domenica 31 dicembre 2017

I dieci bellissimi del 2017

   
    


  Ultimo giorno dell’anno. E’ il giorno per guardarsi indietro, per scegliere i dieci libri bellissimi del 2017 prima di lanciarsi in nuove letture. Quest’anno ‘i bellissimi’ non sono stati molto numerosi- la prima scelta (tra i quasi 150 letti) ne aveva solo tre in soprannumero. Sono stata molto incerta su quale eliminare, poi ho deciso, con qualche rimpianto. La lista dei ‘bellissimi’ è in ordine alfabetico. E, naturalmente, segue il mio gusto personale. Mancano quelli che non sono riuscita a leggere.

1-               Fernando Aramburu, “Patria”, ed. Guanda

2-              Paolo Cognetti, “Le otto montagne”, ed. Eianudi

3-             Albrecht Goes, “Il sacrificio del fuoco”, ed. La Giuntina

4-             Guzel’ Jachina, “Zuleika apre gli occhi”, ed. Salani

5-             Walter Lucius, “La farfalla nell’uragano”, ed. Marsilio

6-             Paolo Malaguti, “Prima dell’alba”, ed. Neri Pozza

7-            Ann Patchett, “Il bene comune”, ed. Ponte alle Grazie

8-            Kjell Westö, “Miraggio 1938”, ed. Iperborea

9-           Magda Szabó, “Affresco”, ed. Anfora

10         Madeleine Thien, “Non dite che non abbiamo niente”, ed. 66th and 2nd

sabato 30 dicembre 2017

Donatella Di Pietrantonio, “L’arminuta” ed. 2017

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia
            premio Campiello
            FRESCO DI LETTURA


Donatella Di Pietrantonio, “L’Arminuta”
Ed. Einaudi, pagg. 163, Euro 17,50

       L’arminuta, la ritornata. La chiameranno così i compagni di scuola, con la sottile cattiveria degli adolescenti, questa ragazzina tredicenne che è ritornata dalla sua vera famiglia che però lei non ha mai conosciuto. Con una valigia e una sacca di scarpe suona alla porta. Le apre una bambina con i capelli sporchi e l’aria stracciona. Sua sorella Adriana. Ci sono anche dei fratelli. Il più piccolo è in braccio alla madre. E’ sua madre, questa donna sconosciuta? Lei ha sempre chiamato mamma quella che ha lasciato in città.
    Ci domanderemo per tutto il libro- come se lo domanda lei- perché la bambina sia stata ‘restituita’, come un pacco rispedito al mittente. E’ ammalata quella mamma che ormai non sa più come chiamare? Non sa neppure come chiamare questa, di mamma. Così non la chiama affatto. La casa piccolissima, il letto in cui dorme testa-piedi con Adriana, il cibo scarso e non certo buono come quello a cui era abituata, i fratelli che la tormentano, Vincenzo, il fratello maggiore, che si infila nel suo letto, il piccolino che non è uguale agli altri bambini della sua età, la diversità che- è innegabile- c’è tra i suoi modi e quelli di tutti i membri della famiglia- il cambiamento è un trauma per lei che spera a lungo di tornare ‘a casa’. Quando tornerà, quando avrà saputo il perché dell’allontanamento, non sarà per restare e la aspetterà il dolore di un’altra separazione.

    Donatella Di Pietrantonio mostra una sensibilità straordinaria nel parlarci dei sentimenti di una ragazzina sulla soglia dell’adolescenza sottoposta a prove che la fanno soffrire e crescere. Avevo appreso leggendo “Accabadora” di Michela Murgia (un altro Premio Campiello, nel 2010, proprio come “L’Arminuta” che lo ha vinto nel settembre di quest’anno, 2017, e osservate la strana assonanza dei due titoli pur in due dialetti diversi) che in Sardegna si chiama ‘fillus de anima’ il bambino ‘regalato’ da una madre povera ad una donna che non può diventare madre, diventando da figlio di sangue a figlio dell’anima. La narratrice senza nome del romanzo di Donatella Di Pietrantonio è una ‘figlia dell’anima’ che trova più doloroso, nel suo percorso di crescita, capire ed accettare il secondo abbandono del primo. E’ facile capire perché sia stata ceduta a sei mesi. Un compagno di scuola dice brutalmente in faccia alle due sorelle che i loro genitori sono come conigli. Più difficile giustificare la restituzione alla vera famiglia in un’età in cui è ancora abbastanza piccola da piangere il distacco dalla mamma e tuttavia abbastanza grande da vedere la frattura, da paragonare, da ricordare, da rimpiangere, da sentire nostalgia.
    Non è soltanto il punto di vista dell’ ‘arminuta’, con la difficoltà dei suoi  rapporti con coloro che, a tutti gli effetti, sono degli estranei per lei (è per questo che le voglie del fratello Vincenzo non ci sembrano neppure incestuose), su cui il lettore si trova a riflettere. Insieme ad Adriana, la sorella ritrovata che, unica, offre all’arminuta il tesoro del suo affetto totale, le altre due protagoniste del romanzo sono le due madri che pongono il problema della responsabilità e del significato della maternità in un Abruzzo ancora molto povero (un riferimento all’appena inaugurato Gardaland da parte di Adriana ci aiuta a collocare il tempo della vicenda) negli anni prima della pillola quando una gravidanza poteva essere un fardello da accettare fatalisticamente e la colpa della sterilità era da attribuirsi solo alla donna.

    Un romanzo di formazione molto bello, uno stile che scorre veloce e pulito, un’ambientazione tra un paese e una città che non sono mai nominati- della città sappiamo solo che si affaccia sul mare e la scoperta del mare da parte di Adriana è tenera e commovente, come quella di Carlino nel famoso romanzo di Ippolito Nievo.

gli altri romanzi di Donatella Di Pietrantonio sono recensiti nei post del 2014 sotto l'etichetta 'Casa Nostra. Qui Italia'.




giovedì 28 dicembre 2017

Alan Drew, “Nei giardini d’acqua” ed. 2009

                                 Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
          love story

Alan Drew, “Nei giardini d’acqua”
Ed. Piemme, trad. Isabella Vaj, pagg. 365, Euro 19,00

Titolo originale: Gardens of Water


    Quando raggiunsero il pandemonio dell’ospedale tedesco, Sinan venne a sapere che suo figlio era rimasto sepolto vivo per quasi tre giorni.
    “Incredibile” aveva detto il medico dopo aver visitato il ragazzo in un ambulatorio pieno di cadaveri. Ogni corpo era disteso su una barella, coperto con un lenzuolo azzurro da cui sporgevano solo i piedi: scarpe nere maschili lucide come specchi, pantofole rosa, dita nude con lo smalto rosso. “Non abbiamo trovato nessuno vivo in tutto il giorno.”

     Due adolescenti che si amano. Lei è curda, lui è americano. Lei è musulmana, lui è cristiano. Ci sono tutte le premesse per una nuova versione della storia degli amanti di Verona- e in questo caso sarebbero i fidanzatini di Istanbul- con tanto di fine tragica inevitabile. E in effetti uno dei filoni del romanzo di Alan Drew, “Nei giardini d’acqua”, è una storia d’amore contrastato e di morte. Ma ce ne sono degli altri, con implicazioni diverse e di maggior rilievo seppure in qualche modo connesse con la vicenda della quindicenne Irem e del diciassettenne Dylan.
     Nella calca che si spingeva per salire a bordo del traghetto in partenza da Istanbul per Golcük, Sinan perse suo figlio. Sinan ritrova presto il figlio Ismail di nove anni: la voce che un padre ha perso la presa della manina del figlio passa di bocca in bocca- c’è ancora un calore umano, una solidarietà, una simpatia che fa condividere gioie e pene tra la gente di Istanbul, e il bambino viene quasi subito ricondotto dal padre. Anche perché è facilmente individuabile, nel costume da pascià di raso bianco che è costato a Sinan il salario di una settimana: questo è un giorno speciale per Ismail, al ritorno a casa ci sarà la cerimonia della circoncisione che per lui segnerà il passaggio all’età adulta, seguita da una festa a cui saranno invitati- con qualche perplessità- pure i vicini di casa americani.
Ecco: una perdita, una festa che esalta il sesso del maschietto della famiglia, l’insegnante americano Marcus con la moglie e il figlio, sono questi gli elementi della trama che si svilupperanno ampliando il loro significato. Perché la momentanea perdita del piccolo Ismail anticipa il timore di perdere la propria identità di curdi (soprattutto da parte di Sinan); la circoncisione e l’importanza che si dà al figlio maschio prelude all’infelicità di Irem e alla sua ribellione; la presenza degli americani è- per ora- quella di ospiti gentili, ma diventerà più tardi, su più vasta scala, quella di ospiti-occupanti, arrogante e subdola. Si aggiunge poi un altro personaggio, violento e distruttore: il terremoto che nel 1999 causò morti e rovine a Istanbul.

     Il terremoto agisce proprio per quello che è, una forza del destino che colpisce alla cieca: Ismail rimane sepolto per tre giorni sotto le macerie, riparato dal corpo della donna americana che è riuscita anche a fargli sgocciolare dell’acqua in bocca, evitando la disidratazione. Lui sopravvive, lei muore; Sinan è debitore verso l’americano- proprio Sinan che reputa gli americani colpevoli della morte di suo padre, ucciso dai turchi armati dagli americani.
C’è un doppio contrasto di culture nel romanzo di Alan Drew- perché Sinan continua a ricordare con nostalgia il paese d’origine dove spera di ritornare e risente della discriminazione di cui è vittima tra i turchi in quanto curdo, ed è anche ovvio che contrasti l’amore della figlia per il ragazzo americano. Che cosa ci può essere in comune tra una ragazza che porta il velo e viene da un luogo aspro e desertico e un giovane che ha sempre le cuffie sulle orecchie e le braccia tatuate? Ma la questione non è neppure così semplice- quando Irem seguirà Dylan a Istanbul, si accorgerà di essere diversa anche dalle ragazze di città, perché ci sono musulmani e musulmani. Come ci sono americani e americani, come cerca di far capire Marcus a Sinan. Ed è pur vero che quelli che sono arrivati per organizzare una tendopoli e portare soccorsi ai terremotati hanno un secondo fine- scambiare Gesù per viveri e medicine.


    “Nei giardini d’acqua”- titolo che si rifà alla descrizione del Paradiso nel Corano- vuole essere qualcosa di più di una banale storia d’amore. Non riesce del tutto nelle sue ambizioni, ma è ben viva l’accusa rivolta agli Stati Uniti di intrufolarsi con arroganza nelle situazioni difficili degli altri paesi del mondo, ammantandosi di pretesti umanitari ma mirando a ben altro. Il personaggio più riuscito del romanzo è senza dubbio Sinan, dilaniato fra odio e dovere di riconoscenza verso chi considera suo nemico; il più inconsistente è il giovane Dylan- o forse è così privo di spessore proprio perché giovane?

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


Hella Haasse, “L’amico perduto” ed. 2017

                                                     vento del Nord        
         romanzo di formazione
         FRESCO DI LETTURA

Hella Haasse, “L’amico perduto”
Ed. Iperborea, trad. Fulvio Ferrari, pagg. 142, Euro 16,00

   “L’amico perduto”- che tristezza, che rimpianto, già nel titolo di questo breve primo romanzo di successo della scrittrice nederlandese Hella Haasse. Perché, mentre leggiamo, dopo la leggerezza di tono e lo splendore di colori delle pagine iniziali, le ombre si incupiscono- non è soltanto la perdita di un amico che si finirà per piangere. Con l’amico si perderà anche l’aura dorata dell’infanzia, il protagonista narratore smarrirà il suo senso di appartenenza, non riconoscerà più quella che, fino a quel momento, ha considerato la sua terra, la sua patria. Con un senso di vertigine si renderà conto che il luogo in cui è nato non è mai stato suo, e se quel paese non era suo, quale lo era, allora? Quello freddo e lontano da cui era arrivato suo padre e di cui lui sapeva poco o niente? Il vuoto si spalanca davanti a lui. E il deserto della solitudine.
una giovane Hella Haasse
     Hella Haasse, scomparsa nel 2011, è nata a Batavia- suo padre era un funzionario rappresentante del governo olandese nelle colonie. Tranne che per alcuni periodi passati dalla nonna in Olanda, anche Hella Haasse, come il protagonista del romanzo, è cresciuta a Giava, ha frequentato la scuola locale trovando più naturale parlare l’indonesiano  piuttosto che l’olandese. Deve aver conosciuto molto bene i sentimenti di cui parla il suo personaggio, il senso di appartenenza all’unica terra che avesse mai visto negli anni in cui i ricordi si impiantano nel cuore e nella mente e lo sconcerto provato alla scoperta di essere invece un estraneo. E’ la propria identità che viene messa in dubbio, in bilico tra due mondi. Perché lui, il narratore, non può essere come Urug, l’amico di sempre, nato lo stesso giorno in cui è nato lui, compagno di giochi e di esplorazioni? Imparerà in maniera brutale che no, lui non può proprio essere come Urug, che un’amicizia non è per sempre, che solo da bambini la nazionalità è qualcosa senza significato, così come le parole ‘colonizzatore’ e ‘sfruttato’ non hanno senso.

    Ci si mette il destino a far sì che l’amicizia dei due ragazzi diventi più grande. Se la stupidità dei bianchi non avesse causato la tragedia in cui una vita era stata salvata e una era stata persa, Urug non avrebbe certamente studiato, lo stretto contatto si sarebbe allentato. Il percorso dei due è stranamente simile e diverso. Più il narratore vorrebbe affermare la sua appartenenza indigena, più Urug, che ha il diritto a quell’appartenenza, se ne vuole distaccare. Urug arriva a rinnegare la sua famiglia, mentre il protagonista, che non ha più una famiglia da quando la madre se ne è andata e il padre si è risposato, darebbe qualunque cosa per averne una.
    La parabola dell’amicizia tra il ragazzo olandese e Urug è anche quella della storia del rapporto tra le Indie olandesi e la madre patria in questo bel romanzo di una duplice formazione che prende sentieri opposti. Quando il protagonista ormai adulto ritorna dall’Olanda (come si può vivere in un paese così grigio quando negli occhi e nel cuore si ha il verde lussureggiante di Giava?), c’è stata la guerra, l’Indonesia non è più una colonia olandese, gli olandesi sono i precedenti sfruttatori, sono i nemici. Urug è scomparso, travolto dalla Storia. Anche la casa dei ricordi è scomparsa. E l’uomo che il narratore incontra sulla collina, pronto ad ucciderlo, è Urug? Oppure no, è uno dei tanti Urug che da amici si sono trasformati in vendicatori?


     Avvertiamo la sofferenza della scrittrice nelle pagine de “L’amico perduto”. Avvertiamo che non è solo il legame di amicizia che viene spezzato. Sentiamo che c’è nostalgia e senso di colpa, rimpianto per un paradiso perduto.


lunedì 25 dicembre 2017

Allison Pataki, “La solitudine di un’imperatrice” ed. 2017

                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
      biografia romanzata
      FRESCO DI LETTURA

Allison Pataki, “La solitudine di un’imperatrice”
Ed. Superbeat, trad. M. Togliani, pagg. 441, Euro 18,00

   L’imperatrice Elisabetta d’Austria e Ungheria. Sissi, il nomignolo con cui tutti la conoscevano e con cui è entrata nella leggenda, insieme alla sua bellezza, ai capelli lunghi fino ai piedi che, intrecciati e disseminati di brillanti , erano una splendida corona regale. Sissi, andata a sposa a sedici anni all’imperatore Franz Joseph, infelice a trenta, sensibile e irrequieta, sempre in fuga dalla corte di Vienna che la soffocava, malvista dalla suocera-zia che, ritenendola incapace, le aveva sottratto i primi tre figli, trascurata da Franz Joseph che la tradiva. Di Sissi si diceva che amava solo se stessa e la figlia Valerie, l’ultima nata.
    Il libro di Allison Pataki ci racconta la vita di Sissi ad iniziare dal 1868. Sissi è nel castello di Gödöllo in Ungheria con la piccola Valerie. Voci maligne sussurrano che Valerie sia figlia del conte Andrássy- impossibile, Valerie è troppo somigliante all’imperatore. Vero è però che Sissi ama Gyula Andrássy,
Gyula Andrassy
il patriota ungherese che l’ha aiutata nell’azione diplomatica per cui l’Ungheria è rimasta a far parte dell’Impero. E l’amore di Sissi per Andrássy include anche il suo amore per l’Ungheria- per lei Gödöllo è l’evasione, la libertà, cavalcare ogni giorno, dire e fare quello che pensa e che vuole. Un telegramma della figlia Gisela la richiama a Vienna. L’erede al trono, l’undicenne Rudolf, sta male, deperisce. Il suo precettore è un mostro di severità e intransigenza.
E Sissi torna a Vienna e, per la prima volta, si impone davanti a suocera e marito. Il precettore sarà sostituito.
    A più di un secolo di distanza è ancora impossibile resistere al fascino dell’imperatrice Sissi.Il libro di Allison Pataki è ricco di avvenimenti, di aneddoti assolutamente veri tratti da fonti storiche accertate, di descrizioni non ingombranti e colorite di abiti, gioielli, ambienti- dalla Hofburg di Vienna a Gödöllo, dall’Inghilterra, dove Sissi era andata per la stagione della caccia alla volpe, all’Irlanda (per cui fu accusata di simpatie per i ribelli indipendentisti), alla splendida villa di Corfù abbandonata quasi subito appena finita (perfino Franz Joseph si adirò, dopo tutto quello che era costata). Ed è ricca anche di personaggi che vivono nelle pagine- gli uomini amati da Sissi, Andrássy, Bay Middleton, Franz Joseph stesso, il cugino pazzo Ludwig di Baviera, ma anche i suoi figli e le dame di corte.

Il racconto affascinante di Allison Pataki (non avvertiamo mai un tono falso) è obiettivo. Il quadro di Sissi, sempre splendida come nel dipinto che era appeso davanti alla scrivania di Franz Joseph, non nasconde le sue debolezze. E’ vero che Sissi era egoista, ossessionata dalla sua bellezza e dalla sua forma fisica (seguiva una dieta maniacale per mantenere quei leggendari 50 cm. di giro vita). E’ vero che non fu una buona madre per Gisela e Rudolf. Quest’ultimo così fragile e somigliante a lei- forse la tragedia dell’omicidio-suicidio di Mayerling non ci sarebbe stata se Sissi fosse stata più presente nella sua vita.
Romy Schneider nella trilogia sulla vita dell'imperatrice
 L’ala cupa della tragedia incombe su tutto il libro, quasi a significare che nessuno è risparmiato dalle sofferenze e dalla morte. Le paginette in cui seguiamo i pensieri della mente disturbata dell’uomo che si prepara ad uccidere Sissi dopo un improvviso cambiamento di obiettivo, sono la cronaca di una morte annunciata. Lungo l’intero romanzo non ci viene permesso di dimenticare che, al di là degli splendori, una sorte tragica è in attesa di Sissi, dopo che il lutto è entrato negli appartamenti della Hofburg con la morte di Ludwig, dei genitori di Sissi e delle sue sorelle, dell’amato Andrássy e di Rudolf. L’imperatore le sopravvive di diciotto anni. Vivrà un’altra tragedia, quest’uomo che aveva per motto ‘Io non cambio’. Vedrà la fine del grandioso impero austro-ungarico per cui aveva vissuto e sacrificato la sua vita privata.



    

sabato 23 dicembre 2017

Gabriella Genisi, “Dopo tanta nebbia” ed. 2017

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia
    cento sfumature di giallo
     FRESCO DI LETTURA

Gabriella Genisi, “Dopo tanta nebbia”
Ed. Sonzogno, pagg. 201, Euro 14,00

     Trasferirsi da Bari a Padova deve essere certamente un trauma. Che Padova non era cosa per me c’era voluto poco a capirlo. Si apre con queste parole il nuovo romanzo di indagine di Gabriella Genisi, scrittrice barese che vive tra Bari e Parigi. E’ il commissario Lolita Lobosco, protagonista dei suoi libri, a parlare, appena trasferita nella città del Santo con la nomina di questore. Precisiamo subito- Lolita (che ha fatto il liceo classico) inorridisce a sentirsi chiamare ‘questora’. Oppure ‘commissaria’. Neppure a me piace, anche se ho fatto il liceo scientifico, quindi per me sarà ‘il questore Lolita Lobosco’. Che peraltro non conoscevo ancora e ho radunato un poco di informazioni su di lei in queste pagine (Gabriella Genisi è molto brava nel lasciare cadere qualche cenno, non troppi per non stancare chi avesse già letto i libri precedenti della serie, abbastanza per far capire la personalità del questore incuriosendo gli altri). Lolita è sulla quarantina, bella (ma non lo sono tutte, le donne pugliesi?), è stata sposata, ha un amore finito alle spalle (Giovannimio la tradiva, lei ne è ancora innamorata), ora è single, si è abituata ad esserlo- quando ci si dedica pienamente al lavoro è difficile conciliarlo con una vita tradizionale di coppia- e tuttavia i suoi sogni nel cassetto sono alcuni capi di biancheria sexy, di certo non da indossare sotto una della minigonne di jeans che ha nell’armadio (una dozzina). E’ brusca, ha una scorza dura di protezione, ha intuito, è in gamba- non per nulla è arrivata a Padova come questore.

   E però le manca Bari, le manca il mare, le manca il cibo di Bari, le manca la sua squadra. A questo c’è rimedio. Il suo vice, Giancarlo Caruso, la informa che è possibile far trasferire i suoi due più stretti collaboratori a Padova. Ecco, le cose ora vanno meglio. Per fortuna, perché la città del Santo non è poi tanto santa. Oltre allo scandalo dei festini a luci rosse in canonica, Lolita viene a sapere che un ragazzo è scomparso cinque mesi prima- è il nonno di Christian, uno stimato e anziano dottore, che, affranto, la informa, cercando il suo aiuto. Perché la polizia non ha dato importanza alla scomparsa? Perché, con leggerezza, ha archiviato il caso pensando che Christian si fosse allontanato volontariamente? Il nonno dice che suo nipote non lo avrebbe mai fatto, anche se viveva in una situazione di disagio- sua madre era africana, lui era arrivato a Padova dopo la morte dei genitori in un incidente ed era subito diventato un bersaglio di scherzi crudeli per il colore della sua pelle. Frequentava una scuola privata, molto elitaria, gestita dalle suore.

    Con un’inquietudine sempre maggiore proseguiamo la lettura e pensiamo al ragazzo veneto in gita scolastica a Milano per visitare l’Expo e morto cadendo dalla finestra dell’albergo. Non se ne è più saputo nulla. Omertà criminosa dei compagni e dei genitori di questi. Uno scherzo finito male? Qualcosa di peggio? Droga e alcol fatti ingerire contro la sua volontà? La scrittrice stessa accenna a questo caso quando- contro il parere di tutti, vicequestore compreso, scontrandosi letteralmente con la madre superiora che difende come un mastino la roccaforte della sua scuola- il questore Lolita Lobosco ispeziona le classi con un’unità cinofila. Quello che scoprirà è doloroso e allarmante, l’indizio che c’è del marcio nella nostra società, anche dove non ci se lo aspetta.

   E poi, Dopo tanta/ nebbia/ a una/ a una/ si svelano/ le stelle (Ungaretti), Lolita riesce a tornare a Bari, preferisce così, preferisce tornare ad essere commissario. E a Bari è appena stata trovata morta, uccisa con furia, un’arpista bionda, molto bella. Come in un film di Hitchkock, un giovane immobilizzato sulla sedia a rotelle forse ha visto dalla sua finestra quello che è accaduto nella stanza della casa di fronte alla sua. Ma non ha più parlato da quando l’incidente lo ha privato dell’uso delle gambe. Ancora una volta la sensibilità e l’intuito aiutano Lolita a risolvere il caso.
    “Dopo tanta nebbia” mi ha fatto pensare che la nostra letteratura ‘gialla’ ha ormai un bel numero di scrittrici- Gabriella Genisi che ho appena scoperto, Rosa Teruzzi, Cristina Rava, Alessia Gazzola, Mariolina Venezia. Hanno una discrezione, un garbo, un’eleganza tutta loro, le nostre scrittrici ‘gialle’. Aggiungono una spruzzata di sentimento e di colore rosa nelle loro storie- rilassanti e piacevolissime da leggere. Da gustare pure, se ci mettiamo ai fornelli con le ricette del commissario Lolì in appendice al libro.



   

mercoledì 20 dicembre 2017

Roberto Bertinetti, “L’isola delle donne” ed. 2017

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
           biografia
         FRESCO DI LETTURA

Roberto Bertinetti, “L’isola delle donne”
Ed. Bompiani, pagg. 352, Euro 13,60

      Una visione fugace delle sabbie bianche e mare con delfini della Isla de las Mujeres al largo del Messico, leggendo il titolo del libro di Roberto Bertinetti, professore di inglese presso l’Università di Trieste, sostituita subito da quella delle bianche scogliere di un’altra isola in un altro mare che ben si merita il nome di isola delle donne- dopo aver letto il libro viene da domandarsi che cosa nell’aria della Gran Bretagna (o, più realisticamente, nel suo tessuto sociale) abbia fatto sì che un numero così alto di donne straordinarie nei campi più diversi si siano imposte all’attenzione imprimendo la loro immagine su un’intera epoca. Perché abbiamo cercato invano un fenomeno simile in altri paesi.
     L’idea del professor Bertinetti, di tracciare dei ritratti di nove famose donne britanniche, è geniale. Le ha scelte appartenenti a tempi diversi in modo da disegnare, insieme al loro, anche il ritratto degli anni in cui sono vissute. E sono anche nove donne che si muovono in ambiti differenti- la lettura procede veloce, ci appassiona mentre vita privata e pubblica si intrecciano. La sfilata non poteva non iniziare dalla regina Elisabetta I (da chi, se no?), esempio e modello per tutte, la regina vergine dal polso di ferro e dai molti amanti. Dopo di lei, un’altra grande regina che diventò anche Imperatrice d’India nel 1876,Vittoria. Due personaggi di cui sappiamo tutto o quasi, ormai, e infatti i primi due capitoli a loro riservati hanno un tono più scolastico, paiono quasi il compito di un alunno diligente.
Con Margaret Thatcher il libro diventa più vivace, le tinte con cui  la Lady di Ferro è dipinta sono forti- l’influenza dell’ambiente calvinista in cui è cresciuta, la sua durezza sia in ambito famigliare sia nella politica, il braccio di ferro (a quanto pare è il metallo che più si addice per sottolineare la tempra di queste donne) con i minatori in sciopero, la guerra delle Falklands, la crisi e la disoccupazione. Implacabile Margaret. 
Lady Diana, al confronto, sembra una bambina indifesa. E, a distanza di anni ormai, ci sembra veramente poco più che una bambina in quelle foto che fecero il giro del mondo, lei fiduciosa e radiosa che credeva di sposare il suo principe azzurro, lui che, alla domanda se fossero innamorati, rispondeva con un cinismo raggelante per un neo-fidanzato (anche se la domanda era stupida).
Eppure Diana, travolta dal tradimento del marito, riuscì a crescere, a tirare fuori una volontà insospettata per non lasciarsi annullare, diventando una paladina delle vittime, dei poveri, una sorta di Madre Teresa versione principessa. Se cerchiamo un tratto in comune fra queste donne, forse è proprio la forza di volontà. Lo ritroviamo nelle scrittrici che seguono, Jane Austen, Virginia Woolf, Agatha Christie- ognuna di loro rivoluzionaria per il suo tempo, ognuna di loro che ha lasciato un’impronta, ognuna di loro un punto di riferimento.
    E’ singolare che un paese così tradizionalista e conservatore, che ha conosciuto solo una guerra civile nel ‘600 e un unico caso di un re, Charles I, che fu decapitato per poi mantenere una salda monarchia fino ai giorni nostri, abbia invece, a più riprese, impresso un’accelerata ai tempi, abbia compiuto delle mini-rivoluzioni nei comportamenti, nella moda, nella musica.
Mary Quant
Le due ultime figure di questa galleria di personaggi sono le stiliste Mary Quant e Vivienne Westwood. Certo, né l’una né l’altra proponevano abiti della classe della nostra Biki (che ha vestito la Callas) o di Mila Schön. Volevano altro. Erano come un grido di liberazione. Le gonne sempre più corte di Mary Quant (anche lei sostenuta da una volontà ferrea), i suoi vestiti e accessori dal prezzo accessibile a tutte, e, d’altro canto, le stravaganze pazze, irridenti, oscene, lo stile che avrebbe preso il nome di ‘punk’, che ben si accordava alla musica dei Sex Pistols e che rese famosa Vivienne Westwood, non erano e non volevano essere grande moda. L’opposto. E misero il loro marchio sugli anni ‘60 e ‘70, anni fervidi di novità.
Vivienne Westwood

    Ben documentato, agile e svelto, ricco di Storia, storie ed aneddoti, questo è un libro mai noioso che si legge con grande piacere. Forse perché ci fa rivivere il passato in maniera originale e ce lo fa sentire presente.


martedì 19 dicembre 2017

Margaret Atwood, “Il racconto dell’ancella” ed. 2017

                                                        Voci da mondi diversi. Canada
               distopia

Margaret Atwood, “Il racconto dell’ancella”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. C. Pennati, pagg. 398, Euro 14,28

        Avevo letto “Il racconto dell’ancella” più di vent’anni fa, quando ancora non era uscita la traduzione in italiano. Allora non si parlava di donne velate, accompagnate e scortate in ogni loro uscita, le leggi della sharia non erano note come lo sono diventate in seguito, con la sempre maggiore immigrazione dai paesi arabi. E rileggendo oggi questo caposaldo della letteratura distopica vi cogliamo il tono di una preveggenza profetica.
    La protagonista è Offred. Avvertiamo qualcosa di strano nel nome. Ci rendiamo conto, con sottile disagio, che tutte le donne hanno nomi che iniziano con ‘Of’ e allora capiamo che tutte hanno perso il loro vero nome acquistando quello dell’uomo- del Governatore- nella cui casa vivono. Quell’ ‘Of’ indica possesso: Offred è proprietà di Fred, così come Ofglen lo è di Glen. Possesso finalizzato ad un’unica cosa. Offred non è un oggetto di piacere (per quello, in questo paese che si chiama Gilead, c’è Jezebel, un bordello in cui finiscono le donne per punizione, quelle che non vengono mandate nelle Colonie a smaltire i rifiuti tossici) ma un recipiente per il seme del Governatore- il suo compito è procreare (le vengono concesse tre possibilità, non è neppure ammesso domandarsi se, in caso di insuccesso, possa essere l’uomo ad essere sterile).
Offred  (Elizabeth Moss) nella nuova versione per la serie di filmati
    Margaret Atwood è grandiosa nel costruire lo scenario- le Ancelle sono vestite di rosso (e noi pensiamo alla “Lettera scarlatta”) con copricapo bianchi, alati come quelli delle suore di una volta per impedire loro di girare lo sguardo, altre donne, le Marte, hanno un abito verde (il loro nome dice già tutto sui loro compiti), le Mogli sono in blu. Le Ancelle devono sempre uscire in due, parlano tra di loro usando formule fisse, spiandosi di sottecchi, cercando di captare sfumature nella voce l’una dell’altra per capire se le parole nascondano una trappola. E poi ci sono gli Occhi al posto di un Grande Fratello, ci sono cerimonie pubbliche di punizioni esemplari per impiccagione, quelle di accoppiamento rituale a tre in cui la Moglie ha un ruolo vicario (sarà lei la madre, in caso che il risultato di quell’atto freddo e sbrigativo al di sotto delle vesti ingombranti sia un attesissimo bambino), quelle dei parti.
Natasha Richardson, Offred nel film del 1990
Che cosa sia successo in passato per arrivare alla situazione attuale di Gilead lo veniamo a sapere in flash di ricordi di Offred- aveva un compagno, aveva una bambina, sua madre era una femminista: quando era iniziato tutto, quando lei e Luke avevano deciso che dovevano tentare la fuga oltreconfine? La versione ufficiale dipinge un quadro di decadenza e lassismo morale nell’epoca precedente la salvezza offerta da Gilead- appuntamenti ciechi, aborti, libertà sessuale, calo delle nascite. Quello che le Zie non si stancano di ripetere nell’indottrinamento che fanno alle Ancelle è che questa era una rivoluzione necessaria, che ora la donna è più tutelata e sicura, che è meglio per tutti. E però tacciono- sono notizie che passano bisbigliate di bocca in bocca- sui casi di suicidio tra le Ancelle. Ogni tanto qualcuna di loro scompare- è morta? è stata punita e mandata nelle colonie? è fuggita come Moira che poi Offred ritrova a Jezebel?
Offred ha trovato inciso sul legno del pavimento della sua stanza una scritta lasciata da chi l’ha preceduta. E’ in latino, quando se la fa tradurre dal Governatore, quelle parole significano, non permettere che i bastardi ti schiaccino. Cioè non dimenticare che esiste la libertà di scegliere, che il male non si sradica con la coercizione al ‘bene’, che esiste l’amore, che un bambino ha il diritto di restare con la donna che lo ha messo al mondo.

     Che fine fa Offred che ha osato trasgredire le leggi? Un epilogo ci dice che la storia che abbiamo letto è contenuta in un manoscritto trovato per caso (come “La lettera scarlatta” di Hawthorne) e che gli studiosi hanno fatto ricerche per dare un nome al Governatore Fred e che è impossibile risalire all’Ancella che ha scritto questa drammatica storia. E’ il 2195.

     Un grande libro, splendidamente immaginifico e ricco nell’invenzione del linguaggio di un nuovo mondo. Da leggere assolutamente.


lunedì 18 dicembre 2017

Maaza Mengiste, "Lo sguardo del leone" ed. 2010

                                                       Diaspora africana
       la Storia nel romanzo
       il libro ritrovato


Maaza Mengiste, Lo sguardo del leone
Ed. Neri Pozza, trad. M. Ortelio, pagg. 366, Euro 17,00

    12 settembre 1974, Etiopia. Il Re dei Re, Hailé Selassié, viene deposto con un colpo di stato. Una giunta militare marxista, il Derg, prende il potere. Qualunque dissenso è soffocato in un bagno di sangue. Le vicende di quegli anni di dittatura sono viste attraverso gli occhi di Hailu, un medico scrupoloso che si è laureato in Inghilterra, e dei suoi due figli, l’obbediente Yonas e il ribelle Dawit.


INTERVISTA A MAAAZA MENGISTE, autrice de Lo sguardo del leone

    E’ sempre stato un paese fiero, l’Etiopia. Cinque anni di occupazione italiana, sotto il fascismo, non l’hanno piegato. Ha combattuto contro il nemico usurpatore con la furia del leone rappresentato sulla sua bandiera di allora, l’altero leone berbero simbolo del paese, trasformato in animale domestico dal Negus Hailé Selassié, allevato in cattività pure nello zoo. E, come spesso accade, è forse meglio il titolo originale per il romanzo di Maaza Mengiste, Beneath the Lion’s Gaze, Sotto lo sguardo del leone, che dà l’idea della Storia che scorre implacabile sotto lo sguardo indifferente degli immobili leoni di bronzo davanti ai cancelli della residenza dell’imperatore, sotto quello del leone di granito alla base dell’obelisco con i bassorilievi che ricordano la strage compiuta dagli italiani nel 1937, dopo l’attentato al generale Graziani. Ora poi, nel 1974 del colpo di stato militare, i leoni vedono anche la violenza sugli studenti, i cadaveri straziati dalle torture e gettati in strada, con la proibizione che vengano raccolti per la sepoltura.

     Sono giorni terribili, di sangue e paura. I protagonisti del romanzo di Maaza Mengiste appartengono ad una famiglia dell’élite culturale: il padre, Hailu, si è laureato in medicina in Inghilterra e, al ritorno in Etiopia, lo stesso imperatore gli ha consegnato in regalo un orologio dicendogli: “Non sprecare neppure un minuto in stupide chimere. Fa che l’Etiopia sia fiera di te”; il figlio maggiore, Yonas, è professore universitario; il secondo, Dawit è ancora uno studente. Loro tre rappresentano le tendenze dell’intero paese: la vecchia generazione, a cui appartiene Hailu, legata alla fedeltà al vecchio sovrano senza volerne ammettere le mancanze; dei due giovani, Yonas è pavido e non osa intervenire, mentre Dawit si impegna nella ribellione e nell’opposizione al regime militare.
C’è poi un altro personaggio, di diversa estrazione sociale- è Mickey, l’amico d’infanzia di Dawit. Orfano di padre, Mickey era stato per così dire ‘adottato’ da Hailu, difeso da Dawit quando i compagni di scuola lo schernivano per le scarpe scalcagnate e gli abiti logori. La parabola di Mickey è esemplare: Mickey si è arruolato, da sempre e ovunque l’esercito ha offerto una soluzione ai più poveri. Il comitato militare lo ha inviato nella regione del Wello colpita dalla carestia dove la gente muore di fame. A questo punto Mickey è ancora capace di soffrire con chi soffre, di lasciarsi sconvolgere dalle pance gonfie dei bambini e dagli arti scheletrici degli adulti. E tuttavia Mickey non ha il coraggio di rifiutare quando riceve l’ordine di uccidere tutti coloro che sono stati arrestati perché facenti parte del vecchio governo. Quando, dopo l’eccidio, si presenta a casa dell’amico Dawit per confessarsi, per ricevere un sostegno, Dawit ha orrore di lui e lo respinge: la loro amicizia è finita. Dawit non si piegherà mai a chiedere aiuto a Mickey, neppure quando suo padre Hailu viene arrestato, e Mickey continuerà la sua ascesa a fianco dei militari assassini.

    C’è sempre il rischio di un eccesso di schematismo quando uno scrittore attribuisce ai suoi personaggi determinati comportamenti, buoni o cattivi, senza mescolare le tinte. E tuttavia Maaza Mengiste è abbastanza abile da rimescolare le carte alla fine, cosicché la durezza della vita impone delle svolte a tutti.  Intanto il lettore è venuto a conoscenza di una Storia che non si trova sui manuali, di una dittatura spietata che verrà abbattuta solo nel 1991 dopo aver fatto 200.000 vittime. Nel libro della Mengiste  quelle che più toccano il cuore sono la ragazza che viene portata in ospedale perché Hailu la faccia vivere ad ogni costo- è stata torturata da un rinomato ‘macellaio’- e il bambino Berhane, prima arrestato perché testimone di qualcosa che lui non ha capito affatto e poi ucciso perché ha rallentato il passo per tirarsi su i calzoncini che gli cadono sulle gambette magre. Si sa, è facile suscitare la commozione con i deboli e gli innocenti che soffrono, eppure è vero che sono proprio loro a pagare per degli eventi che sono più grandi di loro, oppure, come è il caso di Hailu, imprigionato e torturato, scontano la loro bontà e umanità. Perché, come dice la nuora di Hailu, quello che importa non è vivere ad ogni costo, ma ‘come si vive’.
    Abbiamo incontrato Maaza Mengiste per parlare con lei del suo libro che contiene una storia che ci tocca da vicino.


 Ho osservato che il libro è dedicato ai suoi nonni e ai suoi zii, due dei quali hanno i nomi di due personaggi del romanzo, Mekonnen e Solomon: c’è qualcosa della storia della sua famiglia nel romanzo?
      La storia della mia famiglia è solo in parte presente nel libro. Quello che c’è è l’esperienza della paura e l’oppressione che la gente ha sperimentato. Mio nonno fu arrestato per un breve periodo e poi rilasciato, per fortuna. I miei zii non erano come i personaggi del libro che hanno i loro nomi, ma volevo, per l’appunto, dare i loro nomi a dei personaggi perché era un poco come farli rivivere. Erano più vecchi del Mekonnen e del Solomon del romanzo, erano sulla trentina e sono morti entrambi durante le proteste contro il Derg. Io non li ho potuti conoscere ma ho fatto tante domande su di loro: sono stati due tra le tante vittime della rivoluzione.

Il libro verte sulla ribellione degli studenti e dei giovani: sembra che dapprima siano contro Hailé Selassié e poi contro il Derg, il governo militare. Furono delusi dal cambio di governo? Si aspettavano qualcosa di diverso?
      Sì, si aspettavano qualcosa di diverso. Pensavano che, una volta che non ci fosse più Hailé Selassié, avrebbero avuto un governo di civili, che ci sarebbero state elezioni democratiche, che i militari al governo si sarebbero ritirati. Non avevano idea che il governo sarebbe diventato così violento e oppressivo. Erano giovani e idealisti.


Si accenna spesso alla madre di Sara che uccise un ufficiale italiano: può dirci di più di questo fatto? È un fatto realmente accaduto?
     La storia della madre di Sara non è la storia di qualcuno che conosco, ma durante l’occupazione italiana era frequente che gli ufficiali dell’esercito, o anche i civili, prendessero delle donne etiopi e le tenessero come serve e amanti, contro la volontà delle donne, naturalmente. Gli italiani venivano in Etiopia come civilizzatori e si comportavano come se l’Etiopia appartenesse a loro, come se sia l’Etiopia sia le sue donne fossero loro possesso. Nacquero molti bambini da quelle unioni e nel romanzo c’è un cenno alla possibilità che Sara fosse uno di quei bambini di sangue misto. Il problema dell’identità era complicato- penso che siano molti gli etiopi che hanno sangue italiano. Comunque l’episodio della madre di Sara è vero. Io mi domandavo che tipo di resistenza potesse fare una donna in quella situazione. Perché parte del libro è un’esplorazione di quali forme la resistenza può prendere. La madre di Sara aveva solo 14 anni quando le accadde di essere ‘presa’ da un italiano e quando qualcuno ti opprime fisicamente la reazione è per forza una reazione fisica. All’origine all’episodio della madre di Sara era dedicato un capitolo intero, poi il mio editor ha voluto che lo tagliassi perché pensava che occupasse troppo spazio nella vicenda.

Non è facile per noi, lettori italiani, accettare la verità: che eravamo il nemico in Etiopia, eravamo gli usurpatori del paese. E’ stato un periodo molto brutto per la gente, quello in cui gli italiani hanno conquistato e occupato il vostro paese?

     E’ una storia complicata, un rapporto complicato. Nessuno vuole che altri occupino la propria terra, prendano il tuo paese e le tue donne. Però ci furono molti italiani che, anche finita  l’occupazione, rimasero in Etiopia, ed erano accettati del tutto, non c’era animosità nei loro confronti. Individualmente erano gentili, ma è l’idea di colonizzare un altro paese che è violenta. C’erano però quelli che vedevano gli etiopi come esseri umani e non semplicemente come dei barbari. Gli etiopi non dimenticheranno mai Graziani e i gas velenosi- sono cose che fanno parte della nostra storia. Quello che ci rende aperti verso gli italiani è che noi non abbiamo mai rinunciato a lottare, noi ci vediamo come vincitori e quindi possiamo anche essere generosi nei confronti degli italiani.

Il dottor Hailu  e sua moglie vengono rappresentati come persone molto religiose, hanno una stanza della preghiera in casa: la religione cristiana è molto diffusa in Etiopia?
       Sì, molto. E’ la religione copto-cristiana. Una cosa di cui non si parla molto è che c’è anche una numerosa minoranza di musulmani. C’è sempre lotta tra gli appartenenti alle due religioni, la classe governante è cristiana- nei primi giorni della protesta c’era anche una richiesta di pari diritti. La famiglia del dottor Hailu è molto simile a quella di mio nonno: anche in casa dei nonni c’era una stanza della preghiera come la loro.

I quattro personaggi maschili principali- Hailu, Yonas, Dawit e Mickey- rappresentano gradi diversi di accettazione o di resistenza nei confronti del governo militare. Mickey finisce con il diventare un uomo del governo anche se, fondamentalmente, è un uomo buono. E’ la debolezza la sua colpa? è la vigliaccheria che spesso spinge gli uomini a commettere il male?
      Mickey è un uomo fondamentalmente debole, arrabbiato per la posizione che occupa nella società. Vuole avanzare, vuole avere una promozione e afferra l’opportunità. Volevo vedere che cosa succede quando una persona non è cattiva, ma viene spinta in una certa direzione e non ha la forza di resistere.


Mi è sembrato però che ci fosse un punto di svolta nella vita di Mickey, un momento in cui si decide il suo futuro e la sua scelta. E’ quando, dopo il primo eccidio, va a casa dell’amico Dawit piangendo e Dawit lo respinge. Se Dawit avesse avuto più comprensione per lui, forse Mickey non avrebbe proseguito la sua carriera di assassino per il Derg.
     E’ vero, perché Mickey non è malvagio, ci si dimentica che Mickey si rifiuta di uccidere l’imperatore. Era rassegnato ad essere ucciso lui stesso per disobbedire agli ordini, si era messo in ginocchio a pregare: c’è una linea che non è disposto ad oltrepassare. E’ quello che è successo in Etiopia: la gente era divisa in due parti, non c’era un’area grigia ed è stato quello che ha spaccato le famiglie e separato gli amici.

Vive ancora in Etiopia? Come è cambiato il paese dal tempo in cui è ambientato il romanzo?
      Vivo negli Stati Uniti, ora in Etiopia c’è un nuovo governo, non c’è spargimento di sangue ma, non vivendo là, non posso parlare per esperienza diretta. Le ultime elezioni sono state nel 2005 ed ora ci saranno nuovamente: suggerirei a tutte le nazioni di osservare attentamente quello che succederà. Gli Stati Uniti vedono nell’Etiopia un alleato cristiano, un’isola in mezzo a paesi musulmani. Ma è necessario che si controlli che vengano rispettati i diritti umani e la libertà di stampa. La mia famiglia vive ancora in Etiopia: quando vado a trovarli, mi sento a casa.

Il romanzo è scritto in inglese- una scelta ovvia, visto che ora Lei vive negli Stati Uniti. Ma che lingua si parla in Etiopia?
      Si parlano molte lingue in Etiopia, la principale è l’amarico, una lingua semitica che ha un alfabeto simile a quello ebraico. La questione della lingua è diventata una questione politica: ogni gruppo etnico vuole che venga riconosciuta la sua lingua, domanda perché si debba scegliere l’amarico, senza comprendere che la lingua unica è un collante. A scuola adesso si studia l’inglese.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos

bandiera etiope dal 1949 al 1975