Premio Nobel 2017
Intervista del 2006
E' di ieri la notizia del Premio Nobel conferito a Kazuo Ishiguro (ringrazio l'amico che sa il giapponese e che mi ha detto che, dettaglio curioso, in italiano il nome dello scrittore sarebbe Vittorio Pietranera). Sono andata subito a cercare nei miei file l'intervista che gli feci nel 2006, dopo la pubblicazione di "Non lasciarmi", occasione per cui avevo riletto anche gli altri suoi romanzi.
Kazuo Ishiguro, “Non
lasciarmi”
Ed. Einaudi, pagg. 296, Euro 17,50
Durante un viaggio in macchina
una ragazza, Kathy, ricorda la sua vita: la scuola di Hailsham, l’amicizia con
Ruth e Tommy, il ragazzo di cui lei e Ruth erano innamorate, le insegnanti, la
temuta Madame che selezionava per la sua Galleria i lavori migliori degli
studenti. Sono tutti ragazzi senza genitori, ma non sono orfani. Sono consapevoli
che la loro vita è predestinata, che sarà breve e che devono godere in fretta
di tutto quello che di bello il mondo può offrire, la musica, l’arte, l’amore.
Chi sono e qual è il loro destino?
INTERVISTA A KAZUO
ISHIGURO, autore di “Non lasciarmi”
“Anche la letteratura è stata
toccata dalla globalizzazione”, ci dice Kazuo Ishiguro all’inizio dell’intervista
che ha rilasciato a Stilos a Milano, prima della presentazione del suo nuovo
libro “Non lasciarmi” tradotto ottimamente da Paola Novarese. “Tutti noi
scrittori, più o meno consapevolmente, scriviamo pensando alla traduzione dei
nostri libri. Quando scrivo mi viene spontaneo pensare se le parole o le frasi
che sto usando troverebbero una facile traduzione in un’altra lingua oppure no,
e cerco di evitare i giochi di parole che sono così caratteristici della lingua
inglese.” L’inglese è diventata la prima
lingua per Kazuo Ishiguro, nato in Giappone nel 1954 ma emigrato con la
famiglia in Gran Bretagna nel 1960, ed è considerato uno dei maggiori scrittori
inglesi. Stilos ha parlato con lui del nuovo romanzo, dei temi dei suoi libri
precedenti e del suo rapporto con il cinema.
Quali sono stati i
motivi che lo hanno spinto a scrivere “Non lasciarmi”, un libro per molti versi
così diverso dai precedenti?
Ci sono stati due motivi: prima di tutto
volevo trovare una storia che enfatizzasse quanto è breve la vita. Questo è un
tema che ricorre nei miei romanzi, è presente anche nel titolo di “Quel che
resta del giorno”. Non ce ne rendiamo conto e, se non ci affrettiamo ad
afferrare l’amicizia e l’amore, dopo può essere troppo tardi, la vita diventa
un viaggio di sola andata. Volevo quindi trovare una situazione fantastica in
cui la vita è breve e i protagonisti devono cogliere al volo l’amore e la gioia
prima che sia troppo tardi. Il secondo motivo è che volevo riproporre in un
nuovo modo le vecchie domande che sono passate di moda: che cosa significa
essere un essere umano? Che cosa è l’anima? Dobbiamo comportarci secondo i
dettati del creatore? Sono domande insite nella natura umana e che sono
diventate difficili da trattare per gli scrittori di un mondo post-religioso.
Tolstoj e Dostoevskij hanno scritto pagine e pagine su questi argomenti, io
volevo parlarne in modo diverso dando loro una maggiore immediatezza.
scena dal film tratto da "Non lasciarmi" |
Sì, per me Hailsham è una metafora concreta per l’infanzia: volevo
creare l’idea della bolla che isola da tutto in cui cerchiamo di far crescere i
bambini. Quando mia figlia era piccola, censuravo tante cose tra la sua vita e
il mondo: volevo che vedesse tutto il mondo come un film di Walt Disney. Penso
che la maggior parte di noi sia cresciuta al riparo dalla realtà, solo più
tardi siamo venuti a conoscenza di quanto c’è di brutto e duro nel mondo. Tocca
agli adulti gestire le informazioni da far pervenire ai bambini che poi,
crescendo, imparano a discutere su quanto c’è di spaventoso e di entusiasmante
nella realtà. Era questo che cercavo di catturare descrivendo Hailsham. Certo
c’è un’ombra nel futuro dei ragazzi, ma dopotutto c’era un’ombra anche nella
vita di mia figlia- non le avevo mai parlato della morte, ad esempio.
Il suo libro vuol essere una denuncia dell’eccesso di scienza nel
mondo?
La mia non è un’affermazione o una
critica, non rappresenta una situazione reale. Una cosa è interessante nella
finzione narrativa: poter immaginare questo mondo e mettere alla prova i valori
della nostra civiltà, chiedendoci se è proprio impossibile che quanto
descriviamo accada. Penso che questo sia l’aspetto positivo di dedicarsi al
genere della letteratura di fantasia. Quello che mi preoccupava non era
esaminare il problema della clonazione, piuttosto quello della scienza. Quando
ho iniziato il romanzo, negli anni ‘90 subito dopo “Quel che resta del giorno”,
era interamente diverso: c’era il gruppo di ragazzi ma la tematica riguardava
le armi nucleari, che era poi il problema che metteva in ansia la mia
generazione. Sono ritornato più volte sul romanzo ed è stato solo nel 2001 che
ho cambiato l’argomento che riflette la mia preoccupazione sulla nostra abilità
di controllare la scienza.
Non c’è una certa crudeltà nell’educare questi ragazzi al bello, visto
la fine che debbono fare?
Un punto essenziale
della storia è che questo è un progetto che ha ragione di essere. Dietro il
progetto c’è gente benintenzionata che vuol provare al resto del mondo che i
ragazzi sono come gli altri esseri umani ed è per questo che gli si insegna il
gusto dell’arte e del bello. Hailsham è una sorta di bio-fattoria. Ma d’altra
parte la stessa domanda è valida per ognuno di noi: perché facciamo lo sforzo
di essere sensibili all’arte se alla fine ci aspetta la morte? Il nucleo di
molti romanzi è su che cosa renda la nostra vita degna di essere vissuta, che
cosa valga la pena di vivere.
Anche in questo romanzo lo sguardo della protagonista è rivolto al
passato ed è ancora presente un tema che le è caro, quello della valutazione
della propria vita, la sensazione che sia andata sprecata.
Quando ho iniziato a scrivere mi
interessava osservare come le persone mentano a se stesse, mi interessava
l’intero processo del ricordare e dimenticare. Ci sono delle verità difficili
da affrontare e mi domandavo come avrei guardato indietro alla mia vita, come
avrei affrontato i fallimenti, e poi, come si altera la verità nel ricordo? Mi
illuderò o mi dirò la verità? Ho osservato i miei genitori, le persone che
erano uscite dalla guerra e cercavo di proiettarmi nelle loro esperienze.
Immaginavo dei personaggi che lottano tra l’auto-inganno e il bisogno di
verità. In questo libro la memoria gioca un altro ruolo: per Kathy il ricordo è
una consolazione, si attacca ai ricordi perché le persone che ama sono
scomparse e la memoria diventa preziosa, qualcosa a cui aggrapparsi. Sono
sempre affascinato da come la gente ricordi e dimentichi, da come i paesi
stessi ricordino e dimentichino il loro passato.
E’ forse necessario l’autoinganno, in una certa misura?
Penso di sì: i ragazzi di “Non lasciarmi”
si auto-ingannano, ma in maniera positiva, a loro serve l’illusione di vivere
una storia d’amore. Forse una certa dose di auto-inganno è indispensabile
perché permette di andare avanti nella vita. Anche negli altri libri tutto
sommato non avevo un’idea interamente negativa dell’auto-inganno: può essere un
modo per sopravvivere. Anche se a malincuore, ammiravo il maggiordomo Stevens
che a poco a poco abbandona le illusioni: ci vuole coraggio per accettare i
fallimenti. In questo nuovo libro prevale il senso che forse tutti abbiamo
bisogno di illuderci che ci siano delle cose per cui vale la pena di vivere,
altrimenti tutto è una perdita di tempo, si vive per morire. Mi affascina la
maniera in cui tiriamo su i bambini: noi inganniamo i nostri figli cercando di
proteggerli dal buio e solo più tardi si accorgono che il mondo non è così
bello. Ma sarebbe difficile trovare la speranza e l’ottimismo senza questa
protezione.
E’ lo sconforto davanti al mondo che ci circonda che spinge degli
scrittori profondi- lei stesso, Orwell e Huxley in passato- a ricorrere al
romanzo dell’utopia invertita, della “distopia”?
“Non lasciarmi” si può leggere come un
romanzo della distopia, io però, come ho detto, volevo trovare una metafora per
l’eterna e universale condizione umana. Volevo cercare un nuovo modo di
guardare al passaggio dall’infanzia all’età adulta e alla morte. I ragazzi
affrontano quello che tutti dobbiamo affrontare, solo che loro devono farsi le
domande tutte insieme in breve tempo. Volevo soprattutto che la morte fosse
visibile perché nel nostro mondo la morte è ormai diventata invisibile. Se crei
una situazione fantastica, riesci a vedere la morte più chiaramente: volevo
immaginare il processo dall’essere giovani ad arrivare ad accettare la
vicinanza della morte.
I suoi due primi libri, “Un pallido orizzonte di colline” e “Un artista
del mondo effimero” sono ambientati in Giappone, “Quando eravamo orfani” si
svolge in parte a Shanghai: essendo giapponese e avendo vissuto quasi tutta la
sua vita in Inghilterra, si sente in equilibrio fra il mondo occidentale e
quello orientale?
Quando ho iniziato a scrivere, era
importante per me creare la mia visione del Giappone, ecco perché i miei primi
due romanzi sono ambientati là. A quell’epoca avevo bisogno di sistemare i miei
ricordi del Giappone, perché pensavo di ritornarvi. Poi, all’età di 21 o 22
anni, mi sono reso conto che il Giappone che avevo in testa non esisteva e ogni
anno che passava la mia immagine del Giappone scoloriva sempre di più. E
tuttavia restava un luogo molto importante per me: volevo ricreare la mia
versione del Giappone, come se il conservare il mio Giappone potesse metterlo
al sicuro. Dopo il secondo romanzo diventò più facile scrivere come la persona
che ero, educata in Gran Bretagna; non mi sembrava più naturale scrivere di un
Giappone di cui non sapevo molto.
Quali furono i sentimenti della sua famiglia riguardo alle bombe di Hiroshima
e Nagasaki? L’ombra della bomba giganteggia sullo sfondo dei suoi primi due
romanzi, e tuttavia non c’è nessun riferimento aperto alla bomba atomica e alla
tragedia che ha provocato.
I miei genitori hanno sempre avuto una
sorprendente mancanza di amarezza riguardo alla bomba, la loro è stata una
generazione molto a favore dell’America e molto critica, invece, verso i leader
che li hanno portati alla guerra. Per mia madre non c’era niente di
straordinario nelle bombe su Hiroshima e Nagasaki: era solo una delle tante
cose orribili fra gli orrori della guerra. La bomba atomica ha avuto più
importanza per la mia generazione che è cresciuta durante la Guerra Fredda : per noi la bomba
aveva il significato simbolico di una minaccia per il futuro, rappresentava il
punto di svolta in quello che eravamo pronti a farci gli uni con gli altri.
Sono cresciuto all’ombra di una minaccia nucleare. La bomba atomica che si
temeva non era quella che era già caduta ma quella che si minacciava tra i due
schieramenti. Non ho mai sentito mia madre criticare apertamente l’atomica
sganciata dagli americani. In Giappone c’è più amarezza per l’esperimento fatto
negli anni ‘50 nell’isola Bikini, perché causò dei danni con le radiazioni e
non era nel contesto di una guerra.
Ne “Un artista del mondo effimero” il vecchio pittore si sente in parte
responsabile per gli ideali che ha contribuito a diffondere a favore della
guerra: quanto è grande l’influenza degli intellettuali nel foggiare il destino
di un paese?
Gli artisti hanno delle posizioni diverse
nelle società e la prima domanda da farsi è che tipo di libertà abbiano.
Certamente gli artisti e gli scrittori hanno un ruolo importante anche se non
così diretto come gli uomini politici. Tutti noi contribuiamo all’atmosfera
generale e, al meglio, contribuiamo a far ricordare che siamo degli esseri
umani. Anche se poi le decisioni vengono prese dai politici e gli artisti non
possono fare molto. D’altra parte la storia del XX secolo rende scettici
sull’idea che gli artisti abbiano un’influenza civilizzatrice. L’Europa era il
luogo di una civiltà molto avanzata, la Germania era un paese di grande cultura, eppure
questo non è servito ad impedire gli orrori del XX secolo. E’ tutta un’idea
romantica, quella che noi possiamo impedire gli orrori.
Come mai i suoi romanzi sono tutti scritti in prima persona?
E’ un’apparente contraddizione, perché non
sono uno scrittore autobiografico. I miei personaggi sono lontanissimi da me e
inoltre quando ero giovane i miei personaggi erano anziani, adesso invece sono
giovani: mi piace questa distanza che copre un lasso di tempo. Forse è perché
ho iniziato come scrittore di testi per canzoni, ne ho scritto centinaia,
volevo essere uno scrittore di canzoni. Quando ho incominciato a scrivere
romanzi mi sembrava naturale scrivere in prima persona, come se fossi un
cantante: le mie storie sono come canzoni cantate. Mi piace sentire la voce del
personaggio. Mi è più facile sentire la storia se sento la voce del
personaggio.
Uno dei suoi libri è stato adattato per lo schermo: quanto è importante
per uno scrittore il rapporto con il cinema?
Non penso sia importante, molti scrittori
non hanno rapporto con l’industria cinematografica, ad esempio John Updike o
Philip Roth o Saul Bellow. Per quello che mi riguarda ho un rapporto più
personale con il cinema: per me è importante avere un contatto con il mondo al
di fuori del mio studio. Il pericolo per gli scrittori è lavorare da soli, anno
dopo anno. Ho visto scrittori che vivono in un isolamento completo, e invece ho
osservato che chi si occupa anche di cinema trae dei benefici da questa
collaborazione reciproca, riceve degli input dalla creatività altrui. Come
scrittore considero sano collaborare con altre persone e avere contatti con il mondo
del lavoro.
In questo momento nelle sale cinematografiche si proietta il film “La
contessa bianca” di cui lei ha scritto la sceneggiatura. E’ una storia presa da
un romanzo, che diventerà un romanzo, o è stata pensata solo per il cinema?
E’ una sceneggiatura scritta solo per il
cinema. Non mi piace fare gli adattamenti dei miei libri per il cinema Sono uno
scrittore amatoriale di sceneggiature e scrittore professionista di romanzi. Ho
scritto quattro copioni, due per la televisione e due per il cinema, ma non mi
piace riprendere in mano un mio romanzo e rifarlo per il cinema: Harold Pinter
ha scritto la sceneggiatura per “Quel che resta del giorno”.
Tra i suoi sei romanzi, ce n’è uno che preferisce?
No, per i romanzi è un po’ come per i
figli: nessuno è il preferito. Per me è importante che ogni mio romanzo
rispecchi me stesso come ero all’epoca in cui quel romanzo è stato scritto. E’
per questo che non ho mai rivisto, o riscritto o alterato i miei romanzi:
devono restare immutati e testimoniare i miei cambiamenti.
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