domenica 29 giugno 2014

Leonardo Padura Fuentes

                                              un autore
                                              Voci da mondi diversi. Cuba





Nato nel 1955 a L’Avana, Leonardo Padura Fuentes si è laureato alla facoltà di Letteratura Latino Americana dell’Università dell’Avana ed ha iniziato la sua carriera come giornalista. Ha scritto una serie di romanzi con il personaggio del tenente Mario Conde, disordinato, disincantato, spesso ubriaco, un poliziotto che avrebbe voluto fare lo scrittore. I libri con Mario Conde come protagonista lo hanno reso famoso, ma ancora più belli sono gli altri romanzi, “Il romanzo della mia vita” o “L’uomo che amava i cani”, in cui la Storia si mescola alla finzione letteraria.

                                                                                                                

Leonardo Padura Fuentes, Intervista a Cuba 2009

                                                         Voci da mondi diversi. Cuba
                                                          


INTERVISTA A LEONARDO PADURA FUENTES- Cuba, il Conde, Leonardo e Raul…

     Gennaio 2009- gli occhi del mondo sono fissi su Washington, in attesa dell’insediamento di Barack Obama. Yes, we can- sono le parole chiave del messaggio di questo presidente tanto carismatico quanto, in altri tempi, un giovane Fidel Castro. Sì, possiamo cambiare, tutti quanti. E, in occasione di un viaggio a Cuba, abbiamo incontrato lo scrittore Leonardo Padura Fuentes (autore della quadrilogia “Le quattro stagioni” che ha il tenente Conde per protagonista, nonché di “Addio Hemingway”, “Il romanzo della mia vita”, “La nebbia del passato”) e parlato con lui di cambiamenti- quelli traumatizzanti del passato, quelli sperati lo scorso anno quando Raùl Castro si sostituì al fratello, quelli fortemente attesi ora. E dei suoi romanzi, naturalmente.

La quadrilogia de “Le quattro stagioni” si svolge in un anno ben preciso, il 1989, l’anno della caduta del muro e dell’inizio del disgregamento dell’URSS. Una scelta con una precisa intenzione, quindi?
          No, non ci avevo pensato subito. Ho scritto “Passato remoto” collocandolo nell’anno in cui io stesso avevo il “mio” passato immediato. Quando ho deciso di trasformare questo romanzo nel primo di una qudrilogia, la mia prospettiva si è ampliata. Era un anno importante, quello della caduta del muro e dell’inizio della disgregazione del socialismo. Ma era anche l’anno della fucilazione del generale Ochoa e del gruppo dei narcotrafficanti a Cuba, il momento in cui la mia generazione ha incominciato a provare un disincanto nei confronti della storia che avevamo vissuto. Avevamo una nuova visione della realtà, molto disincantata: questa visione ha a che fare con il Conde e ho deciso di utilizzare il 1989 per i quattro romanzi. Il 1989 è dunque l’anno in cui si svolgono i quattro romanzi, ma lo spirito della storia avanza in questa decade che fu così traumatizzante per Cuba, ma che fu anche un momento di grande liberazione per gli scrittori. Per la prima volta noi scrittori sentimmo che eravamo liberi dai meccanismi di pubblicazione e di promozione dello stato cubano.

Mi sono chiesta se anche l’uragano Felix nell’ultimo romanzo della serie, “Paesaggio d’autunno”, abbia un valore metaforico, pensando a tutto quello che sarebbe seguito…

     Sì, assolutamente sì. E’ un uragano metaforico, l’uragano che aspettavamo. “Paesaggio d’autunno” è stato scritto nel ‘96-‘97 e stavamo aspettando un cambiamento nella società cubana. Lo aspettiamo ancora oggi. Come cittadino cubano mi domando se questi dodici anni non siano andati persi proprio a causa dei non-cambiamenti. Mi pare che la società cubana sia rimasta ferma o addirittura sia retrocessa perché non ci sono stati sufficienti cambiamenti economici. Oggi possiamo ancora sperare in un altro uragano che cambi le cose- oppure si tratta dello stesso uragano, visto che non è mai arrivato.

Parlando di metafore: il mare che ritorna così spesso nei romanzi, mare in cui si affonda, mare su cui si fugge…Ha un altro motivo per essere lì, il mare, oltre che quello puramente geografico? Che valore ha il mare?
      Il sentimento di vivere in un’isola è molto importante per i cubani: ha a che fare con la storia, con la società e l’economia di Cuba. La cultura cubana ha sempre avuto il mare come riferimento- anche se ci sono dei poeti che lo hanno considerato come una circostanza maledetta: il mare è la frontiera, il fine ma anche il principio e per questo ha tante valenze a Cuba. Al di là del mare c’è il mondo- buono o cattivo che sia- il mistero, le altre possibilità. Per questo è più di una realtà geografica. E’ un elemento culturale e poetico per i cubani.

E Miami, al di là del mare? Che cosa è Miami per i cubani? Un sogno, un mistero?

      Miami è sempre un gran mistero, un mistero attraente per i cubani dell’isola, e noi stessi abbiamo creato il mito di Miami. Molti cubani, appena arrivati là, non trovano ciò che avevano creato nella loro mente: Miami non è sempre il luogo della ricchezza e neppure quello della libertà, ma continua ad esserci un fantasticare mitico su Miami. D’altra parte Miami è la seconda città dove vivono più cubani: è una realtà con cui dobbiamo vivere- la metà della famiglia dei cubani sta a Miami; da Miami viene il denaro per aiutare chi è rimasto a Cuba. Non è solo un mito ma una realtà molto presente per i cubani.
  
I primi due romanzi della serie furono scritti nel 1991, l’ultimo nel 1998 e mi pare ci sia una maggiore reticenza nei primi due, minore libertà di parola, meno cenni espliciti alla vita quotidiana a Cuba. Era maggiore la censura?
      Sì, negli anni ‘90 ci fu un’apertura importante nella cultura cubana e questa apertura è stato un favore che ci ha fatto la crisi economica. Fino agli anni ‘80 tutta l’industria culturale era sostenuta dal governo cubano. A partire dagli anni ‘90 lo stato non ebbe più i soldi per l’industria culturale: chiudono le case editrici, le case produttrici di film, manca l’elettricità nei teatri, le gallerie d’arte chiudono, e questo ha a che vedere con la crisi- crea uno spazio tra i creatori e l’industria culturale dello stato ed è uno spazio di libertà. Molti artisti lasciano l’isola in una sorta di diaspora, ma molti di quelli che restano cercano editori fuori da Cuba: entriamo nel mercato dell’arte e questo aiuta a concretare lo spazio di libertà che si era creato. Significa che, se uno scrittore non ha un editore a Cuba, non viene neppure censurato a Cuba. Quindi le sue referenze sono gli editori a Barcellona, a Zurigo, in Italia…Io, per esempio, ho un agente in Spagna dal ‘95. Quello che si può pubblicare è più libero. I miei libri non furono mai censurati: se li avessi scritti negli anni ‘70 avrei avuto grandissimi problemi; negli anni ‘80 sarebbero stati censurati; negli anni ‘90 sono stati pubblicati e si sono aggiudicati dei premi.

Nei romanzi il Conde ritorna spesso a parlare della guerra in Angola in cui l’amico Carlos è stato gravemente ferito. In “Paesaggio d’Autunno” la guerra in Angola ritorna addirittura in un frammento di un presunto romanzo del Conde: vogliamo parlare di quella guerra?
      La guerra in Angola è durata dal 1976 al 1989 e la mia generazione ha partecipato a questa guerra- eravamo tra i venti e i trenta anni. Molti dei miei amici hanno partecipato, io sono andato come giornalista. Fu un’esperienza che segnò la mia generazione, non tanto per il numero dei morti, che non fu alto, ma perché fu l’unica guerra della mia generazione e niente segna più della guerra. Poi era in un paese lontano, straniero, con usi diversi e in cui si doveva restare per uno o due anni.

La partecipazione alla guerra era volontaria?
    Mah, relativamente, perché la volontarietà è complicata nelle società socialiste. Io utilizzo la guerra tramite Carlos: storicamente la guerra fu importante per la storia dell’Africa, perché si parte dall’Angola e si termina con la fine dell’Apartheid. A me interessa la piccola storia, quella delle persone che tornarono traumatizzate, come Carlos.

In “Maschere” ci sono due temi adombrati dietro il delitto: la persecuzione degli omosessuali e quella degli intellettuali. A distanza di vent’anni, è cambiata la situazione?
       La situazione è molto cambiata: oggi non esiste e non sarebbe neppure possibile che esistesse l’emarginazione degli artisti e degli omosessuali come negli anni ‘70. Negli ultimi due anni si è anche iniziato a discutere di questa storia: chi furono i responsabili, chi le vittime. Perché nella società cubana di oggi si è presa coscienza del fatto che fu un episodio nero nella storia politica, sociale e culturale della rivoluzione e che si tratta di qualcosa che non deve accadere di nuovo.


Noi ci siamo incontrati lo scorso anno, quando c’erano grandi speranze di novità con Raùl al governo al posto del fratello. Sono state soddisfatte quelle speranze? O i primi cenni di cambiamento si sono fermati?
      Pareva ci sarebbero stati più cambiamenti ma non è stato così. C’è stato però un elemento imprevisto: tre uragani che hanno avuto gravi conseguenze per l’economia. Il governo ha dovuto deviare degli aiuti decisivi per aiutare la situazione. Soprattutto gli uragani di agosto e settembre, i primi due, sono stati molto distruttivi. E poi è iniziata la crisi economica, è salito il prezzo del petrolio, quello degli alimenti…E tutti i cambiamenti economici che ci aspettavamo si sono fermati. Ora dovremo vedere se c’è volontà di fare veramente dei cambiamenti politici ed economici: anche la sopravvivenza del sistema dipende da questi cambiamenti.

Tutto il mondo ha gli occhi sugli USA in questo momento, ci si domanda se Obama toglierà l’embargo: se avvenisse, quali sarebbero i cambiamenti più significativi e immediati?
     La prima cosa sarà che verranno gli americani: turisti, accademici, visitatori. E tuttavia c’è la crisi in atto che potrebbe frenare il tutto. Questa presenza nord-americana obbligherà l’economia e la società a incontrarsi con una realtà diversa da quella conosciuta finora: l’industria del turismo, le relazioni tra le persone, ci sarà poi l’esigenza di infrastrutture…In parte ciò genererà un movimento economico, ma anche una contaminazione politica e ideologica. Però non dobbiamo averne paura, è necessario che avvenga e che le relazioni tra Cuba e stati Uniti si trasformino in relazioni normali.

Di recente la figlia di Fidel ha detto che l’antiamericanismo ha finito per giovare al governo del padre: pensa che abbia ragione?
     Non credo che a Cuba ci sia un sentimento antiamericano. Anzi, penso che a Cuba si ammiri molto il modello nord-americano. Oggi uno dei problemi sociali e culturali di Cuba è che le persone vedono la TV latina di Miami e ne fanno un punto di riferimento- ma sono spettacoli negativi. Non credo ci sia mai stato un antiamericanismo a Cuba; è esistito un sentimento politico- non culturale e non sociale- antimperialista, come può esserci in Italia o in Spagna. La differenza è che a Cuba è stato più utilizzato da parte del governo.

Quest’anno c’è stato il cinquantenario della rivoluzione: non ha avuto un grande rilievo sulla nostra stampa. Quali sono stati i sentimenti prevalenti qui a Cuba?


      Anche qui è stato festeggiato in sottotono, è come se la gente non avesse voglia di celebrare: i cubani sono stanchi, vorrebbero festeggiare altre possibilità. Alla gente non importano i cambiamenti politici ma quelli nella vita quotidiana, nelle loro possibilità economiche e sociali. Anche se la situazione non è cambiata per tanti anni, non c’è stata tutta questa allegria per celebrare, né da parte delle persone comuni né da parte del governo. Persino il discorso dell’8 gennaio, anniversario dell’entrata di Fidel all’Avana, lo ha fatto il presidente dell’Ecuador, Correa- molto strano…

Leonardo Padura Fuentes, "L'uomo che amava i cani" ed. 2010

                                                        Voci da mondi diversi. Cuba
  la Storia nel romanzo
  il libro ritrovato

Leonardo Padura Fuentes, “L’uomo che amava i cani”
Ed. Tropea, trad. Lorella Mogavero, pagg. 599, Euro 22,00

Titolo originale: El hombre que amaba a los perros


Abbiamo attraversato la vita nella più completa ignoranza dei tradimenti che, come quello della Spagna repubblicana e quello della Polonia invasa, erano stati commessi in nome di quello stesso socialismo. Non avevamo saputo niente delle repressioni e dei genocidi di popoli, etnie, interi partiti politici, delle persecuzioni mortali di dissenzienti e religiosi, della furia omicida dei campi di lavoro, dell’assassinio della legalità e dell’ingenuità prima, durante e dopo i processi di Mosca.


      La vittima. L’assassino. Uno scrittore. Sembrerebbero i protagonisti di un thriller, e, in un certo senso, lo sono. Un thriller reale, tuttavia, la cui trama si snoda nel bel romanzo storico di Leonardo Padura Fuentes, “L’uomo che amava i cani”, in cui un tocco di finzione narrativa si aggiunge ai fatti documentati.
La vittima si chiama Lev Davidovič Bronštein (più noto come Trotskij): il 20 agosto 1940 Trotskij fu ucciso con una piccozza da Ramón Mercader (che si era presentato a Trotskij con il nome di Jacques Mornard, alias Jacson, secondo l’identità che risultava sul suo passaporto). Un fatto di sangue così cruento, una vittima così famosa e assassinata con motivazioni così costruite, dei retroscena così ampi e spaventosi dovevano passare attraverso più di un filtro per poter essere raccontati: è così che Leonardo Padura Fuentes immagina che nel 1977, a Cuba dove Mercader passò gli ultimi quattro anni della sua vita, un giovane scrittore frustrato incontri sulla spiaggia un uomo accompagnato da due bellissimi levrieri russi. L’uomo è chiaramente ammalato, c’è sempre un nero che lo sorveglia a distanza, dopo alcuni incontri con chiacchiere d’occasione l’uomo racconta, a spizzichi e bocconi, la storia dell’assassinio di Trotskij.
Ramon Mercader
Negando, tuttavia, di essere Mercader: lo scrittore, Ivan, glielo ha chiesto esplicitamente, perché l’uomo che dice di chiamarsi Jaime López sembra sapere troppo di quanto è accaduto. López chiede anche ad Ivan di mantenere il segreto su quanto gli sta raccontando e ci vorranno più di vent’anni prima che Ivan venga a conoscere l’intera storia, prima che si renda conto di avere in mano il materiale- finalmente- per il libro che potrebbe renderlo famoso, prima che ci rinunci e passi la consegna ad un altro scrittore suo amico e muoia in una maniera altamente simbolica: è un materiale che scotta, tanto quanto la lama del coltello che Mercader/ Mornard/ Jacson/ López si era appoggiato sulla mano per cancellare la cicatrice a forma di semiluna lasciata dal morso di Trotskij in una vana difesa. Come se l’ustione avesse potuto cancellare i ricordi, mettere a tacere l’urlo spaventoso che l’assassino avrebbe sentito negli orecchi fino alla morte.
    “L’uomo che amava i cani” segue dunque questi tre filoni, ricostruendo tre vite: quella (molto documentata) di Trotskij, l’eroe della rivoluzione del 7 ottobre diventato inviso a Stalin che ormai procedeva eliminando tutti coloro che potessero anche solo offuscare la sua immagine, quella (per lo più oscura) di Mercader che, da giovane militante di sinistra nella guerra civile spagnola, viene reclutato come agente segreto dalla NKVD, e infine quella dello scrittore cubano senza ispirazione. I capitoli si alternano, portando sul palcoscenico i tre personaggi che hanno, tutti, una grande Storia alle spalle.
Trotskij, che seguiamo nel faticoso esilio, ospite rifiutato da paesi che non osano inimicarsi il “becchino del Cremino”, accolto con molte difficoltà da altri, in ansia perenne per i figli (che infatti non verranno risparmiati da Stalin), sorvegliato con misure di sicurezza sempre più opprimenti e limitanti.
Fino alla destinazione finale, il Messico, dove alloggia dapprima nella casa del grande artista Diego de Rivera (e ha un’incandescente relazione con la moglie, la pittrice Frida Kahlo) e poi in quella dove si dedicherà ad allevare conigli e coltivare cactus- e incontrerà la morte. Per mano di quel Mornard che gli sembrava improbabile come belga.
Mornard/ Mercader che è un personaggio per cui si è tentati di provare compassione (come avviene a Ivan), perché è anche lui una vittima. Vittima di un ideale in cui ha creduto, di un sistema che non si è fatto scrupolo di manipolarlo, cancellando la sua identità, educandolo alla cieca obbedienza. Vittima fino in fondo, perché è chiaro che deve essere eliminato, quando diventa un agente scomodo e ha fatto l’errore di non morire subito, dopo aver ucciso Trotskij.
Ivan, infine- citando Shakespeare, last but not least, l’ultimo ma non meno importante. Perchè la frustrazione del cubano Ivan non è solo quella dello scrittore che non ha mantenuto le promesse, ma è anche la frustrazione di chi ha creduto che il mondo potesse essere cambiato se si cercavano di attuare certi ideali, che le difficoltà del momento fossero un passaggio obbligato verso uno splendido futuro. Per accorgersi poi che era stato un imbroglio, che le verità erano state taciute, che si è buttata via la giovinezza: la Cuba di Ivan, in tono minore, con il vantaggio di un clima tinto di azzurro, è molto simile all’Unione Sovietica di Trotskij.
      Leonardo Padura Fuentes è noto al grande pubblico per la serie dei libri con il commissario Mario Conde (Ivan lo cita come un suo amico, strizzando l’occhio ai lettori), forse meno conosciuto come autore del bellissimo “Il romanzo della mia vita” (sul poeta cubano Heredia). “L’uomo che amava i cani” si inserisce nel genere di quest’ultimo. E’ un libro molto bello- direi quasi che è un libro necessario- che unisce realtà documentata, finzione narrativa, introspezione psicologica, con una trama che si fa sempre più incalzante e angosciante, per tutti i personaggi coinvolti. Un libro che dice di più di quello che esprime con le parole perchè comunica la sensazione della paura attanagliante a cui è impossibile sfuggire quando si vive in un regime totalitario.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it







Leonardo Padura Fuentes, "L'uomo cha amava i cani" Intervista 2010

                                                        Voci da mondi diversi. Cuba
                                                        la Storia nel romanzo
                                                        il libro ritrovato

              
Intervista a Leonardo Padura Fuentes, autore de "L'uomo che amava i cani"


Quando ho incontrato Leonardo Padura Fuentes a Milano, due anni fa, in occasione della pubblicazione del suo libro precedente, “La nebbia del passato”, lo scrittore stava già scrivendo “L’uomo che amava i cani”. Oggi ci parla dei suoi dubbi, di come fosse incerto sul risultato del libro che aveva in mente. Era il progetto letterario più ambizioso che si fosse mai posto: la difficoltà principale era che il fatto centrale del romanzo- l’assassinio di Trotskij- era noto ai lettori. Doveva quindi lavorare sulla struttura del libro, in modo che i lettori avessero l’impressione di stare scoprendo qualcosa che non conoscevano ancora. Sentiamo da lui di più su come è nato questo bel romanzo storico.

 Nel suo romanzo la curiosità di Iván, lo scrittore, è suscitata da Jaime Lopez che gli racconta la storia. Chi o che cosa è stato il suo Lopez?

     L’idea del libro è nata quando, nel 1989, visitai per la prima volta la casa di Trotskij a Coyoacán, un sobborgo di Città del Messico, dove viveva rifugiato e dove fu ucciso nell’agosto del 1940 da Ramón Mercader. Quel giorno ho provato una grandissima emozione e sono rimasto talmente commosso che ho deciso che dovevo raccontare quella storia. Se a tutto ciò si aggiunge anche che Mercader visse gli ultimi anni della sua vita a Cuba, morendo nel 1978 all’Avana, la mia città, può capire quanto fossi incuriosito e quanto fosse forte il mio desiderio di ricostruire e raccontare i fatti.

 Verso la fine affiorano sempre più spesso i due sentimenti opposti di Iván verso Mercader: disprezzo e compassione; ammirazione e pena. Perché compassione? Perché ammirazione? Perché non semplicemente orrore per un assassino?
    Credo che più che disprezzo e compassione, Iván provi la tentazione della compassione e che allo stesso tempo sia incapace di odiare, di provare semplicemente orrore nei confronti di un assassino.
Iván cerca di comprendere perché Ramón Mercader ha fatto quello che ha fatto per non tradire un’ideologia. Ha più l’esigenza di comprendere l’uomo che il desiderio di odiarlo o compatirlo.

Quando Iván parla di suo fratello William messo al bando perché omosessuale e parla di Cuba negli anni Settanta, a volte sembra parlare quasi dell’Unione Sovietica. Racconta la storia della Russia di Stalin per raccontare anche, in tono minore, quella di Cuba?
     In un certo senso sì. Il sistema, anche se è stato abbastanza diverso nei metodi, era simile nella sua essenza. Anche se bisogna riconoscere che a Cuba non si sono mai consumati gli orrori avvenuti in Unione Sovietica. C’è stato un periodo, è vero, in cui la repressione fu più pesante, un periodo durante il quale furono emarginate alcune persone, ma niente di paragonabile a ciò che avvenne nell’Unione Sovietica di Stalin.

 Da un certo punto in poi nel libro si avverte una sorta di nostalgia che già scorreva nei libri del Conde. È come se ci fosse un’elegia funebre per la fine dell’Utopia. “L’Utopia”, con la U maiuscola e l’articolo determinativo. Quella di una società di uguali è stata l’unica grande utopia del Ventesimo secolo?
    Sì, senza dubbio, l’utopia socialista è stata la grande utopia del Ventesimo secolo. Creare una società in cui tutti gli uomini avessero gli stessi diritti e le medesime possibilità.
E ancora sì, è vero, percepisco la nostalgia della grande utopia. La società contemporanea sta vivendo un’epoca di perdita di senso, di progetto. La caduta del muro di Berlino ha rappresentato la vittoria del capitalismo, ma è divenuta ben presto il trionfo del peggior capitalismo. Ciò che sta avvenendo oggi a livello internazionale, con la crisi, la perdita di lavoro e di valori, ci obbliga a riflettere sulla necessità di una nuova utopia.

Che cosa ha significato per lei scrivere di Trotskij e perché ha deciso di farlo?

     È stata quasi una necessità, un bisogno che sentivo, perché Trotskij fu il primo grande critico dello stalinismo. Ha avuto immediatamente la percezione di come Stalin e la burocrazia stalinista stavano pervertendo il sistema. E fu il primo a sottolineare elementi che in seguito vennero confermati come la cooperazione de facto tra Stalin e Hitler: l’ascesa del fascismo tedesco, del nazismo, avrebbe potuto essere bloccata per mezzo di una politica diversa dei partiti socialisti e comunisti di Germania, ma Stalin non lo permise. La conferma definitiva fu il patto Molotov-Ribbentrop.

Un’ultima domanda, di cronaca. Qual è il legame di parentela tra Maria Mercader e Ramón Mercader?

     Maria Mercader, attrice spagnola e moglie di Vittorio De Sica, ha sostenuto in più di un’occasione di essere la sorella di Ramón, ma le cose non stanno così e lei è effettivamente solo sua cugina.

l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it




Leonardo Padura Fuentes, musica per "La nebbia del passato"- Bola de Nieve- "Vete de mí"



                                           Voci da mondi diversi. Cuba
                                            musica per un libro

Il suo vero nome era Ignacio Jacinto Villa Fernandez ma a Cuba era conosciuto come Bola de Nieve. E' questa la canzone leit motiv del romanzo "La nebbia del passato" di Leonardo Padura Fuentes.

                                                   

Leonardo Padura Fuentes, "La nebbia del passato" Intervista 2008

                                               Voci da mondi diversi. Cuba
                                                cento sfumature di giallo
                                                il libro ritrovato


Intervista a Leonardo Padura Fuentes, autore de "La nebbia del passato"

E’ un vecchio ‘amico’, Leonardo Padura Fuentes, lo scrittore nato all’Avana nel 1955. E’ sempre un piacere incontrarlo ogni volta che viene pubblicato un suo romanzo in Italia, perché nessuno come lui è capace di guardare la realtà del suo paese con occhio attento, da innamorato disincantato che tuttavia non perde la fede nel suo amore. Abbiamo parlato con lui del suo ultimo libro, “La nebbia del passato”, e dei cambiamenti che stanno avvenendo a Cuba.

Il Conde si sente “incommensurabilmente” triste: è sua, di lei Leonardo Padura Fuentes, la tristezza del Conde?
     Sì e no. Fin dal primo romanzo Conde è sempre stato l’occhio che ho usato per vedere la realtà cubana, e i sentimenti, la maniera di intendere la realtà cubana del Conde hanno molto a che fare con me, anche se Conde non è il mio alter ego: Conde non sono io. Credo che una delle caratteristiche del personaggio- e anche uno dei motivi per cui ha funzionato in quanto personaggio letterario- sia stata che sono riuscito a dargli un suo carattere. Una delle componenti del suo carattere è la melanconia, la tristezza che sempre lo accompagna. In questo romanzo Conde è vicino ai 50 anni, ha passato la tappa della crisi più dura a Cuba e si sente triste perché sa che il presente e il futuro possono essere molto scuri. Anche io ho questa sensazione, e tuttavia devo riconoscere che, tra il 2005 e oggi,  qualcosa è cambiato e ho un poco di speranza che alcune cose possano essere diverse, soprattutto per il bene di persone come Conde e i suoi amici. Adesso sono più ottimista, mi pare che a Cuba ci sia una visione più realista dell’economia e della società e che quindi in futuro le cosa possano migliorare.

Mi sembra ci sia un altro riferimento autobiografico: il Conde dice di essere un fantasma del passato: è la sua generazione, Padura Fuentes, che è fatta di fantasmi del passato?
    La mia generazione è quella che è cresciuta dentro la rivoluzione e il nostro passato e il nostro presente hanno seguito lo sviluppo della rivoluzione. Siamo cresciuti con la fiducia nel futuro e, come capita a Conde, quando siamo arrivati al momento in cui doveva iniziare il futuro- quando avevamo trenta, quaranta anni- tutto è crollato. Quello fu il momento in cui potemmo capire la realtà di Cuba e di quello che era stato il socialismo in Europa.
E ci sentimmo delusi. Questo sentimento ci ha lasciato con una mistica del passato, una visione romantica del passato, e anche con la certezza che tutto quello che avevamo fatto e creduto alla fine si era trasformato in nulla. Fu come se ci togliessero la terra da sotto i piedi. Ed è da questo che deriva la nostra sensazione di non esistere, di essere dei fantasmi, e che sempre abbiamo dovuto iniziare di nuovo, ma ogni volta eravamo un poco più vecchi e con più cicatrici.

Sempre pensando a Lei come scrittore, ci fa sorridere quello che dice il Conde, la raccomandazione di non conoscere mai di persona uno scrittore, se ti è piaciuto il suo libro. Perché?
     Gli scrittori sono due cose: una persona che scrive e una persona che vive per scrivere. Quello che scrive ha la possibilità di produrre piacere, se è un bravo scrittore, ma la persona che vive per scrivere è qualcuno che soffre in questo processo di creazione, che ha i problemi dell’essere umano, che a volte è spiacevole come persona. Può essere vanitoso, oppure può essere una persona eccellente, ma credo che, se lo conosciamo nel libro e ci piace, non è necessario conoscere la persona che sta dietro il libro, e ci sono molti scrittori che sono impresentabili. E ha a che vedere con il lavoro dello scrittore, perché scrivere è un lavoro che- almeno per me è così- è molto stancante, perché in genere si deve tirare fuori il peggio che si ha dentro per poter scrivere. Questo sguardo a volte sordido sulla realtà, questo mettersi all’interno di un personaggio e tirare fuori il peggio- questo è qualcosa che influenza uno come persona. Per questo direi che, se il libro è bello, è meglio accontentarsi del libro senza voler conoscere lo scrittore. E anche se il libro non è bello, è meglio così.

“La nebbia del passato”- sono le parole del bolero per la storia d’amore, ma possiamo anche intenderle come un riferimento alla nebbia di un passato storico?
    Sì, anche. Questa canzone mi perseguitava da molti anni e originalmente era un tango argentino, ma c’è una versione di un cantante cubano che lo ha trasformato in un bolero. Il nome di questo cantante era Bola de Nieve- era un uomo molto nero che diceva che lui non cantava ma che aveva la voce di un uomo che diceva una canzone. Aveva una maniera così drammatica di cantare che mi pareva stesse raccontando una storia che gli era capitata. Da qui è venuto il romanzo.
Quando ho deciso di scriverlo, ho sentito che il passato è parte di questa storia e questo passato non è quello di cui parlavo prima, ma un passato molto oscuro per noi, avvolto nella nebbia. E tuttavia è un passato molto attraente, quello dell’epoca dello splendore dell’Avana, delle notti dell’Avana. E il romanzo vuole essere uno sguardo su due mondi, sul passato e il presente che capitano nello stesso luogo e non si riconoscono quasi. Le rivoluzioni cambiano le società e tra l’immagine di un passato e quella del presente fluttua una nebbia in cui le figure non si vedono chiaramente.

E tuttavia non è forse un processo inarrestabile, quello per cui tutto il passato è avvolto nella nebbia? perché anche Alcides Montes e la sua biblioteca sono avvolti dalla nebbia del passato…
     C’è come la ricerca del principio di tutto, e la storia di Cuba è connessa con la sua cultura. Cuba è stata una nazione prima di essere un paese. Cuba riesce ad essere un paese solo nel 1902 ed è una nazione dal principio dell’800. Eravamo cubani ma continuavamo ad appartenere all’impero spagnolo. Quello che segnò la differenza tra un creolo e un peninsulare- come venivano chiamati gli spagnoli- fu la cultura; uno degli elementi più importanti fu questa grande bibliografia del secolo XIX cubano. Questa ricchezza culturale si creò a Cuba grazie alla ricchezza economica: allora era una parte molto ricca della Spagna. La coscienza del cubano incomincia qui. Intanto questa ricerca del passato significa sempre incontrare le ragioni del presente. Quando Conde guarda l’Avana e pensa che non è la sua città, che si sente un estraneo, è perché si stanno rompendo dei valori storici che furono quelli che diedero la continuità all’identità cubana. E Conde si oppone, a modo suo, a questa rottura e cerca di recuperare questa identità che sta andando in frantumi. Come lo fa? Decide che ci sono dei libri che non si possono vendere: è un modo romantico, allucinato, ma è il suo.

C’è una cantante, ci sono tante cantanti dietro Violeta del Rìo?
     Violeta è il riassunto di molte cantanti: l’Avana degli anni ‘50 era la città della musica.. Credo che mai, in nessuna città del mondo, ci sia stata tanta musica come laggiù negli anni ‘50 e questa era un’epoca molto complicata a Cuba: c’era la lotta rivoluzionaria e una repressione, c’erano sabotaggi rivoluzionari e molta tensione. Ma si continuava a sentire musica: Ho sempre visto rappresentato questo spirito della musica in queste donne che cantavano, donne che erano come la rappresentazione dei sogni nella realtà. Violeta è la sintesi di questo ambiente. Ma è anche il sogno, o è come un angelo, perché Violeta è vista solo attraverso i ricordi degli altri. Quello che è rimasto di lei è questo mistero, la parte angelica di lei. Non credo che una Violeta reale potesse essere questa persona così perfetta, ma è quello che è rimasto di lei attraverso gli occhi di chi l’ha conosciuta: Violeta è il sogno del passato.

E c’è una vera biblioteca dietro quella biblioteca straordinaria del romanzo, il sogno di ogni bibliofilo?

    In Cuba ci furono grandi biblioteche private, perché la vecchia borghesia cubana dell’800 era una borghesia molto colta. Quasi tutti i membri avevano studiato in università europee e portavano questa cultura a Cuba. Cuba era un paese molto europeo e per questo fu a fatica che la cultura americana contaminò la forma di vita cubana. Persino il baseball si affermò a Cuba perché era una forma di reazione contro la Spagna. Queste biblioteche, come i palazzi dell’Avana, i teatri e le collezioni d’arte, sono la sintesi di questa necessità di consumare culture, di essere vicino alle culture. A Cuba cantarono tutti i grandi cantanti d’opera, ballarono le grandi ballerine, per Cuba passarono i poeti spagnoli del ‘27 e questa densità culturale ci fu solo in tre paesi dell’America latina: Cuba, Messico e Argentina. E le biblioteche come quella del libro sono reali, anche se sono a poco a  poco scomparse.

Leggiamo degli inizi di un’epoca di cambiamenti a Cuba: c’è molto entusiasmo, c’è molta attesa di novità con il governo di Raul? E che cosa prova la gente, adesso, per Fidel?
     La gente ha speranza, si è visto che si possono operare dei cambiamenti che anche prima erano possibili e non si erano fatti perché una persona aveva deciso di no. Fidel fu il romantico e oggi Raul sembra essere il pragmatico, e Cuba aveva bisogno di pragmatismo. Credo che siano solo i primi cambiamenti, di tipo, per così dire, cosmetico, cambiamenti primari.
Raul Castro
Ma se produrranno cambiamenti nell’economia- perché Cuba era arrivata al punto che era un paese che NON produceva, che viveva solo del turismo e dei tecnici e dei medici che mandava all’estero. Il governo dice che si sta cercando di far produrre il paese come nel passato che vediamo attraverso la nebbia- quando Cuba produceva zucchero, carne, tabacco. Questo processo avviene in un mondo diverso che vive un momento di crisi i cui risultati potrebbero essere fatali per il mondo in senso economico, politico ed ecologico. E Cuba ha bisogno di riadeguarsi per appartenere a questo mondo e poter sopravvivere. Fidel è un uomo dell’utopia del secolo XX e Cuba in questo momento necessita l’uomo pragmatico del secolo XXI.

E che cosa si dice di Fidel, adesso che non è più in carica?
     Non si parla di Fidel e già questo è significativo. Mi pare che Fidel sia nella nebbia del passato e la gente vuole guardare al futuro. La propaganda ufficiale continua a pubblicare libri su Fidel, ma in realtà la gente non ne parla. La gente parla solo di quello che può fare Raul, di quello che sta facendo Raul. La gente ha bisogno di guardare il futuro. C’è una stanchezza storica, come dice il Conde. Vogliamo essere normali e non storici.

Chissà che cosa pensa il Conde del nuovo governo: tornerà presto in un romanzo a farcelo sapere? Aspetta per vedere che cosa succede?

  Spero di iniziare l’anno prossimo a scrivere un nuovo romanzo con Conde, perché ora sto cercando di terminare un romanzo in cui non c’è lui come protagonista, un romanzo che ha a che fare con tutto questo, un libro sull’utopia e sulla morte dell’utopia. I suoi personaggi sono Trotskji, il suo assassino Mercader e un giovane scrittore cubano. Ci sono riflessioni sul perché si ruppe l’utopia del secolo XX, perché la società degli uguali fu un fallimento e perché scomparve il comunismo. E sì, Conde aspetta di vedere che cosa succede…  

l'intervista è stata pubblicata su www.stradanove.net


Leonardo Padura Fuentes, "La nebbia del passato" ed. 2008

Voci da mondi diversi. Cuba
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato


Leonardo Padura Fuentes, “La nebbia del passato”
Ed. Tropea, trad. Elena Rolla, pagg. 347, Euro 16,90


   “Sarò nella tua vita il meglio della nebbia del passato”, dicono le parole del bolero che ricorre come leit motiv nell’ultimo romanzo dello scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes. E fin dall’inizio il lettore avverte che il passato di cui si parla, il tempo avvolto dalla nebbia che attenua i contorni e che sfuma le asperità, non è soltanto quello della voce che canta, non è riferito solo ad una storia d’amore finita tra un uomo e una donna, ma è il mezzo secolo che Cuba ha alle spalle, quello della storia d’amore tra l’isola e il suo lìder màximo, del sogno utopistico che “è stato bello finché è durato”. E allora, con lo sguardo tra presente e passato, Mario Conde (già protagonista di una serie di romanzi di Leonardo Padura Fuentes) prova una tristezza infinita, si sente come “un fantasma del passato”, un esemplare in via di estinzione, una sorta di “fallimento genetico” disorientato tra un mondo che non c’è più e uno in decomposizione.         

     La traccia superficiale de “La nebbia del passato” è tuttavia quella solita dell’indagine poliziesca, anche se Mario Conde non è più poliziotto da tredici anni e adesso si dedica al commercio di libri vecchi: per caso trova in un libro un ritaglio di giornale del 1960 con la notizia del suicidio  della cantante di bolero Violeta del Rio. Perché questa notizia colpisce tanto il Conde? Quali sono i ricordi che non riesce a far affiorare e che si collegano a quel nome? Di una cosa Mario Conde è certo: deve sapere chi era Violeta del Rio e che fine ha fatto, solo così saprà perché è importante per lui. Ma il ritaglio che parla della morte di Violeta è uscito dalle pagine di un libro di ricette che il Conde ha trovato nella biblioteca dei Montes de Oca, un’antica famiglia habanera, ora messa in vendita dai due figli di una dipendente.
Alcides Montes de Oca aveva simpatizzato con la Rivoluzione, nel 1960 era fuggito al Nord, era morto in un incidente d’auto e i suoi figli non si erano mai ripresentati a reclamare né la casa, né i libri accumulati in più di un secolo dai loro antenati. Perché quella dei Montes de Oca è la biblioteca più straordinaria che il Conde abbia mai visto, colma di volumi a cui lui si avvicina con riverenza e che- contro il suo interesse, contro la venale avidità del suo socio Yoyi- consiglia di tenere o, al massimo, vendere alla Biblioteca Nazionale perché fanno parte del patrimonio culturale di tutto il popolo cubano e non devono finire all’estero. Mario Conde sa bene, con la pratica che il mestiere gli ha dato, che ogni biblioteca in vendita è un romanzo d’amore dal finale triste, ma non immagina quanto triste, quanto tragico, quanto delittuoso, quanto lo tocchi anche da vicino, quello che si nasconde –letteralmente- sugli scaffali di legno pregiato, dietro le ante delle vetrine. E, mentre il racconto procede, le voci narranti si moltiplicano: sono testimoni di una parte di storia, sia essa grande o piccola, rintracciati dal Conde, o sfogo d’amore di una donna in una serie di lettere. Si firma con il nome che l’amante le ha dato, soffre per la lontananza di lui, parla di colpe a lei attribuite e alla fine rivela la verità che ha scoperto. E’ la stessa verità che scopre Mario Conde, dopo che uno dei due custodi della biblioteca viene ucciso e dopo che lui stesso è stato duramente malmenato.


    Come sempre più spesso avviene in questo tipo di romanzi, Leonardo Padura Fuentes si spinge al di là del genere: oltre ad essere colmo di suspense, “La nebbia del passato” è un viaggio nostalgico nella Cuba degli anni ‘50, quando L’Avana era la città più viva del mondo e la musica nell’aria “si poteva tagliare con un coltello”, un banchetto per bibliofili con un assaggio culturale di un’isola ridotta a vendere libri per fame, quadro realistico della società cubana contemporanea ammalata di “stanchezza storica”. Perché i giovani non vogliono più avere la responsabilità di vivere un momento storico, non vogliono essere costretti ad essere migliori, ad essere buoni per forza.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


Leonardo Padura Fuentes, "Il romanzo della mia vita" ed. 2005

                                                        Voci da mondi diversi. Cuba
                                                        la Storia nel romanzo


Recensione e intervista a Leonardo Padura Fuentes, autore de "Il romanzo della mia vita"

Se la letteratura è la memoria di un paese, come dice un personaggio de “Il romanzo della mia vita” di Leonardo Padura Fuentes (Ed. Tropea, pagg. 374, Euro 17,50) , è la memoria della Cuba dell’800 che questo libro ci restituisce,  ancora sotto il dominio spagnolo ma già percorsa dallo stesso anelito d’indipendenza che serpeggiava in America e in Europa, con poche famiglie dalle enormi ricchezze accumulate con il traffico degli schiavi. Due i filoni della trama, che scorrono parallelamente, su quattro livelli temporali. La storia del presente, che introduce quella del passato, riguarda lo studioso e poeta Ferdinando Terry, richiamato a Cuba dall’esilio dalla lettera di un amico che gli annuncia che, forse, è stato rintracciato il manoscritto dell’ultimo romanzo autobiografico di José Maria Heredia, il grande poeta dell’800 su cui Ferdinando ha scritto la tesi che gli ha fatto ottenere la cattedra universitaria. Ed è così che prendono avvio le due storie, quella di Ferdinando alla ricerca del libro scomparso, narrata in terza persona con dei flashback sul suo passato, e quella in prima persona, ed è “Il romanzo della mia vita” di José Maria Heredia: la storia del giovane poeta genio, nato nel 1803 e morto di tisi nel 1838, con dei flash forward, delle anticipazioni, di nuovo in terza persona, sulle sorti della sua autobiografia, affidata da suo figlio ai massoni, sotto giuramento che non sarebbe stata pubblicata prima che fossero passati  cento anni dalla morte del poeta.
Le vicende del poeta famoso servono da specchio per quelle dello scrittore moderno, tanto sono simili le une alle altre- gli amici, l’amore, la mancanza di libertà, l’arresto, l’esilio, il ritorno in patria per poi doversene allontanare un’altra volta. E, centrale in entrambe le storie, la nostalgia struggente dell’esule, la paura di aver perso l’ispirazione insieme alla lingua e alla patria, e il tema del tradimento, con il desiderio di scoprire chi è stato a denunciarli e nello stesso tempo il timore di venire a sapere che è stato qualcuno che si è amato. Un romanzo  complesso e profondo, perfettamente costruito, che riesce a gettare un ponte tra passato e presente, tra l’atmosfera politica e letteraria della Cuba monarchica, classista e razzista dell’800, e quella tormentata e discussa, tra entusiasmi e delusioni, della Cuba di oggi. Stilos ha intervistato lo scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes.


Un personaggio del suo romanzo dice che si può sentire la necessità di scrivere un romanzo sull’800 per distanziarsi dalla realtà, per essere più libero: è per questo che lei ha scelto di scrivere un romanzo sul poeta Heredia?
      Sì, un personaggio del libro afferma che la distanza dalla materia trattata può servire come spazio di libertà e, tuttavia, a volte il romanzo smentisce questa affermazione, perché in parte si parla dell’800 cubano e in parte si parla della realtà contemporanea, e quando si parla dell’800 è come se la realtà contemporanea si ripetesse un’altra volta. Credo che questo personaggio esprima la possibilità di non compromettersi muovendosi nel passato, e questo può essere un modo intelligente di ingannare la censura. Ma, nel momento stesso che si formula questa idea, nel romanzo si fa una critica del presente e della censura del presente.

La censura: c’è tuttora a Cuba l’autocensura di cui parla Heredia nell’800?
     Credo che tutti gli scrittori del mondo soffrano in qualche modo più o meno evidente di autocensura, anche se non sempre è politica- forse quella politica si vede e si sente di più. Uno scrittore italiano può autocensurarsi, forse, per quello che riguarda il tema religioso, o uno scrittore nordamericano può autocensurarsi riferendosi al tema razziale. Gli scrittori sanno che ci sono determinati limiti che è meglio non trasgredire perché il risultato sarebbe sfavorevole per la sua opera, per la sua persona, per il suo prestigio. Nel caso cubano si opera un’autocensura riguardo al tema religioso, a quello razziale o a quello sessuale. Oggi in Cuba sarebbe di cattivo gusto riferirsi in maniera aperta all’omosessualità, però l’essenza dell’autocensura a Cuba è politica e noi scrittori  cerchiamo di mantenerci su una linea di equilibrio per non cadere negli eccessi che finirebbero per trasformare la nostra opera in un libello politico a favore o contro il regime. Io preferisco che la politica stia nel subtesto più che nel testo della storia, nonostante che questo romanzo sia un romanzo essenzialmente politico.

Fernando Terry, lo scrittore moderno che è l’altro personaggio importante del romanzo, vede la sua vita riflessa in quella del poeta Heredia: che cosa c’è di lei in Fernando Terry?
     Molto, c’è molto perché abbiamo vissuto lo stesso periodo storico di Cuba, abbiamo sofferto entrambi alcuni colpi della censura e alcune repressioni, e siamo entrambi scrittori. La storia personale di Fernando, invece, non coincide con la mia anche se avrebbe potuto coincidere. Se negli anni universitari, per qualcuna delle molte ragioni allora sufficienti per emarginare uno studente, mi fosse successo qualcosa di simile a quello che accadde a Fernando Terry, forse sarei finito in esilio come lui e mi sarei riempito di rancore, di nostalgia, di dolore per la distanza e per la perdita del mondo a cui appartengo. Per questo la caratteristica principale di Fernando non è che sia un intellettuale e uno scrittore, ma che sia un esiliato: questo è il grande dramma della sua vita.
Personalmente sono molto sensibile a quello che ha significato l’esilio per due milioni di cubani negli ultimi 50 anni, perché due milioni sono un quinto della popolazione di Cuba  e credo che l’Italia possa capire molto bene che cosa significhi andarsene via lasciando i propri costumi, gli amici, la religione, perché gli italiani o i cubani, anche quando hanno avuto successo all’estero, si sono portati dentro una ferita: noi apparteniamo a una cultura in cui la vicinanza ai costumi è molto forte e ogni allontanamento è un esilio forzato.

L’angoscia dell’esilio, nei personaggi del romanzo, è pari a quella di perdere l’ispirazione: perdere l’ispirazione, perdere la patria, significa perdere la propria identità?
      Ogni scrittore è un mondo a sé stante, per alcuni la lontananza è una benedizione, li aiuta a veder meglio il loro mondo, per altri significa la perdita della capacità di creazione perché, come nel mio caso, ho bisogno dell’ambiente, della lingua, della forma di vita che hanno a che fare con la mia cultura e la mia identità. E credo che la parola che lei usa, “angoscia”, sia quella più adeguata. Sento l’esilio come angoscia e ho percepito la stessa cosa per molti cubani, anche quando migliorano le condizioni politiche, economiche e sociali. E’ per questo senso di mancanza, che è come una malattia, che alcuni, come Fernando Terry, decidono di tagliare radicalmente con tutti i legami e cercano di iniziare una nuova vita, ma in realtà l’esilio è un’angoscia.

Il tema della schiavitù: si vuole parlare anche di un’altra schiavitù in questo romanzo?
     Forse questa è una cosa che è affiorata dal mio subconscio, alludendo ad altre schiavitù di tipo intellettuale, ma vivere sotto un regime tirannico non è certo paragonabile alla schiavitù dei neri. Il problema è che, in un paese in cui la schiavitù fu un’istituzione attiva fino al 1880, questo è un tema di alta sensibilità, perché la schiavitù nera a Cuba fu molto crudele e fu uno dei fattori che ne decisero la storia. Le conseguenze della schiavitù furono duplici, da una parte essa fu la fonte della grande ricchezza cubana dei secoli XVIII e XIX, ma d’altra parte l’enorme numero di schiavi rese impossibile lottare per l’indipendenza di Cuba fino a una cinquantina d’anni dopo che l’indipendenza era già stata ottenuta dagli altri stati. Cuba aveva davanti l’esempio di Haiti che spaventava la borghesia cubana che era l’unica che poteva portare avanti il progetto indipendentista. Nel romanzo questo tema molto complesso è solo sfiorato, ma non si può parlare dell’epoca di Heredia e dell’indipendenza di Cuba senza parlare della schiavitù e del traffico degli schiavi.

Uno dei personaggi dice che la letteratura è la memoria di un paese: è questo che spiega la gravità di un falso letterario, più ancora di un falso d’arte?
     Ha ragione quando dice che un falso letterario è più grave. La cultura cubana è una manifestazione spirituale di gran forza e la borghesia cubana del secolo XIX comprese che il fine giustificava i mezzi e, anche se non è storicamente dimostrato, appoggio la teoria secondo cui quella che è diventata l’opera di base della poesia cubana, il poema epico di Silvestre de Balboa “Lo specchio della pazienza”, è un falso letterario. Il problema, piuttosto complicato e unico, è che la borghesia aveva bisogno di creare una cultura per poi creare un paese, lottando contro due ostacoli, il potere coloniale spagnolo e gli schiavi neri. Gli schiavi neri erano il 55% della popolazione e, se la borghesia lottava contro il potere coloniale spagnolo, gli schiavi si sarebbero sollevati combattendo sia contro gli spagnoli sia contro la borghesia cubana. Per questo il processo storico della cultura cubana deve essere visto connesso alla sua propria storia.

Appare chiaro nel romanzo che la massoneria ha avuto un importante ruolo politico a Cuba.
      I massoni a Cuba dicono che la massoneria è stata l’istituzione civile più importante della storia di Cuba. E’ certo che tutto il movimento indipendentista e in buona parte il movimento intellettuale cubano dal 1800 fino al 1950-1960 si fondarono sulla massoneria. Quando andavamo a scuola, ci veniva detto che tutti i padri fondatori della patria furono massoni. Il primo grande movimento indipendentista nasce nella fucina della loggia massonica. E’ dalla loggia massonica che originarono le guerre indipendentiste del 1868 e del 1895. Oggi la massoneria rappresenta la riserva etica della società cubana. Quando qualcuno vuole essere iniziato alla massoneria, non gli si domanda la filiazione religiosa o politica, si valutano solo i suoi valori morali perché la pietra su cui si sostiene la massoneria è la fraternità: tutti gli uomini sono fratelli e hanno gli stessi diritti e le stesse responsabilità. Io credo che la massoneria possa essere un modello per la società contemporanea ed è per questo che ho voluto rendere un omaggio alla massoneria con il mio romanzo.

Nell’edizione originale del romanzo c’è un cambiamento di linguaggio tra il romanzo autobiografico di Heredia, che si suppone scritto nell’800, e la parte che riguarda Ferdinando Terry?
    Sì, il romanzo di Heredia è scritto in un falso stile del secolo XIX: utilizzo parole ed espressioni della letteratura dell’800 per un romanzo melodrammatico tipico dell’epoca di Heredia, un romanzo romantico, sul modello di Manzoni o di Stendhal, in cui il lettore trovi una formula che riconosce. D’altra parte quando scrivo la storia dei massoni utilizzo la retorica barocca del linguaggio massonico, e nella parte di Terry uso la lingua contemporanea. Sono tre momenti diversi con tre diverse forme di linguaggio.

la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos