aiuto inestimabile del primo ministro Lord Melbourne. I problemi sono tanti- la guerra con l’Afghanistan, il movimento dei cartisti, la povertà diffusa, le condizioni poco salubri delle abitazioni londinesi nei quartieri più miseri. Vittoria ha dignità regale, ha forza di carattere, puntiglio, curiosità, la voglia di far vedere che lei sarà capace di emulare la grande regina Elisabetta I. Nessuno può manipolarla e prendere decisioni al suo posto. A volte sembra una bambina che gioca a fare la regina e a dare ordini. Per fortuna Lord M. (come lo chiama lei) è al suo fianco per suggerire, non per ordinare- ha trovato la maniera giusta per mettersi al servizio della sua sovrana.
Lord Melbourne
    Lord M., un nomignolo che rivela il legame affettuoso che a poco a poco si instaura fra la diciottenne Vittoria e il quarantenne William, visconte di Melbourne, primo Ministro ed esponente dei Whig. Il romanzo di Daisy Goodwin esplora il sentimento fra la giovane regina e il ‘suo’ Ministro, una forte attrazione reciproca più che giustificata da entrambe le parti- lei che non aveva mai avuto un padre e si sentiva protetta e guidata da quest’uomo forte, intelligente e affascinante, lui che era rimasto vedovo dopo un matrimonio burrascoso con una donna che lo aveva lasciato per correre dietro al poeta Byron e che ora vedeva in Vittoria una compagna innocente e ingenua, una fanciulla che lo guardava con occhi adoranti. Tutta la corte era testimone dell’infatuazione della regina. Bisognava trovare un marito per Vittoria, per scongiurare il peggio. E Alberto di Sassonia Coburgo, cugino di Vittoria e suo coetaneo, era il candidato ideale.

    Il seguito, la storia d’amore durata tutta la vita, con nove figli a testimoniare quella che venne definita un’ossessione tra i due sposi, è noto, più che la ‘cotta’ giovanile della regina. Il romanzo della Goodwin (da cui è stato tratto uno sceneggiato televisivo di successo) è un  libro di storia in rosa, una piacevolissima lettura per chi non cerca in queste pagine quello che non è intenzione della scrittrice scrivere. E’ un libro scritto da una donna per delle donne che ameranno leggere di una donna che è stata una grande regina, rivivendo l’atmosfera del tempo, godendo dei dettagli di abiti ed acconciature e gioielli, apprezzando i cenni storici, i riferimenti a Dickens (“Oliver Twist” era appena stato pubblicato) o a musicisti in voga, aggirandosi nei corridoi di Buckingham Palace e osservando l’inizio della costruzione del Big Ben.



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venerdì 16 giugno 2017

holidays





sarò in viaggio per una decina di giorni e aggiornerò quando mi sarà possibile. 

Patrice Nganang, “Mont Plaisant” ed. 2017

                                                            Voci da mondi diversi. Africa
         romanzo storico
         FRESCO DI LETTURA 

Patrice Nganang, “Mont Plaisant”
Ed. 66thand2nd, trad. M.Balmelli, pagg. 419, Euro 20,00

     ‘Leggo per non essere solo’, ‘leggo per vivere le vite degli altri oltre alla mia’, ‘leggo per sapere con chi condivido lo spazio nel mondo’, e chissà quante altre motivazioni si possono trovare per la lettura. Prendete in mano il romanzo “Mont Plaisant” dello scrittore camerunense Patrice Nganang, sfogliate le prime pagine e vi troverete immersi in una cultura e in un mondo che quasi di certo non conoscete, affascinante come tutto quello che ha il carattere della novità, non facile da comprendere perché ci mancano le nozioni base per seguire appieno i racconti che si srotolano illustrandoci la storia del Camerun tra le due guerre mondiali, in un misto di grande Storia e piccole storie, di nozioni reali e voli favolistici tra magia e diceria e leggenda che, passando di bocca in bocca, è diventata realtà.
Yaoundé
     La voce della grande Storia è quella di Bertha, studentessa negli Stati Uniti ritornata nel suo paese per fare una ricerca sulle origini del nazionalismo camerunense. Quando sente il suo nome- lo stesso della donna che le ha fatto da madre- la vecchissima Sara esce dal mutismo in cui si è chiusa da tempo immemorabile e le racconta la storia della sua vita, che poi non è solo sua ma coinvolge quella di molti altri. Del sultano Nioya, prima di tutti, uomo illuminato amante delle arti e delle scienze, inventore di un suo proprio alfabeto. A nove anni Sara era stata destinata a diventare una delle tante mogli del sultano (681 per l’esattezza) e, invece, era stata presa sotto l’ala protettrice della matrona Bertha che aveva visto in lei qualcosa che le ricordava suo figlio, le aveva rasato i capelli, l’aveva vestita da maschio e le aveva dato il nome di Nebu, come il figlio morto. Era il 1931 e si avvicinava la seconda guerra mondiale. Ecco che le due Storie, quella degli archivi e dei documenti si intreccia con quella orale che deve essere fermata su carta per poter essere tramandata, perché anche questa ha il suo inestimabile valore.
Foumban. Palazzo reale
    E’ una girandola di storie, “Mont Plaisant”, il nome della dimora del sultano Nioya in esilio a Yaoundé e nostalgico di Foumban, la vecchia capitale bamoun. “La Storia è una casa dei mille racconti. E’ una concessione composta da innumerevoli stanze, con passaggi, corridoi, varchi, porte e finestre; un labirinto, sì, un susseguirsi serpeggiante di catene della memoria…”. Ecco dunque storie che ricostruiscono il passato del Camerun (paese composto da più di 200 etnie con lingue diverse), un tempo colonia tedesca e poi, dopo la prima guerra mondiale, diviso tra Francia e Gran Bretagna, attraverso una miriade di personaggi, non solo Nioya ma anche il suo amico e rivale Charles Atangana, e poi Joseph Ngono, professore a Berlino che era tornato in Camerun per restare profondamente deluso (Sara non lo sapeva, ma Ngono era suo padre), e il marito di Bertha ucciso dal figlio, e Nebu, diventato un geniale scultore e morto tragicamente (sua madre Bertha non supererà mai il dramma di questa perdita).
Il colonialismo e le sue colpe, la cultura bamoun e il suo declino, il potere e l’arte, l’amore e il sesso, la gelosia e il tradimento, la suggestione dell’Europa e l’oscurità dello schiavismo, squarci di scene in Germania che anticipano la politica razzista di Hitler, schieramenti diversi nel Camerun, ritorsioni e vendette- c’è veramente tanto nel romanzo di Patrice Nganang, si rischia di essere travolti ed è meglio abbandonarsi al flusso narrativo e lasciarsi incantare dalla capacità affabulatrice dello scrittore. Perché, anche se ogni tanto dobbiamo prendere un respiro e ci sentiamo confusi, siamo però sempre consapevoli che questo è un libro importante, una finestra su un altro mondo.




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mercoledì 14 giugno 2017

Bodo Kirchhoff, “L’incontro” ed. 2017

                                            Voci da mondi diversi. Area germanica
       love story
       romanzo 'on the road'
       FRESCO DI LETTURA

Bodo Kirchhoff, “L’incontro”
Ed. Neri Pozza, trad. R. Cravero, pagg. 202, Euro 16,00


    Ci sembra di capire tutto subito, appena iniziamo a leggere “L’incontro” dello scrittore tedesco Bodo Kirchhoff. Lui, Julius Rheiter, non più giovane, si è occupato di libri tutta la vita. E’ un editore in pensione. Lei, Leonie Palm, ha superato la mezza età, aveva un negozio di cappelli (chi indossa più un cappello degno di questo nome ormai? Non ci sono più facce da cappelli- dice lei). Una sera Leonie suona il campanello della porta di Rheiter, vorrebbe parlargli. Non lo dice subito, ma è lei che ha scritto il libriccino che Rheiter stava sfogliando. Succede tutto molto velocemente. Iniziano a parlare, decidono di andare a fare un giro con l’automobile di Leonie, magari di andare a veder sorgere il sole. Però ci vorranno ore prima che sia l’alba, perché non spingersi oltre, perché non arrivare fino in Italia dove Leonie non è mai stata?
    Due persone sole si incontrano. Hanno la vita alle spalle, un viaggio in auto, di notte, invita alle confidenze, che però escono smozzicate. Un frammento della vita di Rheiter e un mozzicone di quella di Leonie. Se Leonie ha scritto quel libro che Rheiter si è portato dietro all’ultimo momento, è autobiografico? Parla di una ragazza che si è lasciata morire, sdraiata al freddo accanto ad un lago. La figlia di Leonie? A questo dramma della vita di lei corrisponde un dramma che forse fino ad ora Rheiter non aveva mai voluto considerare- un bambino che non era mai venuto al mondo, rifiutato da lui e dalla donna che poi lo aveva lasciato. Parole nella notte, ed è più facile parlare con chi non si conosce, al buio. Incominciamo a capire che c’è più di un viaggio in questo insolito romanzo on the road.
Insolito perché non c’è l’ebbrezza della spavalda avventura giovanile, al suo posto c’è la consapevolezza che tutto quello che si sta facendo, quell’avanzare verso nuove mete senza un programma preciso, potrebbe essere l’ultima possibilità che abbiamo. E allora c’è un filo di tristezza e di rimpianto. E’ un viaggiare in avanti girandosi ogni tanto indietro, per non ripetere errori già fatti. E’ un triplice viaggio per entrambi, per Rheiter e Leonie- quello sull’autostrada che li porterà fino in Sicilia superando una meta prefissata dopo l’altra, come si trattasse di una corsa ad ostacoli, quello della conoscenza reciproca (con esito prevedibile) e quello della conoscenza di sé che finirà per allontanarli. E scopriamo anche che ‘l’incontro’ del titolo forse non si riferisce solo a quell’incontro iniziale fra l’editore e la cappellaia- ci sono altri due incontri che trasformano interamente il romanzo, dando tutt’un altro significato alla definizione stessa ‘on the road’.

   Sono veramente ‘on the road’, hanno mangiato la polvere della strada i profughi che sbarcano sulle coste della Sicilia, sono sopravvissuti ad esperienze terribili, altro che le allegre avventure dei soliti viaggiatori. Se in passato Rheiter e Leonie hanno affrontato il problema della sopravvivenza- al disinteresse di un padre letterato, alla fine di rapporti con compagne o marito, alla morte di una figlia adulta e di una non nata, alla chiusura di un negozio o di una casa editrice-, ora si devono confrontare con il vero problema della sopravvivenza, della lotta quotidiana per vivere, per cavarsela. Come reagiscono, Rheiter e Leonie, all’incontro con la ragazzina vestita di uno straccio rosso in cui Leonie, in una qualche maniera, rivede sua figlia, e poi con un terzetto di nigeriani- marito, moglie e un neonato- che aiutano provvidenzialmente Rheiter?
     Dopo l’amore tardivo, descritto con molta delicatezza e un pizzico di humour, dopo gli squarci di abbagliante bellezza che si aprono sul paesaggio italiano- la luce, il colore, l’azzurrità del mare- in contrasto con il freddo grigiore tedesco, la tragedia di altri irrompe nella vita dei due protagonisti obbligandoli ad uscire dal loro egocentrismo, a porsi delle domande, a cercare di ritagliarsi un minuscolo ruolo in quello che sta accadendo ogni giorno nel mondo.



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martedì 13 giugno 2017

Petros Markaris, “La lunga estate calda del commissario Charitos” ed. 2007

                                      Voci da mondi diversi. Penisola balcanica         
    cento sfumature di giallo
     il libro ritrovato

Petros Markaris, “La lunga estate calda del commissario Charitos”
Ed. Bompiani, trad. Andrea Di Gregorio, pagg. 375, Euro 17,50

Dei terroristi si sono impossessati di un traghetto per Creta, tra i passeggeri c’è la figlia del commissario Kostas Charitos con il fidanzato. Mentre tutta la Grecia segue con ansia la vicenda sugli schermi televisivi, Charitos deve occuparsi di una serie di omicidi ad Atene. Sembrano opera di un maniaco, le vittime appartengono tutte al mondo della pubblicità. Finché iniziano ad arrivare i messaggi dell’assassino e, parallelamente, le richieste dei terroristi. Un finale che prova che il passato non muore mai.


INTERVISTA A PETROS MARKARIS, autore de “La lunga estate calda del commissario Charitos”


    Deve essere la qualità della luce, o forse la brillantezza dei colori, o il profumo dell’aria del luogo in cui vivono- ci deve essere qualcosa che fa sì che i commissari dei romanzi di indagine poliziesca scritti da autori dell’area mediterranea siano così diversi dai loro colleghi scandinavi o dell’Europa centrale. La prima differenza che balza agli occhi è che, tranne l’eterno fidanzato Montalbano, sono tutti felicemente sposati e con figli, l’ateniese Kostas Charitos di Markaris, il triestino di adozione Proteo Laurenti di Veit Heinichen, il veneziano Guido Brunetti di Donna Leon. Mentre sono divorziati il Wallander di Mankell e il Van Veeteren di Nesser o il cupo ispettore Rebus di Ian Rankin. E poi, per quanto si tratti sempre di morti e di assassini, l’atmosfera è meno buia, meno sinistra, sempre in qualche modo alleviata dalla serenità dell’ambiente famigliare, addolcita dai pranzi cucinati dalle mogli, diversificata dalle preoccupazioni offerte dai figli.
   E tuttavia nel nuovo e atteso romanzo di Petros Markaris è proprio l’ansia divorante per la sorte della figlia Caterina, tenuta in ostaggio dai terroristi che si sono impadroniti del traghetto El Greco, che spacca in due l’ispettore Kostas Charitos, diviso tra il desiderio, che è una necessità quasi fisica, di essere là, al porto di Creta, a seguire impotente da lontano quello che accade a bordo della nave, e il dovere che gli impone di restare ad Atene dove agisce uno strano assassino che sembra sdoppiarsi: un corpo da body-building vestito di nero, che si muove su una Harley Davidson e uccide con una Luger del 1942, e una voce da vecchio con dentiera che usa parole desuete come “pederasta”, “gagà” e “deretano”, e che dice di essere l’assassino dell’ “azionista di riferimento”. Puntano sul ricatto i terroristi sul traghetto, un morto al giorno se non verranno ottemperate le loro richieste, e sono ricattatorie pure le lettere che riceve la testata di un giornale e che impongono la sospensione di ogni pubblicità.

    Come abbiamo già visto nei precedenti romanzi, Petros Markaris ha la capacità di stimolare il lettore proponendo dei retroscena insoliti per i crimini su cui indagare, in questo caso le guerre vecchie e recenti dell’area balcanica e l’ipnotizzante pubblicità, così invasiva e costante che abbiamo smesso di farci caso e che, però, è assolutamente indispensabile per far girare il mondo dei soldi. Ma è attraverso il personaggio di Kostas Charitos che le tematiche vengono filtrate, è in lui, l’uomo medio che ha fatto sacrifici per far studiare l’unica figlia, che guida una scassatissima Mirafiori, che ha scelto di entrare in polizia perché l’alternativa era zappare la terra, che il lettore riconosce se stesso e quelle che potrebbero essere le sue reazioni. Perché, dietro al sequestro della nave e agli ostaggi freddati, dietro ai due omosessuali e alla giornalista morti con un colpo in testa perché facevano pubblicità, c’è il problema della violenza contro cui Caterina, la figlia di Kostas, si scontra per la prima volta con una consapevolezza diversa mentre viene trattenuta come ostaggio perché figlia di un poliziotto: c’è differenza tra la violenza della polizia e quella dei terroristi, o degli assassini? Che sua figlia possa solo dubitare di lui e della sua integrità, è un pensiero che sconvolge Kostas, e lo porta a riandare al passato nero della giunta militare, per far sapere in qualche modo a Caterina che no, suo padre non ha mai usato violenza, anzi, che ha cercato di fare del suo meglio laddove il Bene non esisteva.

    Leggere un libro di Petros Markaris è sempre un piacere- si girano le pagine perché si è incuriositi dalla trama, ci si sorprende a ridere delle battute di Kostas, si sorride dei continui battibecchi con la moglie Adriana, ci si affaccia sulle acque blu del Pireo, si impreca con Kostas per il traffico congestionato di Atene. Aspettando il prossimo romanzo.
Stilos ha intervistato lo scrittore che è nato a Istanbul nel 1937, figlio di padre armeno e madre greca.

Lo spunto dei suoi romanzi è sempre sorprendente ed originale. In questo nuovo romanzo gli spunti sono due: quale dei due le è venuto per primo in mente? Quello dei terroristi o quello delle stelle della pubblicità?
     Lo spunto iniziale è stato quello della pubblicità, anche se non immediatamente con la figura dell’assassino. Mi è venuto in mente come conseguenza di un grosso scandalo politico- era il 2004, il partito di centro-destra aveva vinto le elezioni e aveva dovuto fronteggiare la situazione per cui tutti i media, specialmente i canali televisivi, erano alleati del precedente governo. Per cercare di rovesciare la situazione avevano pensato di varare una legge per cui chiunque detenesse una quota anche dell’1% di un canale televisivo sarebbe stato considerato come azionista di riferimento e non poteva accettare commesse pubbliche. Ora i canali televisivi appartengono per lo più ad aziende di opere pubbliche; l’idea era di costringere queste aziende a cedere sul mercato la loro quota di partecipazione, così sarebbe stata comperata da quelli al governo. Ma l’Unione Europea ha messo il veto per mesi e si è andati avanti all’infinito con la questione. Allora ho pensato che, dopo tutto, il vero controllo dei media non è nelle mani di chi ha l’1 o il 2%, ma in quelle delle compagnie di pubblicità. Sono loro a decidere tutto, che hanno il coltello per il manico e davanti ad un rifiuto delle loro richieste non mettono la pubblicità. I media dipendono dalle compagnie di pubblicità.

Per quello che riguarda il secondo filone, dei terroristi sul traghetto- il romanzo inizia con un grande evento, doppiamente grande per Kostas, perché ha la soddisfazione che sua figlia si laurea e lui ha anche finito di mantenerla agli studi. E ho pensato che era necessario che succedesse qualcosa di tragico per bilanciare questo evento felice. Era il periodo in cui ci fu l’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid, e così ho avuto l’idea del terrorismo. Poi ci furono gli attentati di Londra, e io mi sono detto, ‘non ho più niente di cui scrivere’, e continuavo a parlarne con mia figlia e con il mio editore…E mi è venuta l’idea del traghetto. Senza dire nulla della trama e senza svelare che cosa ci sia dietro, mi preme dire che i riferimenti politici sono veri, è vera la figura del vecchio, è vera la lettera dell’arcivescovo e così pure la decisione del corpo di polizia di cui si parla nel libro.

Il libro inizia con la domanda che il professore rivolge a Caterina che sta discutendo la tesi, se la privazione della vita come risultato di un attacco terroristico sia giuridicamente uguale alla privazione della vita come risultato di un crimine che abbia per scopo un furto, ad esempio. Domanda perfetta per una storia di delitti: tutte le morti hanno lo stesso valore?
    Per me è lo stesso, nel senso che uccidere è sempre male, non importa per quale motivo si uccida. Non esiste alcuna scusa, non c’è alcuna giustificazione. Sono contro ogni tipo di terrorismo- sia italiano o tedesco, sia sotto la forma delle Brigate Rosse o del terrorismo islamico. Uccidere non è la soluzione, non si arriva a nulla uccidendo. Nel romanzo ci sono due tipi di terrorismo, uno moderno ed uno antico che ha un obiettivo più specifico. E il vecchio che incarna questo secondo tipo di terrorismo disprezza gli altri che agiscono sul traghetto.

C’è un’altra domanda importante nel romanzo e riguarda la violenza: la violenza è sempre la stessa, da qualunque parte venga?
   Sì, la violenza è uguale, non si può combattere la violenza con altra violenza, non combatti contro la violenza creando la violenza. Ci deve essere una linea tra la violenza e la tortura organizzata e l’istituzione che protegge l’integrità della gente: quando il governo tollera la violenza, anche chi governa si mette sullo stesso piano. Succede dove la violenza è istituzionalizzata o tollerata: è la differenza tra il vivere in una democrazia o tra i talebani.

 C’è poi il tema ricorrente del ricatto: pensa che il ricatto- ad ogni livello, politico o affettivo- sia un segno di vigliaccheria e di debolezza?
    Penso che il ricatto sia la via più breve per raggiungere cose che non sono raggiungibili. Per i terroristi è la cosa più facile, minacciare di uccidere un ostaggio al giorno se le loro richieste non vengono soddisfatte. La stessa cosa avviene per la polizia, per costringere qualcuno a testimoniare. E’ la via più breve e illegale per raggiungere quello che si vuole.

Kostas si lamenta spesso dello strascico dei giochi olimpici: i vantaggi dell’essere il paese ospitante sono finiti insieme ai giochi? O ci sono stati anche dei veri svantaggi come conseguenza?

    Il vantaggio è stato che la Grecia ha avuto successo per la brillantezza dell’organizzazione. Dobbiamo considerare che in Grecia tutto è sempre un miracolo. La Grecia è molto male organizzata, non ha solide strutture, non ha una pianificazione efficace. Allora tutta questa debolezza dipende in qualche modo dal miracolo, nel caso si riesca a concludere qualcosa. Quando alla fine tutto funziona, gli stranieri dicono, ‘è un miracolo’. Il male dei miracoli è che finiscono presto. Sono stati spesi un mucchio di soldi per costruire delle arene enormi perché si voleva impressionare i visitatori, è vero, ma anche perché gli appalti erano maggiori per costruzioni maggiori. Ora nessuno vuole queste strutture gigantesche, nessuno le vuole comperare, i costi di mantenimento sono alti, cadono a pezzi, sono abbandonate. Nel romanzo si parla di una zona che si è trasformata in alloggi economici di albanesi e zingari, sì, potrebbe essere una soluzione- ma noi paghiamo ancora il debito.

Un’altra cosa di cui Kostas si lamenta sono le “eurette”: quali sono state le conseguenze dell’introduzione dell’euro in Grecia? C’è stato un aumento dei prezzi come in Italia?
   In Grecia con l’euro è successo come ovunque, i prezzi sono aumentati in maniera spropositata. Però se non fossimo entrati in Eurolandia, la dracma sarebbe crollata. L’euro è molto più stabile e anche più costoso. Per tutti i greci è diventata abitudine cambiare mentalmente il prezzo in euro in quello corrispondente nelle vecchie dracme per rendersi conto di quanto costi qualcosa. Il vantaggio è che i greci non hanno alcun senso del denaro e così i politici se la sono cavata. Ma i greci fanno fatica a mantenere il livello di vita che avevano prima, nelle famiglie si deve lavorare in due e poi c’è il problema degli interessi di credito, dei prestiti e dei mutui.

Di recente, in Italia, ci sono state delle discussioni sui giornali sul termine politicamente corretto da usare per gli omosessuali. Le parole usate nel romanzo sono divertenti e non proprio corrette, c’è persino l’adattamento del vocabolo ‘finocchio’ in ‘finocchicidio’. Non c’è in Grecia l’ossessione per il politicamente corretto?
   Come scrittore vivo in un ambiente in cui gli omosessuali- o i gay che dir si voglia- sono molto numerosi. Ho molti amici gay. Ma, fuori della cerchia degli artisti o dei letterati, le parole usate per gli omosessuali sono offensive e per questo ho messo nel romanzo delle vittime omosessuali, per questo ho usato volutamente un certo linguaggio “scorretto”, per mostrare il pregiudizio su queste persone.

Il passato riaffiora in molti suoi romanzi: quale consapevolezza hanno i giovani di come fosse la vita in Grecia anche solo 30 anni fa?
    Nessuna, definitivamente nessuna. Da noi non è successo come è successo in Germania o altrove, dove si è chiesto a quelli della passata generazione che cosa avessero fatto durante la guerra. Noi Greci non abbiamo elaborato il passato, per quello insisto su questo tema nei miei romanzi e in questo in particolare. Dobbiamo affrontare il passato, e invece nessuno lo fa, neppure gli scrittori lo fanno ed è ancora peggio. E’ necessario un lavoro storico organizzato per affrontare il passato, della guerra civile, della giunta. Adesso forse questo lavoro sta iniziando, ma molto lentamente.

Caterina ha terminato gli studi, la Mirafiori pare fermarsi definitivamente da un momento all’altro…andrà in pensione il commissario Charitos?
Ah, la Mirafiori! Non so proprio che cosa fare con la Mirafiori! Ma no, Kostas Charitos non andrà ancora in pensione.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



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lunedì 12 giugno 2017

Andrea Camilleri, “La rete di protezione” ed. 2017

                                                                  Casa Nostra. Qui Italia
   cento sfumature di giallo
   FRESCO DI LETTURA 


Andrea Camilleri, “La rete di protezione”
Ed. Sellerio, pagg. 288, Euro 14,00

E’ incredibile. Andrea Camilleri ha fatto ancora centro. Incredibile perché Camilleri è come l’araba fenice, si pensa che abbia raccontato tutte le storie che poteva raccontarci su Vigata e il commissario Montalbano, che non possa fare a meno di accusare una certa qual stanchezza, e invece ecco che, puntuale, esce un suo libro che ci cattura fin dalla prima pagina. Camilleri è un maestro nell’inventare nuove situazioni, ha un orecchio attento alle novità e un fiuto che coglie le tendenze del momento. I suoi romanzi sono sempre anche qualcos’altro oltre ad un’indagine poliziesca, sono un’indagine nei cambiamenti della nostra società osservati da un angolo della Sicilia, un microcosmo di cui ormai conosciamo bene gli abitanti, che sono i personaggi della serie che ha per protagonista Salvo Montalbano.
     In “La rete di protezione” il grande evento è l’arrivo di una troupe televisiva svedese a Vigata. Devono girare una ficzion con una storia ambientata negli anni ‘50 e il paese viene ribaltato per riportare indietro il tempo e rendere le riprese il più possibile uguali al vero. Scompaiono insegne al neon, riaprono vecchi negozi, le comparse locali vestono seguendo la moda degli anni ormai lontani. Per ricostruire le strade e la vita degli anni ‘50 si è fatto uso di pellicole amatoriali tirate fuori da scatoloni accantonati ed è proprio una serie di vecchi filmini girati da suo padre che incuriosisce l’ingegnere capo del Comune, Ernesto Sabatello. Per sei anni di seguito, dal 1958 al 1963, nello stesso giorno di maggio e alla stessa ora, suo padre aveva ripreso un muro bianco. Per scoprirne il perché Sabatello consegna pellicole e proiettore a Salvo Montalbano. Questa strana indagine su qualcosa di inesistente (dopo tutto, non si sa neppure su che cosa si stia indagando) si affianca presto ad un’altra di tutt’altro genere. Mimì Augello aveva accennato al suo capo di episodi incresciosi di bullismo avvenuti nella scuola del figlio tredicenne Salvuzzo. Per coincidenza (ma è proprio una coincidenza?) due individui mascherati irrompono nella classe IIIB (quella di Salvuzzo, per l’appunto), fanno un proclama generico contro le ingiustizie, sparano due colpi intimidatori in aria e fuggono via, inseguiti da Mimì che era andato a parlare con il professore. Un’azione terroristica? Né lo strano discorso che hanno fatto né il modus operandi dell’azione corrispondono.


     L’abilità di Andrea Camilleri è nel tessere i fili delle sue trame e far tornare sempre i conti, alla fine. Sia la storia del passato- perché c’è una dolorosa storia famigliare nascosta dal muro bianco inquadrato nei filmini dell’ingegnere Sabatello- sia quella del presente che rivela la solitudine e la fragilità dei nostri giovani, hanno a che fare con ‘la rete di protezione’ del titolo che è anche, fuori della metafora, la rete arancione di protezione che la troupe televisiva ha steso intorno alla casa di Montalbano, quando sono state fatte riprese sulla sua verandina.
E, in definitiva, è lo stesso Salvo Montalbano ad offrire un’ulteriore protezione ai personaggi coinvolti, con l’empatia e la generosità che conosciamo. Ci piace il modo che ha Andrea Camilleri di far invecchiare con naturalezza il protagonista dei suoi romanzi. E Montalbano invecchia bene, anche se il suo rapporto con l’eterna fidanzata a Boccadasse non è mai approdato a nulla ed è sempre piuttosto frustrante per Livia, anche se, quando parla con i giovani studenti che usano un linguaggio che lui non conosce, che fanno volare con destrezza le dita su quegli strumenti tecnologici con cui lui non ha dimestichezza (straordinaria la scena di Catarella che mostra insospettata abilità al computer),
gli viene una fitta di malinconia nel pensare al figlio che non ha avuto, al possibile figlio adottivo François apparso nei primi romanzi, anche se, per non fronteggiare il passato, non vorrebbe incontrare una donna che ormai è nonna ed è stata una sua ‘fiamma’ (anche lui potrebbe essere nonno), anche se temiamo che finisca con ingrassare perché ci sembra che mangi troppo. Montalbano invecchia bene perché non perde l’umorismo, la carica di affetto umano, la capacità di comprendere gli errori e di non infierire, se non serve a nulla.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net


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