venerdì 27 ottobre 2017

Mike Phillips, “L’ombra di me stesso” ed. 2006

                                   Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                      thriller
                                                                      love story
        il libro ritrovato

Mike Phillips, “L’ombra di me stesso”
Ed. Baldini Castoldi Dalai, trad. Silvia Fornasiero, pagg. 468, Euro 18,50

Amburgo, Praga, Berlino, anni 1998-1999. George Coker, figlio di padre ghaneano e di madre russa, è coinvolto in un traffico illecito di oggetti d’arte che gli mette la mafia russa alle calcagna. Durante il festival del cinema a Praga incontra il regista Joseph Coker, che ha scoperto casualmente essere suo fratello, figlio dello stesso padre, quel Kofi Coker che era stato a Mosca negli anni ‘50. I drammi familiari si intrecciano a quelli connessi al crollo del blocco dei paesi sovietici.

INTERVISTA A MIKE PHILLIPS, autore di “L’ombra di me stesso”

   E’ pieno di ombre il romanzo “L’ombra di me stesso” dello scrittore Mike Phillips, nato in Guyana ma residente a Londra fin dall’infanzia. Ombre di persone che sembrano sdoppiarsi, ombre di quello che si è stati e non si è più, ombre di minacciose figure politiche e di regimi che hanno plasmato gli individui di intere nazioni, e poi ancora ombre come oscurità nelle scene notturne in una Praga dal fascino pericolosamente ambiguo. “Il mio Doppelgänger”, dice George al fratello minore che gli assomiglia moltissimo, stessa pelle color ocra, stessa increspatura sul labbro. Anche se uno è in parte russo e si considera un tedesco perché è nato a Berlino e l’altro è per metà inglese.
Ma chi sono in realtà questi tre uomini, padre e due figli? “Un tempo ero un ghaneano”, dice il padre, Kofi. “Adesso ho un passaporto britannico. Ma quello che sono qui dentro…non lo so più.” Perché la ricerca dell’identità è uno dei temi di questo romanzo ricco e appassionante, identità personale e identità della coscienza politica dieci anni dopo la caduta del Muro- almeno per tutta la generazione che è stata piegata da forze a cui era impossibile resistere. E, parallelamente, c’è pure un’altra ricerca- del figlio che cerca il padre che non ha mai conosciuto e di cui ha sentito parlare come di un eroe, dell’altro figlio che invece ha sempre saputo chi fosse suo padre ma si rende conto di non conoscerlo affatto, e infine del padre che ritrova entrambi i figli e riconosce immediatamente, visceralmente, quello di cui ignorava l’esistenza e pensa alla parabola del figliol prodigo. Per sapere da dove sia partito Kofi- su una nave diretta a Liverpool dal Ghana-, che cosa lo abbia portato in Unione Sovietica- l’appoggio del futuro presidente Osagyefo che aveva incontrato in un pub- e infine della sua espulsione e del ritorno in Inghilterra, dobbiamo leggere le pagine del diario di Kofi che ci riporta al 1956, a Mosca.
“Quello che più ricordo è il vento…”, ma, insieme al vento, vengono fuori i ricordi dei compagni di corso e di alloggio, la sensazione di vivere costantemente sotto controllo, gli ideali e le delusioni, l’esaltazione di un incontro con Krushev e un viaggio nel Nord del gelo, fino a Kalinin. E naturalmente l’immagine di Katja, l’insegnante di russo di cui Kofi si innamora, la prima in una galleria di donne simili fisicamente l’una all’altra pur se di nazionalità diverse, aureolate da fini capelli biondi, lunarmente bianche vicino alla pelle scura dei tre Coker. Questo è un altro filone del romanzo, accanto all’intreccio dei rapporti familiari e a quello del thriller con esecuzioni e sequestri di persona che ricordano i metodi del KGB: “L’ombra di me stesso” è anche una storia di amore, grande perché contrastato, in un’epoca e in un paese in cui il Partito entrava anche in camera da letto. Solo a quarant’anni di distanza Kofi verrà a sapere da chi era venuta la delazione. Chi aveva frugato tra le sue carte, conoscendo l’inglese così bene da comprendere che il messaggio di Katja- una sola parola, “Abyssinia”, che si pronunciava come “I’ll be seeing you”- era la promessa di un incontro all’estero.  L’incontro c’è, a Berlino e non a Parigi, nel 1999 e non nel 1957. Non c’è più il paese in cui si sono conosciuti; quello che era impossibile e proibito- il loro amore, il libero commercio, l’impresa privata- adesso è permesso. C’è chi si è arricchito e chi è stato travolto, chi è stato ammazzato e chi non si è arreso. “Questo per me è un nuovo mondo. Voglio trasformarmi in modo da avere una vita di successo”, dice George alla fine, inoltrandosi in un’altra ricerca di se stesso e lasciando la moglie e il figlio al fratello, il suo Doppelgänger. Stilos ha intervistato Mike Phillips.


I tre personaggi principali del libro sono di colore e uno dei temi del romanzo è quello dell’estraneità, di sentirsi diverso: riflette la sua esperienza?
     Certamente, ma è più complesso. La mia esperienza ha a che fare con l’essere un immigrato in Gran Bretagna, ma la storia del libro è basata sulla storia di più di una persona che conosco. Mio fratello ha studiato in Russia e Polonia e mi ha raccontato dei suoi anni laggiù. A Londra conoscevo un uomo che negli anni ‘50 fu un agente politico dei comunisti e faceva avere borse di studio per Mosca ai giovani. Ho anche usato la storia di un mio amico che “scoprì” di avere un padre nigeriano e lo incontrò per la prima volta a 30 anni. Ma la parte centrale del libro è proprio su mio fratello maggiore che era venuto in Inghilterra con i nostri genitori- io ero stato lasciato con i nonni in Guyana e li ho raggiunti dopo- e poi è scomparso a 17 anni e non ha più dato notizie di sé. Io sono praticamente cresciuto in Inghilterra, ho frequentato lì le scuole; poi, da adulto, quando dirigevo un ostello per giovani senza casa, qualcuno mi ha suggerito di rivolgermi per consigli ad una persona che faceva lo stesso lavoro a Manchester. Ho telefonato, la persona aveva il mio stesso cognome e a un certo punto mi ha detto, “penso di essere tuo fratello”. Sono andato a trovarlo, non ci vedevamo da 20 anni. Una volta camminavamo per strada e lui si è fermato a parlare con un uomo in una lingua straniera- era polacco, e allora mi ha raccontato della sua esperienza in Russia e Polonia: tutte queste cose sono finite nel mio libro.

E la parte che riguarda Berlino?
   Quella è la mia esperienza: ero a Berlino quando è caduto il Muro e sono andato dall’altra parte per vedere come fosse. Quello che mi ha colpito nella Germania dell’Est e in Cecoslovacchia e in Russia è stato come gli edifici e l’atmosfera ricordassero quelli che avevo trovato al mio arrivo a Londra nel 1956- per inciso, ecco perché è una data importante nel libro. A dieci anni dalla fine della guerra c’erano ancora tante macerie, la gente sembrava scarna, si vedevano le conseguenze delle privazioni. Andare nell’Est dell’Europa mi ha fatto tornare indietro nel tempo. E, parlando con la gente, mi ha colpito come i sentimenti verso i paesi dell’Europa occidentale fossero simili a quelli che avvertivo nelle colonie, un miscuglio di risentimento e ammirazione. Mi pareva importante che, nonostante fossero stati governati da una filosofia che esaltava il materialismo, fossero così assetati di spiritualità. Avevano molto rispetto per il lavoro intellettuale, non c’ero abituato, ad Ovest è importante il successo e significa soldi. C’è tutto questo dietro a quello che cercavo di fare nel mio libro. Il punto è che la mia consapevolezza di essere straniero quando ero giovane fu un ingresso per entrare in esperienze diverse. E poi, a un certo punto, smisi di essere uno straniero e diventai un inglese.


Quando accadde?
     Sembra strano, ma lo so esattamente. Avevo 18 anni ed ero al mio primo viaggio di studio all’estero, a Parigi. Era tutto molto eccitante, ero in stanza con un ragazzo marocchino che continuava a rubarmi la coperta e abbiamo iniziato a litigare. C’era un gruppo di ragazzi di Londra e, quando hanno sentito il mio accento, hanno iniziato a parteggiare per me: ero uno dei loro.

L’ambientazione del romanzo è molto ampia, Amburgo, Berlino, Praga, Mosca. In parte ha già risposto, ma perché ha scelto proprio i paesi dell’Europa dell’Est per questa storia?
     E’ successo anche per caso. Ho sempre avuto un rapporto romantico con i paesi dell’Est; un film che ho amato molto è stato “Il terzo uomo”, immaginavo spesso di vivere in una scena del film. Aggiungiamo la suggestione dell’impero austro-ungarico…E poi ho avuto una fellowship dall’Arts Foundation e sono andato a Praga, sono rimasto affascinato da una frase, ‘la defenestrazione di Praga’ e ho scoperto cose interessanti. Da lì sono andato in Russia e ho sentito che dovevo scrivere di questi paesi. E forse non è popolare dirlo, ma c’è molto che mi intriga della Germania. Dopo la caduta del Muro sembrava che il confronto tra l’Occidente e l’Europa dell’Est includesse l’emigrazione, il colonialismo, cambiamenti nel sistema economico: mi interessava tutto questo.

Nel romanzo ci sono tre uomini di colore e tre, forse quattro, donne bionde: non è uno stereotipo, questa attrazione dell’uomo dalla pelle scura per la donna bionda?

    Ricorda “Cime tempestose”? come i colori della carnagione, degli occhi e dei capelli dei personaggi vengano a simbolizzare un confronto? Quando ho pensato alla prima relazione, quella tra Kofi e Katja, ho pensato alla storia di Kofi, al dramma fisico del colore della pelle e mi è sembrato che quelle diversità sarebbero state simboliche per un lettore, facili da vedere, e volevo continuare quel simbolismo fisico. Quando Kofi arriva dall’Africa, è l’Africa che confronta l’Europa. Poi la cosa si fa più complessa. Joseph e George sono figli di un nero e di una bianca. Sono scuri ma con questa mescolanza- sono visti come neri ma sono neri esattamente come sono bianchi. Per me intellettualmente voleva dire l’insignificanza di quelle categorie.

Kofi, Joseph e George, padre e figli: dei tre, Joseph è la figura più “d’ombra”, George, che ha fatto l’informatore della Stasi ed è ai margini o fuori della legge, è quello la cui vita è più piena di ombre, e Kofi è l’uomo che di sé dice di essere l’ombra di quello che era. Perché questo girare intorno al tema dell’ombra?
    E’ una domanda che mi coinvolge emotivamente e non so bene perché. Ho iniziato con l’idea dell’ombra, con il contenuto letterario del Doppelgänger che mi veniva dal “Compagno segreto” di Conrad: era il principio che teneva insieme tutto il libro.
Il senso che abbiamo tutti un doppio da qualche parte, l’idea platonica che l’amore è due metà che si ritrovano. Kofi e Katja si scoprono e si innamorano per quel processo misterioso per cui due magari non parlano la stessa lingua ma si innamorano. La seconda cosa è il senso di separazione e di perdita che si risolve quando incontri l’altra metà. Ho iniziato con la separazione da mio fratello, ci sono tante famiglie che vengono separate. E’ un libro su coppie divise a metà che cercano di riunirsi. Questa è la prima ombra: tutti sono un’ombra l’uno dell’altro e non potevano essere completi senza riunirsi. L’ombra è parte di te ma è una separazione. E poi un’altra cosa sull’ombra: Praga è un luogo d’ombre, con strade strette e pericolose. Questo luogo d’ombre è una metafora dell’identità politica e sociale della nostra società. Un’ultima osservazione: l’espressione “l’ombra di me stesso” implica degenerazione. Kofi diventa l’ombra di se stesso perché non può essere la persona che doveva essere- è una sua riflessione sulla sua esperienza di emigrante.       

Eppure il personaggio di Kofi appare più grande accanto ai figli, anche se non è un eroe. E’ perché, come dicono Katja e Radka che hanno vissuto in paesi comunisti, l’eroismo era quasi impossibile in quei tempi? E che si poteva solo cercare di fare del proprio meglio?
    Una delle critiche che sono state fatte al mio libro riguarda il relativismo del romanzo. Un critico tedesco si è sentito offeso dal fatto che lo spionaggio non venga condannato. La verità è che Kofi è eroico perché è il prodotto di tempi eroici. Viene da un tempo in cui il mondo è cambiato positivamente. E’ nato e cresciuto nel momento in cui l’intera Africa si scrollava di dosso il colonialismo, il mondo cambiava come non sarebbe più cambiato, come dopo la rivoluzione russa quando tutto sembrava possibile e pareva si potesse rimodellare l’umanità. Poi tutto è scomparso. Ma la gente prodotta da quel momento era di mente eroica. Il libro mostra la scomparsa dell’ottimismo, inizia con l’associazione di Kofi con Kenyatta e finisce con la rassegnazione. Ma serve per confrontarlo con le persone che vennero dopo, che accettarono dei compromessi che li diminuivano.

Valerij, l’uomo che tradì Kofi, che rovinò la vita di Kofi e Katja e salva il loro figlio alla fine, è in contrasto con il personaggio di Kofi: che cosa rappresenta Valerij?
     Valerij è la mafia russa, una parte del nostro mondo. Rappresenta una fase del capitalismo che si è mosso attraverso l’Europa cambiando la società. Valerij è amorale, usa il suo potere in maniera capricciosa, volevo metterlo in equilibrio con Kofi- avevano iniziato insieme con le stesse speranze nella Russia. Il cinismo di Valerij è associato al fatto che capisce. Sono due diverse maniere di trattare con la sconfitta. Kofi si rassegna e Valerij decide di essere potente.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos

                              

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