giovedì 29 giugno 2023

René De Ceccatty, “Maria Callas” ed. 2023

                                           Voci da mondi diversi. Francia

         biografia

René De Ceccatty, “Maria Callas”

Ed. Neri Pozza, trad. G. Zucca, pagg. 308, Euro 19,00

 

    Maria Callas, un mito. Maria Callas, la Divina. La cantante lirica con un nome che è diventato la personificazione dell’opera.

Il libro di René De Ceccatty a lei dedicato ne ricostruisce la vita, passo per passo, cercando di capirne gli scompensi, mettendo a fuoco la grandezza e la fragilità di una donna che rimarrà per sempre impressa nella memoria di tutti, anche di quelli che non sono appassionati di opera lirica.

    Maria non aveva avuto un’infanzia facile. Di genitori greci era nata a New York nel 1923, dopo che i genitori avevano deciso di trasferirsi in seguito al trauma della perdita del secondogenito, morto di tifo. Aveva un cognome impossibile da pronunciare in America, Kalogeropoulos, e un lungo nome di battesimo, Anna Maria Cecilia Sofia. Dapprima fu Maria Kalos, in seguito Maria Callas.


Fin da piccola Maria aveva mostrato le sue doti canore, individuate dalla madre che, secondo le accuse della cantante, la sfruttò per anni, fino all’adolescenza. De Ceccatty non tenta di fare speculazioni psicologiche sul disagio affettivo di Maria, si limita a riportare parole dette da Maria stessa o dalla madre. È certo che non ci fu mai grande affetto tra madre e figlia, così come è certo che la madre preferisse la figlia maggiore e che il distacco precoce dal padre, dopo la separazione dei genitori, può in qualche modo spiegare l’attrazione che Maria provò sempre verso uomini molto più anziani- il marito Giovanni Battista Meneghini aveva 27 anni più di lei e Aristotele Onassis, l’altro grande amore della sua vita, ne aveva 17 di più.

    L’ascesa di Maria, le sue doti canore straordinarie, le opere che la resero famosa come interprete, il suo dominio della scena, la resistenza fisica che le faceva sopportare le tournée da un lato all’altro del mondo, il paragone e la rivalità con le altre grandi cantanti del suo tempo, così come la sua vita privata con stralci delle lettere appassionate scritte a Meneghini che era diventato il suo impresario oltre che suo marito, e poi la passione per Onassis che invece finì per sposare Jacqueline Kennedy- leggiamo di tutto questo nel libro di De Ceccatty. Lo scrittore dà importanza non solo alla figura di Maria sul palcoscenico (viene voglia di ascoltare la voce della Callas mentre leggiamo) ma anche a quella dell’essere umano che si impose una ferrea dieta per trasformarsi da donna massiccia e piuttosto insignificante in una figura snella dai lineamenti scolpiti- una bellezza forse un po’ dura ma affascinante. E però può darsi che questa forte perdita di peso abbia influito sul dramma della perdita della voce della cantante- non qualcosa di improvviso, ma possiamo solo immaginare che cosa abbia voluto significare, per Maria, avere dei cedimenti durante un’esibizione, dover supplire con le strategie del mestiere alla mancata estensione della voce. Aveva contribuito anche questo alla virata nella sua vita, al nuovo interesse per il jet set e ai loro divertimenti?


    Leggere la vita di Maria Callas è come seguire il percorso di una stella luminosissima nel firmamento, una stella che dal massimo splendore si spegne gradualmente. Termina la vita in solitudine, Maria. Forse non è neppure strano, perché non aveva un carattere facile, non era portata per l’amicizia, non aveva mantenuto vivi i rapporti famigliari.

    Il libro di René De Ceccatty è molto dettagliato e ricco di riferimenti, fa rivivere un personaggio che occupa un posto d’onore nella storia del secolo XX, ridesta in noi l’interesse per le sue opere, e tuttavia ci manca sentire lei, Maria Callas, vibrare in queste pagine- è come ammirare un ritratto di lei, un ritratto fedele ma distante.

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domenica 25 giugno 2023

Lea Ypi, “Libera” ed. 2022

                                               Voci da mondi diversi. Albania

                                             romanzo autobiografico


Lea Ypi, “Libera”

Ed. Feltrinelli, trad. E. cantoni, pagg. 304, Euro 18,00

 

   All’inizio del libro, alla fine degli anni ‘80 in Albania, è ancora una bambina Lea, la scrittrice nonché voce narrante di “Libera”. È una voce incantevole che, con l’innocenza e l’ingenuità dei bambini, accetta quello che le viene detto sulla realtà che la circonda, sul socialismo, sulla grandezza e la magnanimità di ‘zio Enver’, come la maestra insegna ai bambini a chiamare Enver Hoxha, l’ultimo fedele stalinista d’Europa. Lea piange perché il padre non l’ha portata al funerale dello zio Enver nel 1985, continua a chiedere che venga appeso il suo ritratto in soggiorno, come nelle case dei suoi amici, e proprio non capisce perché sia necessario attendere di trovare una cornice giusta. Lea sorride e trova motivo di divertimento nelle code fuori dai negozi e negli stratagemmi per mantenere il posto assentandosi dalla coda. C’è un’ironia spontanea e inconsapevole nella maniera in cui la bambina riporta i discorsi dei grandi che le risultano noiosi. Non fanno che parlare di questo e di quello, di chi si è laureato e dove, di chi ha interrotto gli studi, delle materie che hanno studiato. Molto più tardi saprà che quello era una sorta di linguaggio cifrato, che ‘laurearsi’ significava essere usciti dalla prigione. Lea si arrabbia quando deve spiegare, in classe, che non è affatto parente di quel primo ministro sostenitore dei fascisti che aveva il suo stesso cognome (era il suo bisnonno, in realtà).

Enver Hoxha

     La famiglia di Lea è composta da padre, madre e dalla nonna paterna a cui lei è molto legata. C’è un’atmosfera strana, in casa, e noi lettori ci rendiamo conto di quello che la bambina non può capire. Vengono dette parole, frasi, che hanno un sottile significato nascosto- l’opposizione al regime non può manifestarsi apertamente, i muri hanno orecchie, i bambini non possono distinguere quello che si può raccontare fuori della porta di casa e quello che non si può.

    Tutto cambia dopo il 1990, quando, in dicembre, iniziano le manifestazioni studentesche che portano alla caduta del comunismo. C’è un’immagine che ben rappresenta questo stravolgimento: Lea, spaventata dai disordini, corre nel giardino, rifugiandosi dietro la grande statua di Stalin, stringendola in un abbraccio simbolico. Ma la statua è già stata decapitata dai manifestanti.

È iniziata la liberalizzazione tanto attesa del paese, ma il passaggio non è affatto facile e anche il tono del libro cambia, l’ironia si attenua, cresce la perplessità davanti a questa agognata libertà e alle sorprese che questa riserva. C’erano persone che Lea conosceva sulla nave Vlora che attraccò a Bari nel 1991, stracarica di ventimila passeggeri di cui i più furono rimandati indietro. L’amica di Lea ce l’aveva fatta, a emigrare. E poi? Erano giunte notizie di lei- si manteneva facendo la prostituta. L’Italia, come l’America sognata a suo tempo dagli emigranti italiani, non era il paradiso che avevano immaginato.


     Lea Ypi non è più la bambina dell’inizio del libro, è la giovane donna che si è laureata alla Sapienza di Roma (negli anni dell’infanzia seguiva un corso di lingue straniere trasmesso dalla televisione albanese) ed è professoressa di Filosofia Politica alla London School of Economics and Political Science, e il libro, da romanzo di formazione in un paese comunista, diventa, con l’evolversi dei tempi, una sorta di saggio in cui la madre, il padre e la nonna della protagonista rappresentano idee diverse di libertà e offrono altrettanti spunti di riflessione. Perché, in definitiva, neppure il sistema capitalistico offre la tanto vantata libertà- sì, c’è una libertà promessa a livello istituzionale ma che in realtà non si può realizzare, perché la ricerca del profitto di alcuni sopprime la libertà di altri.

  Un episodio del libro rappresenta molto bene il ‘prima’ e il ‘dopo’ in Albania. È un piccolo episodio buffo che ci fa sorridere e ci fa sentire in colpa nello stesso tempo. Una lattina vuota di Coca Cola è al centro del contendere tra la famiglia di Lea e i vicini di casa. Quanto era ambita una lattina rossa vuota! La madre di Lea l’aveva messa su un centrino di pizzo e ci aveva infilato una rosa- il simbolo di un mondo irraggiungibile che sembrava bellissimo. Poi la lattina era scomparsa. Quella che era apparsa in casa dei vicini era stata rubata a loro? Ne era seguito un litigio.

     Dopo, con l’arrivo del capitalismo in Albania, tutte le lattine erano finite in pattumiera.



lunedì 19 giugno 2023

Jacques Fux, “Eredità” ed. 2023

                                            Voci da mondi diversi. Brasile

                                                   Shoah

Jacques Fux, “Eredità”

Ed. Giuntina, trad. V. Barca, pagg. 131, Euro 14,00

 

    Tre donne. Sara. Clara. Lola.

    Una bambina. Luiza.

    Tre date. 1926. 1949. 1984.

    Tre luoghi. Łodz, Polonia. San Paolo del Brasile. Auschwitz.

    Tre forme narrative. Il diario di Sara. Le sedute di Clara dallo psicanalista.    Le note di Lola.

    Una sola storia che unisce le tre donne della stessa famiglia, un solo passato che riverbera da una all’altra. Un passato che non si può cancellare, impossibile da dimenticare e tanto meno da comprendere. Un passato che non finisce mai, che allunga i suoi tentacoli nel presente.

    Ha tredici anni, Sara, quando inizia il suo diario nel 1939. Tredici anni, una vita felice con i genitori, la sorella gemella Clara, due sorelline più piccole. Un primo sogno d’amore per un ragazzo che si chiama Dawid. Un primo bacio che resterà per sempre un ricordo fulgido, anche quando tutti loro verranno rinchiusi nel ghetto, quando Sara farà fatica a riconoscere Dawid, quando Chaim Rumkowski, presidente del Judenrat nel ghetto di Łodz diventerà arbitro di vita e di morte per tutti loro.


C’è una lenta trasformazione nelle pagine del diario di Sara che termina quando viene deportata nel campo di Auschwitz, nel 1943. E, per noi che leggiamo, è straziante. La Sara delle prime pagine è una ragazzina allegra, fiduciosa (e perché non dovrebbe esserlo?), piena di gioia di vivere. Poi, mentre si moltiplicano le voci della minaccia tedesca ai confini, la voce di Sara cambia, affiorano le prime preoccupazioni, le osservazioni su quanto sia diversa la vita loro e degli altri ebrei ora. Eppure Sara non perde mai il coraggio, neppure dopo, quando fame, disperazione e morte sono la realtà quotidiana.

    Clara scoprirà molto tardi di portare il nome della sorella della mamma, sarà un’amica a dirle il significato dei numeri tatuati sul braccio della mamma- le risposte della mamma alle sue domande erano state le più varie, dal messaggio cifrato per la ricetta della torta al cioccolato di sua madre ad un numero di telefono. Qual è il peso di una madre distante e nello stesso tempo possessiva, incapace di amare? Un macigno. Si può mai uscire da Auschwitz?


    Anche Lola porta un nome di famiglia, quello della bisnonna. Anche Lola cresce senza sapere nulla, rintracciando il suo nome su una fotografia. Lola è ricercatrice universitaria, Lola ha gli strumenti per creare un distacco tra l’esperienza personale e la realtà storica- è quello che prova a fare, decisa a mettere un punto alla catena di dolore, a spezzare un’eredità così pesante. Ha dato alla figlia un nome che non è quella di una persona diventata cenere, l’ha chiamata Luiza. E’ sufficiente, però, la volontà di chiudere la porta ai fantasmi del passato?

    “Eredità” è una riflessione sulla Shoah fatta a distanza di quasi ottanta anni e per questo ancora più importante- per impedire che il tempo scolori la gravità di quanto è successo, perché il genocidio degli ebrei non è finito con la liberazione dei campi, perché proprio quella parola ‘liberazione’ non ci assolva dalla responsabilità, perché i sopravvissuti non sono mai più stati liberi, e neppure i loro discendenti. 

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giovedì 15 giugno 2023

Fabiano Massimi, “Se esiste un perdono” ed. 2023

                                                            Casa Nostra. Qui Italia

    seconda guerra mondiale

Fabiano Massimi, “Se esiste un perdono”

Ed. Longanesi, pagg. 320, Euro 18,60

 

   Se chiudendo il libro vi verrà voglia di saperne di più, se andrete in biblioteca o su Internet a cercare altri dettagli per capire meglio chi fece cosa, come e perché, allora il mio compito potrà dirsi esaurito.

    Io ho chiuso il libro e sono andata a vedere su Internet per saperne di più. Perché non avevo mai sentito parlare di Nicholas Winton, l’inglese che nel 1938, a Praga, organizzò i Kindertransport mettendo in salvo 669 bambini, un Giusto tra le Nazioni, anche se il riconoscimento non gli venne dato perché era di origine ebraica e non un ‘gentile’- non aveva quindi il requisito richiesto dallo Yad Vashem per l’assegnazione. E se di lui si è saputo tardi, è perché il Bene non si mette in piazza, ‘non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra’ è scritto nel Vangelo, un ammonimento valido per tutti, credenti e non.

Nicholas Winton

    È il 1938 a Praga. A marzo l’Austria era stata annessa alla Germania, poi era stata la volta dei Sudeti, il 9 novembre la Notte dei Cristalli aveva lasciato presagire un futuro quanto mai fosco per gli ebrei, ora ci si aspettava che Hitler occupasse la Cecoslovacchia. Non c’era tempo da perdere.

Nicholas Winton era arrivato a Praga quasi per caso, sarebbe dovuto partire per una località sciistica con l’amico che invece lo aveva trascinato nella capitale della Cecoslovacchia. “Che cosa sai dell’emergenza profughi?”. Ben poco, Nicholas ne sapeva ben poco. C’erano ventimila bambini a rischio, la maggior parte sotto i dodici anni. non c’era tempo da perdere. Bisognava preparare i documenti, ottenere i visti, organizzare le partenze- come avrebbero fatto a procurarsi un numero di treni sufficiente?

   

Doreen Warriner

Nicholas Winton si unisce al lavoro di altre due persone coraggiose, Doreen Warriner e Trevor Chadwick, in una lotta contro il tempo- adesso sappiamo che il tempo sarebbe scaduto il primo di settembre 1939, quando i nazisti avrebbero invaso la Polonia dando inizio alla seconda guerra mondiale.

    È come se ci fossero due filoni nel romanzo storico di Fabiano Massimi. Uno è prettamente storico e documentato, con i colloqui dei tre britannici per strappare visti e permessi dalle autorità e quelli- strazianti- con i genitori che affidano loro quanto hanno di più prezioso, i loro figli, con le difficoltà organizzative, la gestione degli affidamenti a famiglie inglesi disposte a prendere i bambini con sé e l’ansia fino al riscontro positivo di ogni trasporto.

    Il secondo filone è quasi fiabesco, ha l’andamento di una di quelle favole che fanno paura e non sono affatto adatte per i bambini, anche se i protagonisti sono dei bambini.

Monumento a Winton alla stazione di Praga

È il filone della bambina del sale, la bambina che vende sacchettini pieni del prezioso sale agli angoli delle strade, di notte, pronta a scomparire al primo pericolo, come fosse un elfo. E c’è un cattivo che le dà la caccia, un nazista che sembra un orco, un gigante malvagio, rispettando la consuetudine delle fiabe di attribuire sembianze di animali ai cattivi- dopo tutto anche Hitler era ‘der Wolf’, il Lupo, il soprannome che lui stesso si era dato fin dagli inizi degli anni ‘30.

Allora questa bambina con la mantellina bianca (il colore rosso è già più che sufficiente sulla bandiera con la croce uncinata) diventa il simbolo di tutti i bambini da strappare al lupo cattivo, quello che le succederà acquista il significato di quello che è successo a milioni di bambini.

Trevor Chadwick

     Leggere “Se esiste un perdono” a distanza di ben più di mezzo secolo da quegli avvenimenti ha su di noi un effetto strano. Ci riporta indietro nel tempo e nello stesso tempo ci parla del nostro tempo, come se la colonna di profughi non avesse mai smesso di snodarsi, anche se da una diversa provenienza, come se sempre, sempre, quello che si ha di più prezioso da mettere in salvo fossero i bambini, perché sono preziosi, sono il nostro futuro, le vittime innocenti della Storia.

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martedì 13 giugno 2023

Sonya Orfalian, “Alfabeto dei piccoli armeni” ed. 2023

                                Voci da mondi diversi. Diaspora armena

    genocidio armeno

Sonya Orfalian, “Alfabeto dei piccoli armeni”

Ed. Sellerio, pagg. 189, Euro 14,00

   Trentasei voci. Trentasei quante sono le lettere dell’alfabeto armeno, le voci dei bambini che hanno visto quello che nessun bambino dovrebbe vedere, che sono sopravvissuti al genocidio compiuto nei territori dell’Impero ottomano tra il 1915 e il 1922. Sonya Orfalian, nata in Libia da genitori armeni, ha ascoltato i racconti di quelli che al tempo erano bambini e che ora sono vecchi, o le storie tramandate oralmente ai loro discendenti, perché non cadano nell’oblio ammantate di silenzio. E riporta queste voci al tempo presente proiettandoci indietro, nei giorni, negli anni in cui ebbe luogo questa immane tragedia non ancora del tutto riconosciuta. Fu il primo genocidio del secolo XIX, anche se il termine ‘genocidio’ fu coniato da Raphael Lemkin dopo la seconda guerra mondiale e usato per la prima volta per parlare dello sterminio degli ebrei. Si invoca il ‘mai più’ e invece ne sarebbero seguiti altri, in una lista senza fine- il genocidio del Ruanda, quello in Cambogia, nei Balcani, l’Holomodor degli anni ’30 in Ucraina…


    Ho appena dieci anni e sono giorni che cammino a fatica tra corpi marci che il tifo ha conquistato. Siamo più di mille persone in cammino…

  Avevo una famiglia numerosa. Ora non ho più nessuno.

È la voce di Mariàm, la prima a parlare. I bambini non sanno perché vengono deportati e neppure perché ‘questi turchi assassini stanno distruggendo le nostre case’, tantomeno conoscono il motivo della violenza intorno a loro. Neppure io, quindi, farò riferimento alle cause del genocidio iniziato con i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 (il 24 aprile è il Giorno della Memoria del genocidio e forse dovremmo chiederci perché non sono molti quelli che lo sanno e perché non se ne parli nelle scuole). A Maràm segue Ovsannà (‘due uomini si sono accoltellati per un paio di scarpe di mio padre’, ‘non ho più né padre, né madre, né famiglia’), poi Eghsapèt (‘Siamo in mezzo al deserto, questo deserto si chiama Der Zor…Dove ci portano? Sembra di stare all’inferno), Nvart (‘Quei barbari prendono le ragazze. Le vedo gridare e scappare. Quelli ridono e le violentano davanti a tutti. Poi le uccidono senza pietà. Le sventrano. Tirano fuori le budella. E le lanciano ai cani’).


    Sono sempre uguali e sempre diversi, questi racconti. Parlano di famiglie felici sorprese in momenti diversi della giornata, buttate fuori dalle loro case, obbligate a camminare nel deserto verso una meta che era la morte. Parlano di genitori uccisi davanti ai figli, di neonati appesi agli alberi, di ragazze violentate, di cadaveri gettati nei pozzi, di fame, di chicchi di grano cercati tra gli escrementi dei cavalli, di qualche raro atto di generosità e di compassione, di desiderio di morte, di caldo e di freddo. Parlano di una marcia che aveva di per sé lo scopo di ammazzare quanta più gente possibile senza sprecare pallottole. Parlano dell’inferno. E da queste voci riusciamo a delineare il carattere di chi sta parlando, di chi si fa forza e di chi preferirebbe fermarsi e morire, di chi vede il nulla nel futuro e chi spera ancora.

    È un racconto corale che ci avvince, che ci stringe il cuore, che ci fa inorridire. Sono storie che raccogliamo per non dimenticare, storie che abbiamo il dovere di divulgare per non dimenticare, perché tanta sofferenza e tanto lutto non siano stati invano.

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sabato 10 giugno 2023

Holidays

 


Parto per una breve vacanza. 

Le recensioni sono già impaginate, dipenderà dalla connessione se riuscirò a metterle online.

David Diop, “La porta del non ritorno” ed. 2023

                                                Voci da mondi diversi. Francia

     biografia romanzata

David Diop, “La porta del non ritorno”

Ed. Neri Pozza, trad. Margherita Botto, pagg. 220, Euro 18,00

 

    Dapprima sua figlia Aglaé aveva pensato che quella parola che il padre ripeteva in punto di morte fosse’ mamma’, poi aveva capito che doveva essere un nome, ripetuto all’infinito, ‘Maram’. Era stata ‘Maram’ l’ultima parola pronunciata da suo padre, il botanico Michel Adanson.

    Michel Adanson aveva avuto un’unica grande ambizione, un unico grande scopo nella sua vita- che Orbe universel, il suo capolavoro enciclopedico, gli desse la gloria, lo innalzasse ai vertici della botanica. Aveva speso così la sua vita, descrivendo in tutti i dettagli piante, molluschi, animali di ogni specie. Aveva insegnato ad Aglaé, quando era ancora una bambina, a osservare la natura, a stare china su un fiore. E però questa sua passione-ossessione gli aveva fatto trascurare la famiglia. Sua moglie lo aveva lasciato, si era risposata. Ed è solo dopo la sua morte che Aglaé, accettando lo strano lascito del padre e aprendo per caso e per curiosità un cassettino segreto in un suo mobile, trova un diario con la storia della sua vita e riesce a conoscerlo veramente.

Michel Adanson

     È il 1750 quando inizia la storia segreta di Michel Adanson che noi leggiamo insieme ad Aglaé in questa sorta di diario. Una storia che ci porta in Senegal dove Michel, ventitre anni, si reca per studiarne la fauna e la flora. E impara la lingua wolof e la sua prima riflessione è che un viaggiatore europeo dovrebbe fare proprio come lui, se volesse conoscere davvero gli africani- impararne la lingua per stabilire un contatto, per capirli meglio.

Quello che fa Michel è un viaggio di scoperta, un viaggio di crescita, un viaggio che lo porta a riflettere quanti preconcetti abbiano i suoi connazionali che considerano gli africani come essere inferiori solo perché sono diversi. Sono inferiori solo perché non hanno eretto grandi edifici di pietra? Solo perché non hanno costruito transatlantici? L’errore è giudicarli in base a quello che noi conosciamo, in base a quello che noi riteniamo grande e un segno di cultura. Loro si sono espressi in altra maniera, hanno testimoniato altrimenti la grandezza delle loro imprese.


    “La porta del non ritorno” è un romanzo che, parlando degli albori della scienza botanica, è nello stesso tempo un romanzo di avventura e un romanzo d’amore, un amore insolito perché diverso, perché sfida le convenzioni, perché ha un finale drammatico. Ci sono altri due personaggi principali ad affiancare Michel Adanson, un ragazzino che diventa la sua guida e il suo amico (e il libro è anche il romanzo della sua formazione, in questo rapporto di scambio reciproco in cui è difficile dire chi impari di più dall’altro), e la bellissima Maram, la ragazza di cui Michel porterà con sé il ricordo fino alla morte.

   In realtà non succede nulla tra Michel e Maram.


La storia di lei è quella solita della ragazzina insidiata che fugge, che viene poi ritrovata proprio da Michel. La novità è proprio nella scoperta di una cultura che si nutre del fantastico e nell’animistico e nella problematica che si cela dietro questo amore e che spinge il protagonista a riflettere su discriminazione, razzismo, su quell’abominio che è la schiavitù e il vendere esseri umani come fossero bestie. Il peggio verrà dopo, quando tutto sarà finito (e non ci può essere che una fine tragica per questa storia), il peggio sarà convivere con sensi di colpa e infine cedere alla mentalità generalizzata, quasi che solo un effimero amore avesse potuto far dimenticare il comune senso commerciale prevalente.

    Sono passati secoli dal tempo in cui il romanzo è ambientato. Guardiamo con orrore alla tratta degli schiavi nel passato, ma siamo poi così sicuri che, con modalità diverse, non esista ancora?

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mercoledì 7 giugno 2023

Gilles Marchand, “Il soldato perduto” ed. 2023

                                             Voci da mondi diversi. Francia

                                              prima guerra mondiale


Gilles Marchand, “Il soldato perduto”

Ed. Neri Pozza, trad. Sonia Folin, pagg. 172, Euro 17,00

    Una storia d’amore. Una storia di guerra. Una storia d’amore e di guerra non può che essere tristissima e, tuttavia, può anche riempirci il cuore, se vogliamo credere che, dopo tutto, esiste l’amore per sempre.

    1925. Parigi. Il narratore ha appuntamento in un ristorante con la signora Jeanne Joplain. Gli avrebbe dato l’incarico di trovare suo figlio Emile disperso in guerra. Non aveva più sue notizie dal 1916. Lei, però, sapeva che lui era vivo e non si sarebbe arresa.

   Qualcosa sul narratore, prima. La sua guerra è stata breve. Aveva perso una mano quasi subito, nel 1914. Era ovvio che non poteva più combattere, ma poteva ancora rendersi utile, ovunque ci fosse bisogno di un invalido volonteroso nelle zone di guerra. Dopo la fine del conflitto si era occupato di ricerche per riabilitare i militari che erano stati fucilati “per l’esempio”.

    Qualcosa su Emile Joplain. Di famiglia altolocata, si era innamorato giovanissimo di Lucie Himmel, la ragazzina alsaziana che faceva la servetta presso sua nonna. “Bello come un principe e un poeta”, come lo descriverà in seguito Lucie a tutti quelli a cui chiedeva di lui.

   Qualcosa su Lucie Himmel che i genitori avevano mandato a servizio a quattordici anni, sperando in un futuro migliore per lei. La famiglia di Lucie era come quella di tanti altri in Alsazia- erano nati francesi, poi diventati tedeschi: a chi dovevano fedeltà? Chi era il loro nemico? D’altra parte i soldati francesi stessi si facevano la stessa domanda- perché combattevano per restituire l’Alsazia alla Francia? Lo volevano veramente, gli alsaziani?


    Era chiaro che l’amore tra Emile e Lucie era impossibile. Era chiaro che Madame Joplain si sarebbe opposta, che Lucie sarebbe stata rispedita a casa. Emile non si era dato per vinto. Poi era scoppiata la guerra.

    Inizia la ricerca del narratore che deve subito affrontare il silenzio di Madame Joplain riguardo a Lucie. Perché chiedere di lei? che c’entra Lucie? Quella è una vecchia storia. Non è vero che il figlio scriveva ogni giorno lettere a Lucie, era a lei che scriveva. È una ricerca che sembra il gioco del domino, passa da una testimonianza all’altra, da qualcuno che ha incontrato Emile in un posto e racconta un frammento della sua vicenda facendo il nome di un altro commilitone che lo ha conosciuto e che forse ne sa di più, a questo e poi ad un altro ancora e ancora ad un altro. E intanto un’altra figura emerge costantemente da queste storie e già il narratore ne aveva sentito parlare- quella della Figlia della Luna che di notte vagava nella ‘terra di nessuno’, avvicinandosi ai corpi dei soldati feriti o morti. Cercava il fidanzato bello come un principe, un poeta, sembrava passare indenne tra i proiettili nemici, i soldati moribondi pensavano di aver visto la Madonna.

    Che fine aveva fatto Emile? Era vivo ed era partito per il Canada o era morto? E che fine aveva fatto Lucie? Le ricerche durano più di quindici anni, durano fino a quando nessuno può più credere che la guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre sia servita a qualcosa, e la risposta alle domande arriva per caso, nel racconto epico di un fisarmonicista cieco che sembra essere un novello Omero.

memoriale di Vimy

    “Il soldato perduto” è un romanzo sull’insensatezza delle guerre, sul sacrificio immane e inutile di milioni di vite umane, sullo stravolgimento dell’esistenza e sull’inganno del patriottismo, di quel dulce et decorum est pro patria mori . E’ anche un romanzo sull’amore che rende forti, bisogna credere nell’amore- ecco, per amore si può anche donare la propria vita. E, come contrappunto alla storia di Emile e Lucie, c’è quella del narratore con Anna. Quanto tempo sprecato, quanto tempo non vissuto insieme, senza pensare che si deve cogliere il momento perché non si sa che cosa il destino abbia in serbo.

    Crudele e poetico, molto bello.

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domenica 4 giugno 2023

Eleanor Shearer, “Libero scorre il fiume” ed. 2023

                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda



Eleanor Shearer, “Libero scorre il fiume”

Ed. Nord, trad. A. Storti, pagg. 368, Euro 19,00

 

    Una manciata di isole nel mar dei Caraibi, al largo del Venezuela e della Guyana. Il paradiso dei turisti in cerca di mari cristallini, oggi. L’inferno degli schiavi nel 1834, quando inizia la vicenda di questo romanzo di Eleanor Shearer, scrittrice inglese i cui nonni sono emigrati dai Caraibi.

    La schiavitù è stata abolita. Sulla carta. Sostituita dai padroni delle piantagioni di canna da zucchero con l’obbligo di un apprendistato di sei anni. nulla è cambiato, dunque, di fatto.

    Venduto. Venduta. Fuggito. Sono queste le parole che ricorrono più spesso in questo romanzo che non ha la pretesa di essere un romanzo storico ma, seguendo le peripezie di Rachel, ci dice tanto sulla storia di queste isole. I figli di Rachel sono stati venduti, uno dopo l’altro, quando erano ancora bambini. Cinque di loro. E forse la sofferenza di vederseli strappare era stata ancora più grande di quella provata per i figli nati morti o morti poco dopo essere venuti al mondo. Quando Rachel apprende che è una falsa libertà quella che gli è stata data, decide di fuggire sfidando la sorte, perché sa benissimo quale punizione l’aspetta se la fuga fallisce, se viene riacciuffata. Ricorda l’uomo a cui hanno tagliato il naso, ricorda le frustate.


    Cinque figli, due maschi e tre bambine, ognuno una storia a sé, ognuno che ha accumulato umiliazioni e sofferenze. Uno di loro- il primogenito, il figlio del suo cuore- è morto da eroe. Di lui avrà notizie molto presto. Una delle bambine aveva perso la parola dopo un assalto subito dal padrone bianco, è dolce e gentile, accompagnerà la madre nella ricerca, dopo essere stata ritrovata, e troverà anche l’amore.

    Rachel è una donna indomita, non si arrende davanti a nulla, è una Madre Coraggio dei Caraibi, niente le sembra insormontabile, neppure abbandonare Barbados, dove era la sua piantagione, per andare a Georgetown, nella Guyana Britannica e poi nelle foreste di Trinidad, quando le giunge voce che qualcuno ha visto un suo figlio o una figlia laggiù. Sempre in fuga, sempre temendo di essere catturata dal supervisore e riportata a Barbados, incontrando ogni tanto persone generose (mai bianche) che l’aiutano. Dobbiamo sospendere l’incredulità, leggendo. Dobbiamo credere che la somiglianza fisica sia così marcata da far sì che degli estranei possano dare a Rachel indicazioni, che sia possibile cercare qualcuno citando solo il suo nome come se fosse l’unico ad averlo. Ma, dopo tutto, che altro potrebbe fare Rachel? C’è una buona dose di fortuna, c’è il caso, ci sono le coincidenze che operano a suo favore.


    La ricerca di Rachel- avventurosa, pericolosa e faticosa sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico per le memorie che risveglia e per la continua sensazione di perdita- non si conclude sempre felicemente. Perché il dolore non è soltanto quello che può dare la morte di un figlio, dolore è anche l’essere rinnegata per il colore della pelle, per essere stata una schiava. Quello che prevale, però, è l’inno alla libertà che può significare altre scelte di vita, ma è inarrestabile, come il fiume su cui Rachel e gli altri troveranno la salvezza, un fiume che acquista un significato simbolico, quasi in opposizione alla buia foresta e ai campi che forniscono lo zucchero per addolcire la vita dei bianchi a prezzo della vita degli schiavi neri.

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