venerdì 31 marzo 2023

Ahmet Ümit, “Il nostro amore è un vecchio romanzo” ed. 2023

                                                      Voci da mondi diversi. Turchia

   cento sfumature di giallo

Ahmet Ümit, “Il nostro amore è un vecchio romanzo”

Ed. Scritturapura, trad. Nicola Verderame, pagg. 228, Euro 18,00

 

      Una lettura per chi è curioso, per chi ama sapere di altri paesi attraverso libri piacevoli. Arrivano in Italia i ‘gialli’ dello scrittore turco Ahmet Ümit ambientati a Istanbul. Sembrano un poco antiquati, un poco fuori moda, hanno un passo tranquillo, non contengono scene orripilanti, non fanno venire brividi di paura. Eppure ci dicono molto, in maniera sottile ed elegante. Molto della società, molto soprattutto della condizione femminile, in questo giallo dal bel titolo, “Il nostro amore è un vecchio romanzo”.

    In realtà ci sono tre romanzi brevi raccolti sotto questo titolo che è poi quello del primo lungo racconto che leggiamo.

    In una stanza dell’albergo Pera Palas viene trovato morto Edip Bey. È seminudo- chiaramente doveva aver avuto un incontro con una donna. E subito viene fuori che sì, è stata vista una donna uscire dalla stanza 411. Era Agatha Christie. Agatha Christie? Ma se è morta…Eppure era una donna che le assomigliava.

Pera Palas

Il morto aveva di certo dei grossi problemi. Sposato due volte, si rivolgeva ad un’agenzia che gli procurava incontri particolari. Per eccitarsi Edip Bey aveva bisogno di una donna che rivestisse i panni di un’eroina della letteratura- Lara del dottor Zivago, Madame Bovary, Anna Karenina, Dulcinea del Don Chisciotte… Non aveva mai chiesto, però, di incontrare una scrittrice. Chi era la misteriosa presunta Agatha Christie? Durante le indagini, svolte dal commissario Nevzat, veniamo a sapere di donne umiliate, donne che si devono adattare, donne che si vendicano. Che diventano assassine.

      Nel secondo lungo racconto, “La ragazza della tagliacuci”, é una ragazza giovane che viene trovata morta dentro la manifattura dove lavora. Il primo ad essere sospettato è il fratello: ha l’aria imbambolata (drogato?), c’è un coltello sporco di sangue vicino a lui. Eppure i suoi amici sostengono che è impossibile, Gülabi amava molto la sorella e mai le avrebbe fatto del male. Che tipo era Gülseren, la ragazza assassinata? Una giovane timorosa e schiva oppure era una ragazza facile? Le voci che circolano sono molto diverse. La storia di Gülseren è la storia non nuova ma sempre diversa della ragazza che si è fatta delle illusioni, di un ambiente sociale ancora prigioniero di una vecchia mentalità, di colpe che non sono tali ma per cui è lei a pagare. Con la sua vita.

    Anche nell’ultimo breve romanzo, “Cos’è successo a Sergej Nikolajevich Jerkovski?”, la vittima è una donna, uccisa nella sua bella casa. Il delitto avviene in contemporanea con la sparizione di un illustre scienziato, un ospite russo che parlava benissimo anche il turco. Le due mini-trame sono naturalmente collegate e ci svelano due retroscena diversi. Lo scienziato in cui tutti gli ammalati di cancro riponevano le loro speranze era letteralmente assediato da operatori di case farmaceutiche e da persone che lo supplicavano per essere curate da lui. La donna, invece, era una malmaritata. C’era un legame tra lei e il russo?


   Due personaggi ci commuovono in questa ultima vicenda perché sono le vere vittime- due bambine bionde che perfino si assomigliano. Una è la figlia della donna morta a cui la mamma aveva raccomandato di restare nella stanza al piano di sopra. Il commissario Nevzat la trova rannicchiata che chiede angosciata se suo papà e sua mamma hanno smesso di litigare. Non ha capito che il rumore che ha sentito era uno sparo o non vuole neppure capirlo? L’altra bimba è la figlia di un mafioso che viene accusato di aver rapito il dottore russo. Lui? Lui che amava la figlia più di ogni altra cosa al mondo e che aveva bisogno che il dottore vivesse per far vivere sua figlia ammalata di leucemia?

Ancora una volta è la situazione femminile ad essere in primo piano, anche qui c’è una storia di amori, di inganni, di tradimenti, di gelosie, di pregiudizi, di stereotipi femminili.

     Il commissario e il suo vice sono due protagonisti molto gradevoli e meritano due parole. Sono l’uno l’opposto dell’altro, come spesso capita nei personaggi con questo ruolo nei gialli. Tanto è pacato e ponderato Nevzat, tanto irruente il suo vice che viene spesso definito ‘testa calda’ e deve essere tenuto a freno. Non mancano nel libro i tocchi di colore locale in una Istanbul assediata dal traffico, così come il profumo di piatti tipici. E sì, sentivamo la mancanza dei ‘gialli’ turchi, dell’aria di Istanbul, dopo l’ormai lungo silenzio di Esmahan Aykol. 

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martedì 28 marzo 2023

Bonnie Garmus, “Lezioni di chimica” ed. 2023

                                                Voci da mondi diversi. Canada

 


Bonnie Garmus, “Lezioni di chimica”

Ed. Rizzoli, trad. Anna Rusconi, pagg. 450, Euro 19,00

   È il 1962, a Commons, in California, “quando le donne giravano in chemisier, frequentavano circoli di giardinaggio e trasportavano allegramente legioni di bambini in automobili prive di cinture di sicurezza…”

Elizabeth Zott, madre trentenne e single, si alza ogni mattina prima dell’alba ed è sicura di solo una cosa. Per lei la vita è finita.

Chimica di professione, adesso conduce giornalmente un programma di cucina per la televisione, Cena alle sei. Non le si addice, ne è disgustata, ma ha una bambina da mantenere.

   Torniamo indietro a dieci anni prima quando Elizabeth lavorava all’Hastings Research Institute. Allora questa giovane donna brillante ed estremamente competente nel suo lavoro doveva combattere contro un ambiente maschilista che relegava la donna a ruoli subordinati, sottovalutava il suo lavoro che era pagato meno di quello di un collega uomo, che pensava che il posto della donna fosse in casa con una nidiata di marmocchi, che la donna dovesse sentirsi onorata di acquisire non solo il cognome ma anche il nome del marito, di essere un’ombra, un’appendice del coniuge.

    Elizabeth non accetta niente di tutto questo. Non usa la sua bellezza come esca, anzi, sembra che ne sia del tutto inconsapevole. È anticonformista, si ribella a tutte le leggi non scritte dei rapporti convenzionali uomo-donna. Tanto per cominciare non vuole sposarsi e neppure avere figli.


Va da sé che, quando incontra Calvin Evans, il genio della chimica candidato al premio Nobel, un altro spirito libero e anticonvenzionale, scatta l’amore tra i due (peraltro dopo un primo e un secondo incontro che sono tra le tante scene buffe del romanzo, volutamente calcate e volutamente buffe, quasi a smitizzare il famoso colpo di fulmine).

     È difficile che una felicità così perfetta possa durare. Ci penserà il destino- un cane di nome Seiemezza, un guinzaglio, un automobile- a metter la parola fine. Ed Elizabeth, distrutta dal dolore, non riesce neppure ad accogliere con gioia la bimba che è l’ultimo dono di Calvin.


    Il filone di normalità del romanzo- la madre single che viene licenziata e presa di mira, che si deve adattare ad un lavoro che non le piace- è intrecciato a quello che non è affatto normale e che viene, anzi, esagerato per rendere più efficace il messaggio che la scrittrice vuole comunicarci. Perché Elizabeth accetta il compromesso di apparire come cuoca in televisione, ma condurrà il programma come vuole lei, lo trasformerà in lezioni di chimica- tutta la nostra esistenza è chimica, il nostro corpo segue delle leggi chimiche, il cibo che ci nutre deve avere un equilibrio chimico per essere salutare. Tra lo sconcerto di chi le ha affidato il programma e l’ira del  produttore televisivo, Elizabeth prosegue imperterrita con le sue divagazioni scientifiche, insegnando che il ‘cloruro di sodio’ è il banalissimo ‘sale’, preparando i piatti più salutari che le famiglie americane abbiano mai messo in tavola. E insieme impartisce una lezione ben più importante a tutte le donne che la seguono- ad avere fiducia in se stesse, a osare, a non sottostare ai desideri e alle volontà repressive degli uomini, a coltivarsi. Il tutto con un mix di pesantezza e umorismo irresistibile.


    Il finale riprende la trama più banale e un poco scontata del tipo romanzo-feuilleton che però serve per sottolineare l’evolversi dei tempi, grazie al coraggio e all’indipendenza intellettuale di donne come Elizabeth Zott.

   Quando si incomincia a leggere “Lezioni di chimica” dobbiamo sospendere l’incredulità. Dobbiamo superare il dubbio che sia possibile per una donna, seppure in America, comportarsi come Elizabeth- nel 1950. Eppure, qualunque esagerazione, anche nel riportare tutto alle formule chimiche, ha uno scopo preciso- serve per forzarci a riflettere sull’inequità della condizione femminile. È come la tecnica del paradosso usata da quel gigante della letteratura che è Jonathan Swift. Non ci si può sottrarre alle immagini che ci prospetta. E non possiamo fare a meno di ammirare Elizabeth, proprio come il suo pubblico di casalinghe frustrate. Ci fa ridere, ci fa piangere, ci fa pensare che sì, noi donne possiamo fare tutto quello a cui aspiriamo.



   

domenica 26 marzo 2023

Ian McEwan, “Lezioni” ed. 2023

                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda



Ian McEwan, “Lezioni”

Ed. Einaudi, trad. Susanna Basso, pagg. 576, Euro 23,00

 

   Non è facile parlare di un libro molto lungo, che copre l’arco di una settantina d’anni, con un protagonista e tanti altri personaggi- tanti da far sì che si potrebbe dire che ci sono almeno altri tre o quattro romanzi dentro “Lezioni”. A volte questi altri romanzi, che contengono le storie di altre vite, si svolgono parallelamente a quello principale, a volte sono presentati come flash-back, abbandonati e poi ripresi. L’impressione finale è che ci sia troppo dentro quest’ultima opera di Ian McEwan. Che ci sia troppo e di tutto, come se l’autore non avesse voluto lasciare niente fuori, non solo gli avvenimenti storici del secolo scorso e di quello attuale (compresa la pandemia), ma anche i sentimenti e i rapporti umani- dall’abuso sessuale all’adulterio, dal matrimonio in cui entrano in gioco disequilibri di forza all’unione gay, da figli dati in adozione (era successo al fratello ‘ritrovato’ dello stesso McEwan) a figli cresciuti da un genitore single. Per non dire delle malattie e delle morti, per Alzheimer, per cancro, per infarto…

    Roland Baines deve il suo nome al contadino francese che aveva salvato suo padre ferito durante la seconda guerra mondiale e il romanzo inizia nel 1986, quando un mattino si sveglia per scoprire che la moglie se ne è andata, lasciandolo da solo con un bambino di sette mesi. Questo è il capovolgimento totale della tipica situazione in cui è l’uomo a scomparire dalla scena. Alissa, la moglie, ha lasciato un biglietto- ama sia lui, Roland, sia il bambino Lawrence, ma sta vivendo una vita non sua, lei deve seguire le sue ambizioni per non finire come sua madre. La storia di Alissa, figlia di un’inglese e di un tedesco che aveva marginalmente preso parte al movimento della Rosa Bianca, potrebbe essere uno di quegli altri romanzi a sé, così come la storia di sua madre, anche lei aspirante scrittrice, che era arrivata in Germania nel 1946 per intervistare qualche superstite della Rosa Bianca.


   A 11 anni Roland aveva lasciato Tripoli, dove era di stanza suo padre, per frequentare la scuola in un collegio in Inghilterra. E qui la sua vita si era bloccata- a undici anni era stato molestato dalla fascinosa insegnante di musica. Era un bambino. Non aveva capito. Aveva capito abbastanza da non incontrarla più. Poi- c’era stata l’esplosione di Chernobyl, la paura di morire all’improvviso, senza ‘averlo fatto’, come si diceva nel dormitorio- il quattordicenne Roland era andato d’impeto a casa di lei e tutto era iniziato. Era diventato il suo schiavo del sesso, lasciando andare a rotoli la scuola. Lei lo teneva letteralmente prigioniero, in quell’ultima vacanza, dopo avergli sequestrato i vestiti. Voleva sposarlo in Scozia. E lui era fuggito.


     Non c’è niente di nuovo nella vicenda del ragazzino sedotto da una donna più grande che diventa responsabile del blocco emotivo della sua vittima, ne abbiamo letto in molti altri romanzi che non starò a citare. La novità è, piuttosto, in un risvolto a più di vent’anni di distanza, quando la polizia gli propone di denunciare la donna per abuso sessuale. Lui non lo farà ma andrà a rivedere lei invecchiata- e intorno alla vita dell’ insegnante di musica  c’è un altro breve romanzo.

Roland non completerà gli studi, non diventerà neppure il grande pianista che prometteva di essere. Sarà sempre un mediocre che finirà per suonare in un piano bar per guadagnarsi da vivere.

Il più grande successo di Roland sarà suo figlio, perché sì, Roland si dedica totalmente a lui, sforzandosi di dargli un doppio affetto. E noi vedremo crescere questo bambino, trasferirsi in Germania, sposarsi e dare due nipoti a Roland.


   Ci sono altre storie e altri personaggi, c’è la relativa tranquillità sentimentale trovata da Roland quando ha superato la sessantina, ci sono, infiltrati nella vita quotidiana e a volte soggetto di discussioni, tutti i grandi avvenimenti della seconda metà del secolo scorso, la crisi di Suez e quella di Cuba, la caduta del Muro di Berlino e la Thatcher e poi Major e Tony Blair.

    Uscire dal coro e azzardarsi a dare un’opinione non del tutto positiva di un romanzo di uno scrittore del calibro di Ian McEwan è difficile. “Lezioni” è un romanzo molto ambizioso, finisce per essere sovrabbondante in quel troppo che vuole dire, per tentarci a ‘saltare’ qualche paragrafo- e questo non è mai un buon segno.  



giovedì 23 marzo 2023

Simona Baldelli, “Il pozzo delle bambole” ed. 2023

                                                                       Casa Nostra. Qui Italia



Simona Baldelli, “Il pozzo delle bambole”

Ed. Sellerio, pagg. 407, Euro 16,00

 

     Ecco un libro molto bello. Ecco, a sorpresa, un personaggio molto bello che non è la protagonista (su cui avremo molto da dire) e che è una suora. Perché gran parte del romanzo di Simona Baldelli si svolge tra le mura di un orfanotrofio e suor Immacolata è una presenza costante a fianco di Nina, la protagonista, la bambina che, a due anni dalla fine della guerra, era stata lasciata sulla ruota ‘degli esposti’ dove i neonati non voluti venivano abbandonati perché altri se ne prendessero cura. A volte erano avvolti in una copertina, a volte un biglietto attaccato con uno spillo indicava il nome che gli era stato dato, molto più spesso non c’era niente a dire se, almeno per un breve tempo, erano stati amati.

    C’era una sorta di gerarchia anche all’interno dell’orfanotrofio e Nina ne sarebbe stata acutamente consapevole: c’erano gli orfani e c’erano i trovatelli. Gli orfani avevano conosciuto i loro genitori, avevano memoria di un mondo al di fuori, erano su uno scalino più alto rispetto ai trovatelli che per tutta la vita avrebbero sentito il marchio dell’essere stati rifiutati e se ne sarebbero chiesti il perché. Il perché. Nell’Italia oscurantista del dopoguerra e degli anni ‘50 e anche degli anni ‘60, quando l’interruzione di una gravidanza era pressoché impossibile, era altrettanto impossibile che una ragazza potesse tenere con sé un figlio nato fuori dal matrimonio. E Nina era una di questi, era una ‘figlia del peccato’.


    Era stata suor Immacolata a trovarla e suor Immacolata le sarebbe stata sempre accanto, era grazie a lei se Nina era guarita dalla pertosse, se aveva messo su qualche chilo. Ci saranno due momenti importanti in cui la figura di suor Immacolata diventa grandiosa, un esempio, un modello, e sono due momenti simili in cui la suora e Nina si trovano accanto a due partorienti in quella zona nascosta dell’edificio che nella sua immaginazione Nina chiama ‘il pozzo delle bambole’. “Non giudicare, non giudicare mai. Giuramelo,” chiede suor Immacolata a Nina. Che grande lezione da parte di una suora votata alla castità. Che generosità, che amore per il prossimo, che ampiezza di vedute.

    È suor Immacolata che affida a Nina un’altra bambina, Lucia, i cui genitori sono morti in un incidente. Lucia veniva da un mondo ricco, Lucia aveva capelli come seta, Lucia aveva modi raffinati. Senza l’aiuto e la protezione di Nina Lucia non avrebbe potuto resistere. Lucia sarà scelta da due genitori adottivi- le scene dei preparativi per il giorno ‘dell’esposizione’ in cui i bambini vengono messi in mostra per essere scelti, il loro spasmodico desiderio, le loro ansie, la loro delusione, sono tra le più toccanti del libro.


    Questo libro è tanti libri in uno, è una storia d’Italia dal dopoguerra all’inizio del boom economico vista da un’angolazione particolare, da un piccolo mondo chiuso in cui le notizie arrivano come filtrate dalle spesse mura: la televisione, il discorso di Martin Luther King (un nero che parla di uguaglianza!!!), l’assassinio di Kennedy, il crollo della diga del Vajont, la morte di papa Giovanni. E poi, dopo che Nina è uscita dall’orfanotrofio e ha iniziato a lavorare nel tabacchificio di Lanciano, è come se iniziasse un altro libro sulle rivendicazioni delle operaie, le prime manifestazioni, lo storico sciopero di 40 giorni delle tabacchine. Insieme a questa storia pubblica ci sono le piccole storie private al cui centro c’è Nina, storie di amicizie (la delusione dell’amicizia con Lucia, il nuovo legame con altre due ragazze), storie di amori (la paura dell’abbandono non lascerà mai Nina), storie di crescita personale (Nina, la bambina assetata di sapere, che segnava su un quadernetto tutte le parole che non sapeva, si iscriverà a un corso serale per prendere la licenza media).


    La scrittura di Simona Baldelli non conosce sbavature, non cade in un facile sentimentalismo e il libro, con la sua ricchezza di personaggi e di temi, con la profondità della rappresentazione psicologica, con l’angolatura insolita dell’inquadratura, è una ventata di novità sulla scena del romanzo italiano.

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domenica 19 marzo 2023

Kiran Millwood Hargrave, “L’albero della danza” ed. 2023

                       Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

romanzo storico

Kiran Millwood Hargrave, “L’albero della danza”

Ed. Neri Pozza, trad. A. Zabini, pagg. 332, Euro 19,00

 

   Due fatti storici che si possono controllare in Internet sono lo sfondo del romanzo di Kiran Millwood Hargrave che, ancora una volta dopo il bellissimo “Vardø. Dopo la tempesta”, ci porta nel passato con una storia di donne, delle loro sofferenze e del loro coraggio in un ruolo soggetto a quello degli uomini.

    Il 7 novembre 1492 un meteorite cadde in un campo di grano nei pressi di Eisensheim, in Alsazia (allora in Germania e oggi in Francia). Si può vedere tuttora nel museo della città. Nel quindicesimo secolo un evento così straordinario non poteva trovare una spiegazione scientifica, si colorava di superstizioni e di presagi funesti.

   Nel luglio del 1518 a Strasburgo, in Alsazia, si verificò quella che venne chiamata ‘la piaga del ballo’ o ‘l’epidemia del ballo’: una donna, Troffea, iniziò a ballare per le strade. Non era una vera e propria danza, ma una sequenza di movenze scoordinate. Ballò per una settimana, a lei si unirono un centinaio di donne che poi diventarono 400. Dopo un mese si iniziavano a contare i morti per sfinimento, attacco cardiaco, ictus. Quanto alle cause, si sono fatte parecchie ipotesi ad iniziare da una isteria di massa originata forse da intossicazione alimentare dovuta alla segale cornuta (lo stesso alimento a cui si attribuì il fenomeno che portò al processo alle streghe di Salem in America).

il meteorite di Eisensheim

     Fa caldissimo, quell’estate del 1518. Le donne danzano in piazza a Strasburgo e nella fattoria dei Wiler Lisbet si occupa delle api che sono la fonte di guadagno per la famiglia. Lisbet è incinta e attende questo bimbo con paura e ansia- è la sua tredicesima gravidanza, tutti gli altri bambini sono morti, a volte anche prima di venire al mondo. E c’è un luogo nella foresta che è un piccolo santuario per lei. E’ quello che chiama ‘l’albero della danza’- ai suoi rami ha appeso nastri per ogni piccolo che non ha vissuto, porta regalini a quei bambini che hanno un nome per lei, se non per il marito.

    Si sente sola, Lisbet. Il marito non la cerca più, la suocera pare ostile. Per fortuna ha un’amica, una ragazza solare che mette al mondo un figlio dopo l’altro. Poi torna Agnethe, la sorella di suo marito. Ritorna da un esilio di sette anni passati da un monastero in montagna. Ha i capelli rasati a zero- che colpa aveva commesso? Tutti tacciono. Lisbet non sa interpretare gli sguardi che intercorrono tra la cognata e la sua amica, tra il marito di questa e la cognata.


A complicare le cose, in questa atmosfera incandescente, due musicisti, fatti venire per disciplinare in qualche maniera il ballo delle donne in piazza, sono alloggiati nella fattoria del marito di Lisbet. E uno di loro, un immigrato turco, ha una sensibilità e una empatia che, suo malgrado, conquista il cuore di Lisbet, la donna che è cresciuta convinta di essere segnata perché nata la notte in cui il meteorite si è abbattuto sul campo di suo padre.

      Avevamo avuto il sospetto, ma è soltanto a metà libro che avremo la certezza di quale colpa si sia macchiata Agnethe, una donna fiera che non si lascia piegare e difende il suo diritto ad essere se stessa. E c’è un’evoluzione, una crescita interiore delle quattro protagoniste donne- Lisbet, la suocera, l’amica e Agnethe. Succede a loro quello che succede alle donne che ballano come invasate, liberandosi dalle costrizioni. Loro quattro riescono a liberarsi senza ballare sulla piazza o, se lo fanno, è per nascondersi nella folla. Si riappropriano del loro diritto di amare senza sentirsi in colpa.

     I tempi non sono maturi, tutto finirà in tragedia in questo romanzo che esplora diversi tipi d’amore e di amicizia- una luce in tempi bui di superstizione, pregiudizi e di una religione gretta.

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giovedì 16 marzo 2023

Bernardo Atxaga, "Il figlio del fisarmonicista" intervista 2008

 Ripropongo l'intervista da me fatta a Bernardo Atxaga durante il Festival della Letteratura di Mantova del 2008


Il Festival della Letteratura di Mantova si è svolto all’insegna del linguaggio quest’anno- lingue delle minoranze, lingue che corrono il pericolo di scomparire, lingue perseguitate in certi periodi storici. Una serie quotidiana di eventi era dedicata ad un ‘vocabolario europeo’, in cui ogni scrittore ‘regalava’ una parola della sua lingua. In questo contesto il romanzo di Bernardo Atxaga (pseudonimo di Joseba Irazu, scrittore nato nel 1951 a Asteasu, Guipuzcoa) acquista un valore particolare- basta pensare al dettaglio delle parole della lingua basca che il protagonista seppellisce per gioco insieme alle sue bambine. Abbiamo parlato con lui del suo romanzo e dei Paesi Baschi. 

Iniziamo da un personaggio ‘non umano’ che ho trovato intrigante: la farfalla. Di che cosa è il simbolo la farfalla e i cento modi di dire farfalla?

     Penso che in un libro di finzione narrativa tutti gli elementi debbano essere sfruttati, debbano ‘lavorare’ molto. E la farfalla non può essere solo simbolo dello spirito. Ad esempio, quando una farfalla esce volando da una tomba, è un simbolo di resurrezione. E nel libro è questo, però le farfalle rappresentano anche i personaggi. In un capitolo ad ogni persona corrisponde una classe di farfalle- questo è valido anche per i falsi entomologi per cui la farfalla è la scusa per essere sul posto. Per me personalmente la farfalla è un elemento della mia personalità: nel centinaio di poesie che ho scritto, in una trentina appare la farfalla. Nella lingua spagnola la parola farfalla, mariposa, viene da una canzone alla Vergine Maria, dalle parole che dicono, ‘Maria, fermati, posati’- c’è un’associazione tra la farfalla bianca e Maria. In basco è notevole che ci siano quasi 100 modi di dire ‘farfalla’- il più raro è pinpilìnpausa, una parola che imita non un suono ma il movimento: è una rarità linguistica.


 Il libro è pervaso dalla nostalgia per un mondo che scompare: il ‘vecchio paese’, ‘la vecchia lingua’…teme l’assimilazione da parte della Spagna e della cultura spagnola? C’è stato un tentativo di genocidio culturale da parte della Spagna franchista?

     Credo che il tono del libro sia elegiaco più che nostalgico, perché inizia dalla fine della vita. Mi piace il tono elegiaco, mi piace lo sguardo sulla vita dalla fine, c’è molta verità nello sguardo finale come nello sguardo dei vecchi. I vecchi sanno quello che è importante nella vita, hanno esperienza. Mi piacciono gli sguardi finali, sono più esatti. Il rapporto dei Paesi Baschi con la Spagna della dittatura fu molto duro, ma non sarebbe giusto dire che la dittatura fu contro i baschi. Non fu una lotta tra Spagna e baschi, non fu una repressione di una dittatura fascista sui diversi. Era contro la cultura basca, questo sì. Non posso e non voglio dimenticare che era proibito parlare in basco in pubblico e anche a scuola, naturalmente. Era una situazione incredibile a pensarci ora. E tuttavia c’erano molti baschi nel governo franchista.

 Di quali significati aggiunti, di quali dramma aggiunti, si è caricata la guerra civile nei paesi baschi?

     Durò più a lungo nei paesi baschi. E’ apparsa ora una tomba collettiva di 1000 persone fucilate in Andalusia, in Navarra 3000 persone furono fucilate nel primo mese di guerra: ora viene fuori la verità. Nei paesi baschi fino al 1958 non si poteva pubblicare un libro in basco: il dopo-guerra durava ancora. Prendiamo il caso di Guernica- il primo bombardamento su civili nel corso della guerra. Fino a quasi il 1970 non si poteva scrivere che il bombardamento era stato opera dei nazi-fascisti: l’ombra durò di più sui paesi baschi. Perché la guerra civile fu brutale in Andalusia, in Navarra, e non sarebbe giusto dire che fu più tremenda nei paesi baschi. Quello che fu brutto è che non ci poteva essere un’università nei paesi baschi, oltre a quella privata. E’ paradossale che io mi sia laureato all’università di Bilbao e che, però, sui documenti, risulti laureato a Valladolid.


 Dopo la farfalla, un altro personaggio centrale e non umano: il nascondiglio. Mi è parso che il nascondiglio abbia un significato arcano, al di là del luogo in cui si sfugge al nemico…

      Il nascondiglio esiste veramente: nella mia casa c’era un nascondiglio così che risaliva al secolo XIX. Dava l’idea di un paese in guerra. L’ho utilizzato perché mi serviva un posto per nascondere il cappello e tirare fuori la storia dell’americano. E’ un simbolo della storia dei paesi baschi: in passato serviva per nascondere i ragazzi che si sottraevano alla leva forzata durante le guerre carliste; nella guerra civile serviva per nascondere quelli che erano perseguitati; nella mia generazione per nascondere i sequestrati…rappresenta la storia politica e violenta dei paesi baschi.

 Ora una domanda su cui Lei- o meglio, il personaggio-scrittore- ironizza nel romanzo: c’è Lei dietro Joseba, c’è qualcosa di lei in entrambi i due personaggi?

     Ci sono tante persone dietro tutti i personaggi di questo romanzo: quelli che hanno studiato con me a scuola e poi i miei compagni di università. Ma anche i miei fratelli e la mia famiglia: io sono dietro tutto quello che accade nel romanzo. Non si può arrivare alla verità poetica se non si ha un’esperienza diretta. Io prendo dettagli dalla mia esperienza, penso a mio fratello, al mio editor basco…quello che racconto è tutto esatto, non c’è retorica.


 Senza svelare nomi: perché denuncia l’impresa, il ‘traditore’? perché non approva i metodi terroristici? Perché non crede nelle finalità?

      Il finale del libro, la questione del traditore, è stata occasione di una forte polemica in Spagna. Ma la mia spiegazione del tradimento viene dalla mia esperienza: tradisce per motivi molto realistici, si rende conto che ci sarà presto un’amnistia e che ne godranno quelli che sono in carcere in quel momento. E pensa che, se invece finisce in prigione dopo, ci resterà per almeno vent’anni. Quello del traditore fu un calcolo reale e che ha funzionato. Mio fratello era stato arrestato un anno prima e ne uscì proprio con l’amnistia. Mentre il personaggio che mi ha ispirato il capo entomologo è appena uscito dal carcere uno o due anni fa. Certo che il tradimento ha suscitato una tale reazione nei paesi baschi- perché non c’era nessuna ideologia dietro. Eppure fu una decisione non certo bella ma comprensibile.



martedì 14 marzo 2023

Bernardo Atxaga, “Il figlio del fisarmonicista” ed. 2023

 La casa editrice 21lettere ha ripubblicato un romanzo bellissimo uscito per Einaudi nel 2008 con il titolo "Il libro di mio fratello". 21lettere lo ripropone con il titolo originale e io pubblico la mia recensione già apparsa a suo tempo sul sito del comune di Modena (Stradanove) e l'intervista con lo scrittore durante il Festival di Mantova.                                  


Bernardo Atxaga, “Il figlio del fisarmonicista”

Ed. 21lettere pagg. 448, Euro 20,00

 

    Due amici, due quasi fratelli. David e Joseba. Hanno così tanto in comune, hanno condiviso talmente tante esperienze nella loro vita. Entrambi sono nati e cresciuti nella terra a cui Bernardo Atxaga dà il nome di Obaba, rendendola mitica- e Obaba è una delle minuscole e tormentate aree d’Europa che hanno vita a sé stante nei confini di Stati più grandi. In questo caso i paesi Baschi, tra Spagna e Francia, terra di luce e di ombre, di montagne e pascoli e bestiame.

Libro speculare, libro doppio e con due titoli, - “Il figlio del fisarmonicista” (che è quello che gli ha dato David), e “Il libro di mio fratello” (quello suggerito dalla moglie di David al romanzo completo, che include le revisioni e aggiunte di Joseba)-, il racconto inizia dalla fine, quando Joseba riceve il quaderno scritto in basco da David: lo leggerà in aereo, tornando in Spagna dalla California, dove è andato a trovare l’amico, dove poi lo ha accompagnato nell’ultimo viaggio al cimitero. E’ David l’io narrante nella maggior parte del romanzo, fulcro e filtro di tutte le vicende. E’ lui il figlio del fisarmonicista, suonatore di fisarmonica lui stesso finché questo strumento diventa l’emblema dell’antagonismo con il padre, quando un’amica consegna a David il ‘quaderno del gorilla’ (c’è un gorilla raffigurato sulla copertina, ma che simbolo minaccioso diventa questo animale!) con l’elenco delle persone fucilate dai fascisti a Obaba e David è roso dal dubbio, dalla quasi certezza, di essere figlio di un assassino.


    Perché “Il libro di mio fratello” è un romanzo che ha molti strati e molti livelli di lettura. Se la prima pagina rievoca il primo giorno di scuola, quando la maestra invitò David a suonare, questo è un romanzo di formazione e di crescita, attraverso lo studio, le amicizie (Joseba, ma anche lo stalliere Lubis, anche Martìn, il figlio dell’uomo soprannominato Berlino per le sue simpatie naziste), gli amori (Teresa che lo corteggia senza respiro, Virginia che poi sposa il suo marinaio), i legami famigliari (la madre, ma soprattutto lo zio Juan, il suo vero maestro, da cui David erediterà il ranch in California), la malattia (la scoliosi deformante di uno, la poliomielite dell’altra), la morte (Lubis- si vuol far credere che sia scivolato nel fiume, mentre pescava).


    La formazione avviene anche attraverso la conoscenza e la presa di coscienza: la guerra civile è finita da un quarto di secolo, Guernica è stata bombardata nel 1937, nella stessa famiglia ci sono stati schieramenti opposti. In quale modo è stato coinvolto il padre di David? E allora il romanzo è anche un libro sulla guerra fra fratelli, per addentrarsi poi nelle azioni del movimento separatista, sul dolore dell’espatrio. Sul tradimento- il libro si chiude con tre confessioni, una delle quali ci giunge a sorpresa. Sull’identità culturale e linguistica- bellissima la poesia che apre il romanzo e che parla di una lingua che scompare- così muoiono le parole antiche…
Guernica

     Tra i tanti personaggi del libro ne vogliamo sottolineare ancora due, che sono dei luoghi e che diventano dei simboli: una casa che ha un nome, Iruain, ed è la casa del cuore di David, immersa nella natura e vicina alla natura, rifugio fisico e spirituale, e un nascondiglio dentro questa stessa casa che ha un ruolo centrale nella trama in tre momenti diversi. E vorremmo aggiungere le farfalle che svolazzano nelle pagine del romanzo- vuoi come esempio di parola che scompare (mitxirrika), o di bellezza del luogo, o, infine, come pretesto per un attentato dell’ETA.

La recensione è stata pubblicata sul sito di Stradanove.

A breve seguirà l'intervista con lo scrittore.



     

sabato 11 marzo 2023

Goran Vojnović, “All’ombra del fico” ed. 2023

                                                      Voci da mondi diversi. Slovenia

      saga

Goran Vojnović, “All’ombra del fico”

Ed. Keller, trad. Patrizia Raveggi, pagg. 463, Euro 20,00

 

    Una saga famigliare che copre tre generazioni. Quante ne abbiamo lette. Eppure ognuna è diversa, perché le persone sono diverse e soprattutto perché il luogo in cui vivono è diverso. Una storia di famiglia è inevitabilmente la Storia, o una parte della Storia, di un paese. E, quanto più tormentata è questa Storia, tanto più lo è quella della famiglia.

    Nel 1955 Aleksandar è arrivato in Istria, destinazione dove è stato inviato per lavoro. Tra i 250.000 e i 350.000 italiani erano stati costretti ad emigrare dall’Istria, dopo la fine della guerra. E, quando ad Aleksandar viene detto che una di quelle case vuote, abbandonate in fretta e furia, può diventare la sua, lui si ritrae inorridito- gli pare un furto, gli pare una violazione, entrare là dove tutto mantiene il ricordo di chi ci ha vissuto, dormire nel letto di altri, appendere i suoi abiti nell’armadio dove i vestiti di altri pendono ancora dalle grucce. Piuttosto si costruirà una casa a Mamjano, lontano dalla città e affronterà il disagio di doversi spostare quotidianamente per lavoro.

    Ci piace subito, quest’uomo retto e generoso. Ci piacerà ancora di più da vecchio, quando si prende cura della moglie malata di Alzheimer, quando cerca di esercitarle la memoria, quando non cede alla disperazione del nulla in cui lei è precipitata e in cui fa precipitare lui. Perché che cosa è la vita quando non c’è più niente nel proprio passato? Eppure quest’uomo, tormentato dall’incertezza sulle sue origini (perché sua madre aveva cambiato cognome?) aveva abbandonato la moglie per andare in Egitto per un anno (doveva proprio accettare quel lavoro?) e lei non glielo aveva mai perdonato, anzi voleva divorziare. Quando lui era tornato, lei già non era più lei.

Lubiana

     La narrativa che ci parla di Aleksandar è in terza persona e si alterna ad un’altra narrativa in prima persona che spesso sembra quasi un flusso di coscienza. A parlare è Jadran, nipote di Aleksandar, figlio della figlia che aveva sposato un bosniaco. Bosnia, Serbia, Slovenia, la Jugoslavia si è frantumata, si avvicinano gli anni ‘90, quelli di un’altra guerra. E quale è l’identità di chi è nato in una città che si trova in uno stato che ha cambiato i confini?

     Questo è un romanzo di incertezze, di legami e di abbandoni- in ognuna delle coppie delle diverse generazioni c’è qualcuno che si allontana, c’è il trauma dell’abbandono. Aleksandar è andato in Egitto, il marito di sua figlia (padre di Jadran) è tornato in Bosnia e si rifà vivo solo per il funerale del suocero, la moglie di Jadran lo lascia (per poi tornare). Ma di certo l’abbandono più triste è quello della moglie di Aleksandar, un abbandono della mente e dei ricordi con una presenza corporea, seguito da quello dello stesso Aleksandar che (pensa Jadran) forse si è tolto la vita.


    C’è anche una casa, come personaggio in questo grande romanzo, la casa di Mamjano che subisce- anche lei- un duplice abbandono. Perché viene a trovarsi al di là del confine, perché la morte dei due nonni la lascia disabitata. Finché ci torna Jadran a cui la madre la cede e, nella scena finale, Jadran si arrampica sull’albero del giardino per cercare un fico maturo da portare alla moglie. E’ un simbolo possente, questo fico che continua a produrre frutti nonostante la guerra, nonostante la morte dei due nonni, nonostante l’allontanamento delle due figlie. Ci è impossibile non pensare al fico delle parabole evangeliche, quello che germoglia e dà frutti e quello sterile. Questo fico ha i rami carichi di frutti: c’è speranza per il futuro.

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mercoledì 8 marzo 2023

Cédric Gras, “Gli alpinisti di Stalin” ed. 2023

                                            Voci da mondi diversi. Francia

biografia romanzata

Cédric Gras, “Gli alpinisti di Stalin”

Ed. Corbaccio, trad. B. Ponti, pagg. 224, Euro 22,00

 

   Vitalij e Evgenij Abalakov. Nati in Siberia nel 1906 l’uno e nel 1907 l’altro, la madre morì dando alla luce Evgenij. Sarebbero diventati ‘gli Abalakov’- Evgenij acquistando la fama non solo per aver raggiunto vette inviolate, ma anche come scultore ed eroe di guerra, Vitalij, indomito alpinista quanto suo fratello, ingegnere e ideatore di adatte strumentazioni (uno zaino porta il suo nome, giusto per fare un esempio) e di tecniche di arrampicata. Forse gli appassionati di alpinismo ne conoscevano i nomi, noi veniamo a sapere di loro e delle loro imprese nell’appassionante libro di Cédric Gras. E, insieme alla loro storia, è inevitabile leggere anche la Storia dell’Unione Sovietica.

     L’alpinismo sovietico non è uguale a quello dei paesi occidentali. Viene da chiedersi come sia possibile- arrampicarsi dovrebbe rispondere a regole base e aspirazioni valide per tutti. Non è così in un paese fresco di rivoluzione che sta costruendo un nuovo utopistico regime comunista. Anche gli ideali delle scalate verso il cielo devono rispondere a quelli del comunismo. Raggiungere le vette non è privilegio di pochi, anche le masse devono averne la possibilità. Qui non c’è la corsa per arrivare per primi e da soli, come in Occidente. E- bisogna tenerlo a mente- le cime ambite sono solo quelle entro i confini dell’Unione Sovietica. Bisognerà aspettare l’avvicinamento con la Cina di Mao per programmare la conquista dell’Everest. E infine alle vette conquistate verrà dato un nome che sarà come una bandiera- Pik Stalin, Pik Lenin- e non verrà innalzata una croce sulle cime ma sarà posato un busto del ‘piccolo padre’ trasportato con fatica.  


   

    Nel libro di Gras seguiamo passo dopo passo le arrampicate degli Abalakov, i fratelli tra cui era inevitabile finisse per esserci rivalità e gelosia. Poteva essere altrimenti quando, dopo la tragica salita sul Khan Tengri (7010 m.), Vitalij aveva dovuto subire l’amputazione delle falangi delle mani e di un piede per un totale di tredici dita? Ed era rimasto Evgenij ad arrampicarsi da solo, a conquistare la gloria. Evgenij era stato arruolato nella Grande Guerra Patriottica ed era anche riuscito a sopravvivere a quella carneficina, per poi morire nel 1948 per un banale incidente domestico. La moglie e il figlio non accettarono mai la versione ufficiale della sua morte.

Evgenij Abalakov

     Vitalij, che per la sua menomazione non aveva preso parte alla guerra, aveva ricevuto l’incarico di insegnare le tecniche di arrampicata, di preparare i nuovi alpinisti. Finché aveva ricominciato a salire in vetta pure lui. Ammirabile. Straordinario. Un esempio di come la forza di volontà possa far vincere gli handicap fisici che non sono banali difficoltà. Perché c’era qualcos’altro nel passato di Vitalij che il fratello non aveva sperimentato e che ce lo fanno ammirare ancora di più. Negli anni del Terrore staliniano Vitalij era stato arrestato con accuse vaghe di favorire un alpinismo solitario e non al servizio della scienza e delle masse, era stato sottoposto a torture ed estenuanti interrogatori. Era stato rilasciato dopo due anni, nel 1940, con un fisico debilitato. Che tempra deve avere un uomo per risollevarsi e proseguire verso la meta prefissata, una volta, due volte?

Vitalij

     Come tutti i libri che ci portano a respirare l’aria rarefatta dei giganti del mondo, anche quello di Cédric Gras ci fa sentire piccoli e incapaci in paragone di quelli che sono degli eroi. E come ogni volta che leggiamo le storie di alpinismo, ci chiediamo come potessero resistere al morso del freddo senza una difesa adeguata- Vitalji aveva stivali di feltro nella scalata in cui gli si congelarono le dita di un piede-, passando la notte in grotte scavate nel ghiaccio mentre fuori urlava la tempesta. E in paragone le conquiste di tempi più recenti, magari anche con le bombole di ossigeno, ci sembrano giochi da ragazzi.

    Un libro da leggere, per guardare in alto, per forzare le nostre forze, per conoscere due grandi uomini leggendari e il loro paese.