lunedì 31 dicembre 2018

Tamta Melašvili, “La conta” ed. 2018


                                                                Voci da mondi diversi. Georgia
                                                                la Storia nel romanzo
     romanzo di formazione

Tamta Melašvili, “La conta”
Ed. Marsilio, trad. Francesco Peri, pagg. 108, Euro 14,00

      Tre brevissimi giorni per quello che accade nel breve libro della scrittrice georgiana Tamta Melašvili: mercoledì, giovedì, venerdì, in un rincorrersi che è quello delle ore. Termina di sabato, ma non andate a vedere prima come.
Il tempo non è precisato, ma sappiamo che deve essere il 2008, anno della guerra tra Georgia e Russia nelle terre di confine dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia. Neppure le due parti sono mai nominate, si parla di ‘noi’ e degli ‘altri’. E gli ‘altri’ sono i nemici per le due ragazzine protagoniste, Ninco e Ketevan (l’amica la chiama con il nomignolo affettuoso di ‘Topi’, piccolina).
      Vivono in un quello che deve essere un paesino ormai per lo più disabitato- gli uomini sono in guerra, vecchi, donne e bambini sono rimasti in paese. Vecchi che non hanno più un motivo per vivere, donne che non sanno come sfamare i figli, bambini che giocano alla guerra, che vanno a vedere il cadavere di un soldato morto quasi fosse uno spettacolo, che- come Ninco- fanno concessioni ai soldati nemici per un pacchetto di sigarette. Hanno tredici anni, Ninco e Topi. Ma Ninco è già una piccola donna, Topi lo diventerà nell’arco dei tre giorni che racchiudono tutta la sua vita. Ninco deve prendersi cura della vecchia nonna e Topi di un fratellino che ha solo un mese e la mamma non ha più latte per allattarlo. Forse la situazione migliorerà se veramente apriranno un corridoio, forse riusciranno a procurarsi qualcosa. E’ l’allettamento dei soldi che le spinge ad accettare l’incarico che propone loro un ragazzo più grande: devono attraversare il bosco evitando la zona minata, fare finta di andare per funghi (è plausibile, no?, c’è così poco da mangiare), ci sarà qualcuno che le aspetta e darà loro della roba da nascondere nel cestino.
    Il titolo è “La conta”. Possiamo pensare che in questo paesino ci si può mettere a contare chi c’è e chi non c’è più, possiamo pensare al gioco che fanno i bambini con una filastrocca, Conta dieci, conta venti, leva tutti e quattro i denti. Ed è quello che fa Topi quando le consegnano dei fogli con i nomi di chi è morto, indicandole a chi deve consegnarli e dicendole di non leggerli. Leggerli? Non leggerli? Topi li legge, poi fa degli aeroplanini di carta con i fogli e li fa volare via.
macerie a Gori
     Quello di Tamta Melašvili è un tragico romanzo di formazione, un libro che parla di guerra vista dalla parte dei bambini, che sono capaci di mescolare parole più grandi di loro con quelle dei loro giochi, che si adattano, in qualche modo, alla realtà che li circonda, alla puzza dei cadaveri e al dolore della perdita, continuando a pensare alle tette che non spuntano ancora o che sono già cresciute, che riescono perfino a prendersi gioco della guerra, come quando Ninco finge un attacco di epilessia per eludere le domande di chi le ha sorprese nel bosco. A volte i giochi, però, finiscono molto male. Soprattutto se c’è una guerra in corso.
     Si legge in un attimo, ma non si dimentica.

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Auguri!







     Auguri a tutti, per un anno sereno, in buona salute, un anno che porti pane, fiori e libri.

domenica 30 dicembre 2018

I dieci bellissimi del 2018






      E’ il giorno dell’appuntamento di fine anno. Quello in cui ci si gira indietro, in cui, per noi lettori, si ripensa ai libri letti cercando di selezionare i ‘bellissimi’. Non è mai una scelta facile. C’è una linea sottilissima tra i bellissimi e i belli, tra quelli che ci hanno fatto riflettere ma che, per vari motivi, non riusciamo a considerare bellissimi. Come al solito sottolineo che la mia è una scelta personale che non è mia intenzione imporre a nessuno. E, con grande dispiacere, devo dire che quest’anno non sono riuscita a radunare dieci titoli di libri tra i 127 che ho letto (meno dello scorso anno- la famiglia è cresciuta, gli impegni e la stanchezza anche). I bellissimi sono solo otto, e non tutti a pieni voti.

L’ordine dei libri è alfabetico, per autore:

-        Kent Haruf, “Vincoli”. Ed. NN

Walter Kempowski, “Tutto per nulla”. Ed. Sellerio

Carmen Korn, “Figlie di una nuova era”. Ed. Fazi

Ernst Lothar, “Una viennese a Parigi”. Ed. e/o

Daniel Mendelsohn, “Un’odissea, Un padre, un figlio, un’epopea”. Ed. Einaudi

Haruki Murakami, “L’assassinio del commendatore”. Ed. Einaudi

Gard Sveen, “L’ultimo pellegrino”. Ed. Marsilio

Magda Szabo, “La notte dell’uccisione del maiale”. Ed. Anfora



sabato 29 dicembre 2018

Yan Lianke, “I quattro libri” ed. 2018


                                    Voci da mondi diversi. Cina
    la Storia nel romanzo

Yan Lianke, “I quattro libri”
Ed. Nottetempo, trad. Lucia Regola, pagg. 471, Euro 19,55

     Che cento fiori sboccino, che cento scuole rivaleggino. Pensiamo allo slogan di Mao del 1956 leggendo “I quattro libri” di Yan Lianke, restando sommersi da un mare di fiori rossi, di carta e di stoffa, piccoli, medi, grandi, il premio per cui lavorano fino allo sfinimento i detenuti del campo di rieducazione Sezione 99 nel Nord della Cina, sulle rive del Fiume Giallo. Cinque fiori piccoli valgono un fiore medio, cinque fiori medi danno diritto ad una stella a cinque punte, con cinque stelle si può tornare a casa da moglie e figli, alla propria cattedra, ai laboratori, alle biblioteche. Perché la Sezione 99 è il campo degli intellettuali che devono essere rieducati perché si sono fidati di quell’invito, ‘che cento scuole rivaleggino’.
      Quattro narrative, ne “I quattro libri”, come i quattro Vangeli e almeno una delle quattro è ricalcata sul tono della Bibbia, come se l’apertura del campo fosse la creazione del mondo e il Bambino la divinità che stabilisce le leggi, “Sono tornato. Vengo da lassù, dal paese. Ho dieci precetti da annunciarvi.” A “Il figlio del cielo” si alternano altre due narrative, “Il vecchio corso” e “Cronaca dei criminali”, entrambe scritte in prima persona dallo Scrittore (nessun personaggio ha un nome, resteranno sempre il Bambino- e pensiamo alle giovanissime Guardie Rosse-, lo Scrittore, il Religioso, l’Erudito, la Musicista). La “Cronaca dei criminali” è stata commissionata allo Scrittore dal Bambino- riceverà una ricompensa per la sistematica delazione. Infine, nelle ultime pagine, c’è il manoscritto incompiuto dell’Erudito, “Il mito di Sisifo”, un rovesciamento della fatica di Sisifo in cui non fatichiamo a riconoscere quanto avvenuto in Cina.

      Ci piacerebbe poter pensare che stiamo leggendo un libro del genere della distopia, che quanto descritto potrebbe accadere o potrebbe essere accaduto. E invece è tutto vero, questo (come scrive Yan Lianke nell’esergo) è ‘un pezzo di storia dimenticata’. Tutto vero, dalla coltivazione intensiva prima (simboliche e significative le pagine in cui le piante di grano vengono innaffiate con il sangue dello Scrittore), alla roboante campagna “Strappiamo la luna, colpiamo il sole- raggiungiamo l’Inghilterra, superiamo l’America”, con la costruzione di altiforni improvvisati in ogni villaggio e lungo tutta la sponda del Fiume Giallo, il conseguente disboscamento per far ruggire di continuo le fiamme nei forni e così produrre sempre più acciaio, e poi le piogge (“dopo sette giorni e sette notti le rive sabbiose erano asciutte…Seguirono sette giorni di sole cocente…”), la carestia, la fame. Come le calamità bibliche.
Le descrizioni di quello che succede nel campo 99 sono realistiche, con un tocco di lirismo per farci soffrire di meno (come se fosse possibile), con il colore rosso che domina, rosso dei fiori di carta, rosso delle bandiere, rosso del sangue, perfino le urla sono scarlatte- perché anche i suoni hanno un colore, nel libro di Yan Lianke. Il sequestro e il rogo dei libri, e poi i libri salvati e nascosti che vengono barattati con il Bambino (lui li usa per alimentare la stufa) per un pugno di cereali, finché c’è ancora qualcosa da mangiare, prima che la Musicista si venda per fame ad un uomo ributtante, prima che si cuocia la pelle delle scarpe o delle cinture, prima che non resti neppure un cadavere intatto, di quelli morti per freddo (trenta sotto zero) o per denutrizione, lo sforzo continuo per mantenersi ‘umani’.
     Passeranno anni prima di avere una stima dei morti- si parla di oltre cinquanta milioni di vittime del Grande Balzo. Un’esagerazione? Anche fossero di meno, sarebbero troppi. Un libro epico, da leggere. Per non dimenticare ‘le decine di migliaia di intellettuali che morirono e che sopravvissero’.


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Amos Oz. 4 maggio 1939-28 dicembre 2018




E' morto Amos Oz. Un grande uomo e un grande scrittore. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e di presentarlo al Festival della Letteratura di Mantova nel 2010. Ci mancherà. Requiescat in pace.


Le recensioni dei suoi libri sono sotto l'etichetta "Voci da mondi diversi. Medio Oriente", per lo più tra quelle del 2014 sul blog.

mercoledì 26 dicembre 2018

Keigo Higashino, “Sotto il sole di mezzanotte” ed. 2018


                                                             Voci da mondi diversi. Giappone
            cento sfumature di giallo


Keigo Higashino, “Sotto il sole di mezzanotte”
Ed. Giunti, trad. A. Specchio, pagg. 704, Euro 17,00

      Ci sono, gli ispettori di polizia che non mollano, che seguono la preda come segugi per anni e anni, senza dimenticare un dettaglio, un indizio. Sasagaki, del corpo di polizia di Tokyo, è uno di questi. Vent’anni per scovare il colpevole di un crimine commesso in un giorno lontano in cui Sasagaki era di riposo, tutto il tempo per terminare la carriera e andare in pensione, per mettere su pancia e vedersi ingrigire i capelli. Vent’anni di quello che potrebbe essere come il gioco di ‘guardia e ladri’ che fanno i bambini giustificano le 700 pagine del libro che non farete fatica a divorare.
        In un edificio abbandonato viene ritrovato il corpo di Kirihara Yosuke, proprietario di un banco dei pegni. E’ stato ucciso con un’arma da taglio. Nessun indizio sul colpevole. I sospetti si accentrano sul commesso del negozio che- si dice- era l’amante della moglie di Kirihara.

       La particolarità della trama di “Sotto il sole di mezzanotte” è nel susseguirsi di vicende che ruotano intorno a due personaggi che erano bambini all’epoca del delitto- Kirihara Ryo, dal viso enigmatico e gli occhi con una luce cupa, e Yohiko, 11 anni all’epoca, ma già bellissima. Yohiko è la figlia dell’amante di Kirihara Yosuke e non dirò il suo cognome perché la bambina viene adottata da una parente di cui prende il cognome oltre allo stile di vita, più raffinato di quello della madre che è morta per soffocamento da gas: incidente domestico o suicidio? Questa è la prima di una serie di morti o di incidenti piuttosto gravi che accadono a persone che entrano casualmente in contatto con Yohiko o Ryo.
I quali, peraltro, hanno successo nella vita. Ryo si arricchisce con traffici illegali- è un personaggio che ci fa sentire a disagio ogni volta che lo incontriamo nelle pagine del romanzo- e Yohiko ha uno straordinario successo aprendo una catena di negozi. In più, Yohiko è una manipolatrice capace di sedurre gli scapoli più appetibili, sbarazzandosi subdolamente delle eventuali rivali.
     Il tempo passa, matrimoni si fanno e si disfano, misteriosi hacker entrano nei sistemi di aziende e in conti bancari personali, scompare un investigatore, donne ingenue si lasciano ingannare, uomini innamorati si lasciano accecare, di tanto in tanto Sasagaki riappare e macina informazioni, rimugina sospetti. Un’ennesima morte- ma è una persona anziana, come si può sospettare?-, un vaso che si rompe, la lente di un occhiale che si trova nel terriccio, un presunto colpevole che appare e scompare- sembra la Primula Rossa.
     In questo mondo c’è chi cammina nel sole e chi, invece, nel buio, ‘sotto il sole di mezzanotte’- lo dice uno dei personaggi. Perché? Che cosa, quali esperienze determinano la personalità di un individuo? E sono sufficienti, queste esperienze, così negative da marchiare per sempre chi le ha vissute e da distorcere il loro modo di essere, per giustificare il Male? Quasi che da Male non possa scaturire altro che Male.

     Un thriller psicologico in cui la tensione- più che sull’identità del colpevole che, però, resta incerta fino alla fine- si regge sul ‘come’ e sulla scommessa se Sasagaki riuscirà o meno a risolvere il caso (giusta ricompensa per il suo acume e la sua costanza). E poi Keigo Higashino è ricco di dettagli sulla vita in Giappone, su quella che è sotto gli occhi di tutti e sui risvolti più segreti e oscuri della vita che si svolge ‘sotto il sole di mezzanotte’.

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Ronaldo Wrobel, “Traducendo Hannah” ed. 2013


                                                 Voci da mondi diversi. Diaspora ebraica
       love story
       spy-story

Ronaldo Wrobel, “Traducendo Hannah”
Ed. Giuntina, trad. Vincenzo Barca, pagg. 218, Euro 15,00
Titolo originale: Traduzindo Hannah


       Rio era un campo minato. Bande di fanatici si scontravano nelle strade, non sempre consapevoli di quanto predicavano, ma odiando ciò che predicavano i loro rivali. Un tumulto aveva infiammato la Rua do Catete, le scuole erano sul piede di guerra, gli integralisti andavano vestiti di verde e gridavano “Anauê”, furiosi contro gli ebrei. C’era gente che spariva nel silenzio della notte, altra in pieno giorno. Era frequente vedere persone ammanettate trascinate sulle camionette della polizia, che partivano a razzo a sirene spiegate. Chi, cosa, quando, come? Erano gli interrogativi sussurrati. Solo gli audaci indagavano anche sui perché.


         “Traducendo Hannah”- ma, che cosa vuol dire ‘tradurre’? ‘Tradurre’ è, prima di tutto, capire il significato di una parola o di un testo e, poi, renderlo in un’altra lingua. Il bel romanzo insolito di Ronaldo Wrobel gioca sul significato del verbo tradurre: nelle sue pagine si traducono parole e una persona, la protagonista Hannah. Perché Hannah è elusiva, inafferrabile. Hannah è mille persone, è difficile da capire. Qual è la vera Hannah? come ‘tradurre’ Hannah in modo che anche chi non l’ha conosciuta di persona possa non farsi un’idea sbagliata di lei?

    Prima di conoscere Hannah, però, noi incontriamo il calzolaio ebreo Max Kutner, invitato a presentarsi al commissariato di polizia di Rio de Janeiro dove gli viene chiesto (traduci: ordinato) di tradurre dallo yiddish al portoghese la corrispondenza tra gli ebrei che abitano in città e quelli di Buenos Aires. Più di ogni cosa il presidente Getúlio Vargas teme complotti comunisti, le lettere possono contenere qualche messaggio cifrato: il povero Max Kutner, che è arrivato dalla Polonia con un segreto per cui può essere ricattato, deve per forza accettare di diventare una spia.
Getulio Vargas
Conoscerà tutti i segreti degli ebrei di Rio e di quelli di Buenos Aires. E’ un uomo buono, Max Kutner. A volte cambia appositamente la traduzione, quando gli pare possa suscitare dubbi e mettere in pericolo chi ha scritto. A volte interviene di persona per aiutare qualcuno che ha bisogno di un qualche aiuto. Finché, leggendo lo scambio di lettere tra Hannah e la sorella Guita, Max si innamora di Hannah e farà di tutto per incontrarla, entrando in negozi e bussando a porte di sconosciuti, seguendo esili indizi trovati nelle lettere della donna di cui con certezza sa solo il nome, Hannah.
    Il romanzo di Ronaldo Wrobel procede in un alternarsi di presente e passato. Per conoscere Max, ma soprattutto per conoscere Hannah, dobbiamo sapere della loro vita in Polonia e dei fatti che portano alla straordinaria coincidenza per cui hanno lo stesso cognome, Kutner. Non c’è poi tanto da nascondere, nella vita di Max, molto di più in quella di Hannah. C’è una Hannah elegantissima che entra ed esce con alterigia dagli alberghi di Rio, ce n’è una che svolge opere di beneficenza, una che scrive lettere colte e filosofeggianti alla sorella Guita che la ammira sopra ogni cosa al mondo, un’altra ancora che si rivela a poco a poco, mentre l’adorante Max riesce, se non altro, a diventare suo amico. Anzi di più, perché Max, senza neppure capire a fondo che cosa stia succedendo, serve da spalla a Hannah in una missione in cui deve sorvegliare una coppia di tedeschi (nel 1942, vincendo l’opposizione dei filonazisti del suo governo, Getúlio Vargas entrerà in guerra contro l’Asse). E poi c’è anche, nei flash-back sapientemente dosati dallo scrittore, l’Hannah ragazzina in Polonia, nei tempi durissimi in cui ha dovuto assumersi la responsabilità della sorellina tanto più giovane di lei a prezzo della perdita della sua infanzia e dell’innocenza.

    Tutti hanno dei segreti, tutti hanno molto da nascondere nel romanzo di Ronaldo Wrobel. Il segreto di Max è insignificante in confronto a quelli di Hannah, della stessa Guita che mette in scena una recita sfavillante quando viene ad incontrare Hannah a Rio, del cosiddetto marito di Guita che nasconde una trama ampia con un impensato commercio di carne femminile. E allora, sotto l’occhio sempre vigile di Getúlio Vargas che osserva dai ritratti appesi ovunque, il romanzo di Ronaldo Wrobel è una storia in cui a volte è impossibile dare un giudizio su che cosa sia il Male e che cosa sia il Bene, è nello stesso tempo storia d’amore e di sopravvivenza, di spionaggio e di controspionaggio nel Brasile degli anni precedenti la seconda guerra mondiale, diviso tra la paura dei comunisti e quella dei nazisti che già si sono installati nel sud del paese.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



sabato 22 dicembre 2018

Ronaldo Wrobel, “Il romanzo incompiuto di Sofia Stern” ed. 2018


                                                                  Diaspora ebraica
                                                             seconda guerra mondiale
             noir

Ronaldo Wrobel, “Il romanzo incompiuto di Sofia Stern”
Ed. Giuntina, trad. V. Barca, pagg. 210, Euro 17,00

     Germania 2008. Durante gli scavi per la costruzione di un supermercato ad Amburgo viene scoperto il bunker di una banca- nelle cassette di sicurezza ci sono gioielli lì depositati prima o durante la seconda guerra mondiale. Non sarà facile rintracciare i proprietari e individuare chi li reclama senza averne il diritto.
     Brasile 2013. Sofia Stern, che vive a Copacabana con il nipote, è arrivata in Brasile da Amburgo con un visto temporaneo nel 1938. A tratti è lucidissima e a tratti mostra segni di un inizio di Alzheimer- dimentica nomi, lascia la finestra aperta, parla in tedesco. Una volta ha detto che Sofia era morta. Una volta si è persa nella strada in cui abita da settant’anni. Una volta scompare per davvero. E’ così che il nipote digita il nome della nonna in un sito di ricerca di persone scomparse. E’ così che arriva la telefonata dalla Germania: la proprietaria dei favolosi gioielli, la ventenne Klara Hansen morta nel novembre del 1938, aveva spillato insieme ai contratti di acquisto una lettera in cui nominava sua erede l’amica Sofia Stern. La vecchia signora un po’ svanita che ora vive in Brasile deve dimostrare di essere quella Sofia Stern.

     Germania 1933-1938. Il racconto degli anni dell’ascesa del nazismo- gli anni della giovinezza di Sofia, quattordicenne nel 1933- salta fuori da un quaderno marrone trovato per caso dal nipote. E’ il diario della nonna, ma la narrazione è in terza persona e non sono le pagine lette ad essere trascritte, piuttosto filtrate attraverso la voce di Sofia Stern. Si incomincia con la sua amicizia con Klara Hansen, emarginata a scuola quanto lei, Sofia. Sofia perché ebrea, Klara perché povera. Ognuna delle due ha un dono- Sofia ha una bella voce e un orecchio musicale, Klara disegna magnificamente. Nel loro dono c’è anche il loro futuro. Rimasta orfana, Sofia canterà nei locali notturni, sarà conosciuta come ‘la Stella Polare’, un gioco di parole con il suo cognome. E pur essendo innamorata dello scapestrato Hans, il fratello comunista di Klara, si prostituirà, perché in qualche maniera bisogna pur vivere quando il marco ha perso ogni valore. Klara, invece, si farà un nome come sarta dal grande estro e aprirà un atelier con la madre: le signore della migliore società di Amburgo vorranno essere vestite solo da lei.
     C’è molto, moltissimo d’altro nella narrativa centrale del romanzo di Ronaldo Wrobel. La storia di un’amicizia proibita tra una ragazza ariana e un’ebrea diventa una storia di lealtà, dei limiti che si è disposti a superare nel nome di questa amicizia che è simile all’amore nella totale identificazione dell’una nell’altra, nell’accettazione cieca dei comportamenti dell’una o dell’altra. Sono Sofia e Klara le due protagoniste assolute. Intorno a loro ruotano gli uomini, il nobile ‘fidanzato’ di Klara che ha già pronta una fidanzata più consone al suo stato sociale non appena Klara resta incinta, e l’impetuoso Hans, perennemente in fuga, del cui amore non ci si può fidare. Quanto alla Storia- c’è anche quella nel diario della nonna, nel racconto di Sofia.
La Storia entra in sordina, è la Storia vissuta da due ragazze che non hanno neppure vent’anni, oppresse da una minaccia della cui portata non sono in grado di rendersi conto pienamente. Discriminazioni, saluti con il braccio teso, spille con la croce uncinata di cui ci si vergogna ma che si devono indossare, il programma Lebensborn che Klara dovrà subire, la Notte dei Cristalli. E’ con la notte del 9 novembre 1938 che si chiude il racconto del passato in Germania. Di quello che segue abbiamo già saputo negli intermezzi. Della fine del romanzo incompiuto di Sofia Stern sapremo adesso, nelle ultime pagine. Colpo di scena. Sorpresa che chiude questo romanzo molto bello che mescola i generi, inclusi quello del noir e della love story, per tracciare un vivido quadro della Germania alla vigilia della guerra. 

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mercoledì 19 dicembre 2018

Antonio Steffenoni, “La bella famiglia” ed. 2018


                                                                     Casa Nostra. Qui Italia
                                                                    cento sfumature di giallo


Antonio Steffenoni, “La bella famiglia”
Ed. Cairo, pagg. 398, Euro 15,00

       Il delitto di sant’Ambrogio in piazza sant’Ambrogio- sarà questo il titolo dei giornali per il nuovo caso da risolvere per Ernesto Campos, il protagonista dei romanzi polizieschi scritti da Antonio Steffenoni. Sentivamo la mancanza di Ernesto Campos, così come sentiamo la mancanza di Antonio Steffenoni che ci ha lasciato per sempre due anni fa. Ed è con commozione che ritroviamo entrambi in questo libro, “La bella famiglia”, che esce postumo- perché Ernesto Campos, figlio di padre spagnolo e di madre italiana, uomo di un’empatia straordinaria, è l’alter ego dello scrittore che, al contrario di Ernesto, era figlio di padre italiano e di madre spagnola. E chissà che questa doppia identità non contribuisca e non abbia contribuito alla sensibilità speciale di Ernesto e di Antonio che si avverte in ogni pagina del romanzo, nelle parole, nei pensieri, nel modo di Ernesto di rapportarsi agli altri dietro il quale noi ‘sentiamo’ la presenza di Antonio Steffenoni.
     La telefonata che comunica la morte di Dario Sciariada arriva in commissariato la mattina del giorno dell’Immacolata, dopo la festa di sant’Ambrogio, la più importante dell’anno per i milanesi. Dario Sciariada non è un comune milanese, basta leggere l’indirizzo a cui abita. E’ figlio di un uomo ricchissimo, capo di una finanziaria. E’ morto strangolato, in casa sua.

     Ah, le belle famiglie milanesi piene di soldi, che non lasciano trapelare nulla dietro i comportamenti ineccepibili, dietro la facciata delle loro splendide case. Che cosa si nasconde dietro la morte di Dario Sciariada? Motivi famigliari, uno di quegli intrecci da "Groviglio di vipere” di Mauriac, oppure motivi economici legati allo scandalo sull’Expo venuto ora alla ribalta e in cui era coinvolto il vecchio Sciariada?
La bella famiglia Sciariada che possiede un intero palazzo in piazza sant’Ambrogio: il padre su una sedia a rotelle (gli occhi rivelano una forza d’acciaio), una madre ricoverata da anni per un’imprecisata fragilità, il figlio maggiore Dario plurisposato e pluridivorziato, uno squalo che si è fatto dare la procura dal fratello minore per manovrare i beni di famiglia, l’ultima moglie di Dario che non sta più con lui (anzi, non ‘stava’) e però vive in casa sua e svicola evitando di rispondere alle domande di Ernesto Campos.
Tony Servillo. Un personaggio dice che Campos gli assomiglia. A me pare che assomigli ad Antonio Steffenoni
Grandi assenti sulla scena sono la madre (nel ricovero) e il fratello Samuele, scomparso, nessuno sa o vuole dire dove sia. Presente, invece, un anziano giornalista che si definisce una sorta di ‘padre putativo’ di Samuele, fragile come sua madre. Proprio una bella famiglia, come scopriamo quando ne sappiamo di più, compreso l’anno in carcere di Samuele che ha scontato una pena per un fatto di violenza commesso dal fratello, senza dire poi dei legami con un losco moscovita che traffica droga e chissà che altro.
    In una Milano su cui cade la prima neve, dove si accendono delle luminarie che non rallegrano nessuno, l’indagine si svolge in una manciata di giorni. E non sono solo gli scheletri negli armadi della famiglia Sciariada a venire fuori in queste pagine, perché Ernesto ha il suo proprio ‘scheletro nell’armadio’, il ricordo di una notte di molti anni prima che lo perseguita nei sogni, e pure Ulderico Pazzi, l’aiuto di Ernesto, è inseguito dai ricordi delle sue mancanze nei confronti dei figli che ha abbandonato.
E’ la famiglia, dunque, il centro del romanzo di Steffenoni scritto in una prosa elegante che è un piacere leggere. La famiglia che si regge traballante su una quotidiana finzione, quella che si è distrutta, quella di cui non si ha avuto il coraggio di accollarsi la responsabilità. Con tutte le conseguenze su chi ne fa parte. Come diceva Tolstoj? “Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Viene da domandarsi se esistano le famiglie felci, al di fuori della pubblicità del Mulino Bianco.
    Grazie, Antonio Steffenoni, per questo ultimo bel libro, per lo spessore dei tuoi personaggi, per l’umanità che trapela nel raffrontarsi di Ernesto con i colpevoli- c’è qualcuno che sia mai del tutto innocente?

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domenica 16 dicembre 2018

Abraham Yehoshua, “Il tunnel” ed. 2018


                                                    Voci da mondi diversi. Medio Oriente


Abraham Yehoshua, “Il tunnel”
Ed. Einaudi, trad. A. Shomroni, pagg. 344, Euro 20,00

        “-Allora ricapitolando,- dice il neurologo.
       -Sì, ricapitolando,- sussurra la coppia.
     - I disturbi non sono del tutto inventati. Abbiamo veramente rilevato un’atrofia del lobo frontale, che potrebbe suggerire una lieve degenerazione neuronale.”

E’ il timore- più che il timore, l’incubo di chiunque non sia più giovane- il sentirsi fare questa diagnosi. Il dover fronteggiare il decadimento delle proprie capacità intellettive, arrivare al punto di non saper riconoscere chi ci è caro, la moglie, il marito, i figli, di non ricordarsi neppure il proprio nome. Chi siamo, che cosa resta di noi e della nostra identità se si spegne la luce sul nostro passato? E non solo sul passato.
    Il nuovo romanzo del grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua inizia con la scena di Zvi Luria e la moglie che ascoltano le parole del medico. Zvi, settantatre anni, in pensione da cinque dopo aver lavorato a progettare strade e autostrade per l’ente Percorsi di Israele, non aveva badato ad alcune smemoratezze. Poi era successo che aveva preso il bambino sbagliato all’uscita dall’asilo, invece del proprio nipotino. Sì, è vero che il bambino che gli aveva dato fiduciosamente la manina era in cerca di un nonno che non aveva e lo aveva trovato in lui, ma ugualmente…Ecco perché gli accertamenti. Seguiti dai consigli del medico di combattere la malattia, di far funzionare il cervello, di continuare far l’amore con sua moglie. Il suggerimento della moglie è di trovarsi un lavoro di consulenza, dopotutto ha un’esperienza non da poco come costruttore di strade. E il caso fa sì che il figlio di un ex collega non veda niente di strano nell’accettare la sua proposta di collaborazione: sta lavorando ad un progetto per costruire una strada segreta attraverso il deserto del Negev. Sarebbe una bella sfida per Zvi che ha sempre lavorato nel Nord del paese. Ed è proprio Zvi a suggerire, invece di spianare una collina su cui ci sono dei resti nabatei, di scavare un tunnel che potrebbe anche rendere più facile il controllo della strada. E risolverebbe anche l’altro problema- non danneggiare tre palestinesi (padre e due figli) che, per una strana situazione vivono lì senza carta di identità, non più palestinesi ma neppure israeliani.

     Questo è un libro della piena maturità dello scrittore che esplora il tema della malattia- quella mentale di Zvi e quella fisica (un tumore al pancreas) dell’ex collega padre dell’ingegnere che accetta la collaborazione di Zvi. Perché è inutile girarci intorno: se non si muore giovani (e purtroppo non è così poco comune in un paese sempre sull’orlo della guerra come è Israele), saranno il cancro o l’Alzheimer a mettere fine alla nostra vita. E Abraham Yehoshua diventa interprete delle nostre paure cercando di scherzarci sopra, suggerendo strategie per ingannare la malattia, per rallentare, se possibile, il suo inesorabile progredire. C’è ironia macabra nella scena in cui Zvi si fa tatuare sul braccio il numero dell’antifurto dell’automobile- un numero tatuato ha sempre identificato un ebreo che è stato internato nei lager nazisti, con Zvi il numero della morte diventa il numero della salvezza insieme ad altri accorgimenti, come appuntarsi su un taccuino dove abbia parcheggiato la macchina o avere due cellulari con sé.
Il cratere di Ramon nel Negev
C’è altro ancora nel romanzo di Yehoshua. C’è un filone politico nella trama secondaria dei tre palestinesi senza identità- e il tunnel del titolo acquista un valore metaforico-, ci sono le frequenti frecciate alla corruzione che non risparmia Israele, si accenna con rimpianto ai grandi leader come Ben Gurion e Rabin, e poi c’è l’amore. L’ho lasciato per ultimo perché il legame d’amore tra Zvi e la moglie è dolcissimo e commovente. E’ l’amore che salva il mondo o, se non il mondo, può salvare Zvi. Ed è il più bel messaggio che lo scrittore possa inviare alla sua Ika, morta due anni fa. Un intero romanzo con la dedica iniziale, Alla mia Ika. Infinito amore.

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giovedì 13 dicembre 2018

Kent Haruf, “Vincoli” ed. 2018


                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
       dramma
       love story


Kent Haruf, “Vincoli”
Ed. NN, trad. Fabio Cremonesi, pagg. 264, Euro 18,00

    1977. Nell’ospedale di Holt, la cittadina immaginaria del Colorado dove Kent Haruf ambienta i suoi romanzi, l’ottantenne Edith Goodnough giace in un letto, attaccata alle flebo. Fuori della porta un poliziotto fa la guardia. Arriva in città un giornalista a caccia di una storia che faccia un bel titolo e viene trattato in malo modo da Sanders Roscoe che abita nella fattoria vicino a quella dei Goodnough- sembra tutto così facile e chiaro, vero? al giornalista sembra di avere capito tutto, no? E invece non ha capito proprio nulla, nessuno può capire senza conoscere bene Edith e la sua famiglia. Ed infine è proprio lui, Sanders Roscoe, figlio di quel John Roscoe che aveva amato Edith senza speranza, a raccontare la storia dei Goodnough.
     I vecchi Goodnough erano arrivati dall’Iowa in Colorado nel 1896. Invece dei ricchi campi che avevano lasciato, avevano trovato polvere e rocce. Avevano avuto due figli, Edith e Lyman. Quando Ada Goodnough era morta- per sfinimento oltre che per malattia-, Roy aveva continuato a lavorare con i figli quella terra arida. Un uomo tremendo, Roy Goodnough, un padre padrone che era diventato ancora più irascibile e dispotico dopo aver perso le dita di entrambe le mani dentro la mietitrebbiatrice. Era stato allora che il sogno d’amore di Edith aveva avuto il breve tempo di nascere e morire. Avrebbe forse potuto sposarsi e lasciare il peso del padre in quelle condizioni a suo fratello?

      “Perché, stammi a sentire:”- sono le parole che terminano il primo capitolo. Se Perché, stammi a sentire fosse l’incipit, sarebbe memorabile quanto Chiamami Ismaele. Si rivolge proprio a noi, c’è urgenza in quelle parole, è una storia che dobbiamo capire, che di certo lo sceriffo non ha raccontato in maniera giusta al cronista curioso, che dobbiamo sapere prima che Edith Goodnough (e Sanders Roscoe, correggendo stizzito la pronuncia del giornalista, ci ha insegnato a dire questo nome) compaia in tribunale su una sedia a rotelle. Accusata di che cosa? Dobbiamo aspettare prima di saperlo. Per ora sappiamo solo che c’è stato un incendio. E Sanders racconta e nel suo racconto la storia dei Goodnough si intreccia con quella dei Roscoe, fin da quando sua nonna aveva aiutato Ada Goodnough a partorire. E’ una lunga storia che parla di crudeltà e meschinità, di amore e di sacrificio, della fuga del figlio maschio di Roy Goodnough e dell’abnegazione che è rinuncia di sé di Edith, del ritorno di Lyman anziano su una sfolgorante Pontiac, di ‘ties that bind’ come dice il titolo originale, lacci che legano, come il fil di ferro che causa l’incidente che menoma Roy, come il filo di seta che unisce John Roscoe e poi suo figlio Sanders e dopo ancora la bambina Rena ad Edith. Fino ad un altro incidente che mette fine al breve intermezzo di gioia e libertà di cui aveva goduto Edith. Perché la vita è ingiusta ed è inutile lamentarsi.

    Più che mai, in questo libro pubblicato per la prima volta nel 1984 in cui Holt appare sullo sfondo lasciando il primo piano alle fattorie, alla terra e agli allevamenti, Kent Haruf ci tiene avvinti e ci incanta con la sua narrazione- un lungo discorso diretto che riesce, in qualche maniera, a passare la parola ai personaggi come se fossero loro stessi a raccontare in prima persona. Tutto ci affascina in questa vicenda, l’intuizione oscura di quello che accadrà inevitabilmente, l’ammirazione per la protagonista e, insieme, il desiderio che si ribelli ad un destino così ingiusto e che qualcosa per lei possa cambiare, perfino lo sgomento che proviamo per la durezza di un’esistenza che ci fa apparire celestiale la nostra. E lo stile limpido di Haruf dà brillantezza ai colori, esalta le espressioni dei visi, ci trasporta a Holt.
    Nel suo crudo realismo, il più bello dei romanzi di Kent Haruf.

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