venerdì 29 aprile 2016

Ludmila Ulitskaya, “Una storia russa” ed. 2016

                                                 Voci da mondi diversi. Russia
     la Storia nel romanzo
     romanzo 'romanzo'
     FRESCO DI LETTURA


Ludmila Ulitskaya, “Una storia russa”
Ed. Bompiani, trad. Emanuela Guercetti, pagg. 640, Euro 25,00

      Unione Sovietica. 5 marzo 1953. Quando la radio dà la notizia, è mattina presto e per tre bambine, Tamara, Galja e Olga, inizia un giorno come gli altri. Non lo è. E’ morto Stalin. Da almeno tre giorni si bisbigliava che fosse ammalato, che fosse già morto ma che si tardasse a dirlo. Qualunque adulto di quella generazione avrebbe ricordato per sempre che cosa stesse facendo quando aveva saputo che ‘il piccolo padre’ non c’era più- come, negli anni a venire, chiunque avrebbe ricordato come la sua vita si fosse bloccata nel momento in cui era stata annunciato l’assassinio di Kennedy, o la caduta del muro di Berlino, o l’attacco alle Torri gemelle. La sensazione di paura, e poi il pensiero che il futuro non poteva avere in serbo niente di peggio del passato.
      Il romanzo “Una storia russa” di Ludmila Ulitskaya- forse la più grande scrittrice russa contemporanea- è una storia fatta di tante storie, come spesso avviene nei romanzi russi, che inizia con l’amicizia di tre ragazzi, nata sui banchi di scuola e destinata a durare tutta la vita, con alti e bassi, con periodi di totale estraneità ma con la consapevolezza di avere amici di cui potersi fidare. E in qualche maniera la vita porterà i tre ragazzi- Ilja, Sanja e Micha, ad incontrare le tre bambine delle prime pagine del romanzo.

    Mentre leggevo, continuavo a chiedermi che cosa sia che rende così chiaramente ‘russo’ il romanzo di uno scrittore russo. Perché è innegabile che ci sia qualcosa di diverso, che mai, aprendo una pagina a caso, anche se i nomi fossero solo delle lettere per non far capire la nazionalità dei personaggi, potremmo pensare che un romanzo russo sia- che so- inglese, o spagnolo, o, men che meno, italiano. C’è un respiro ampio nel romanzo russo, una ricchezza di storie e di personaggi, una assenza di leggerezza che non vuol dire pesantezza e noia, un coinvolgimento profondo nella politica che è l’essenza stessa della quotidianità- non è possibile vivere senza prendere posizione in ogni momento, in ogni scelta. E, nel romanzo della Ulitskaya, c’è aria di cultura, c’è sete di idee- si potrebbe pensare che la Storia stessa abbia foggiato la personalità della gente.
Forse quanto più un regime è totalitario e vuole condurre il pensiero su un unico binario, tanto più qualcosa si inceppa, il pensiero segue la sua strada, i libri di cui è vietata la circolazione riaffiorano nella samizdat (la letteratura ‘sotterranea’, spesso scritta a mano) o nella tamizdat (quella che è riuscita a superare i confini e ad essere pubblicata all’estero), le poesie si imparano a memoria e passano da una mente all’altra, le fotografie (Ilja riceve in regalo la prima macchina fotografica dal padre quando è ancora un bambino- diventerà il suo tesoro per tutta la vita) documentano ciò di cui non si parla, la musica dà voce ai sentimenti nascosti (Sanja sarebbe potuto diventare un grande musicista se non avesse avuto la mano lesionata in un litigio a scuola), l’amore dà la forza di combattere malattie e morte (Olga vince il tumore che la consuma quando riceve una lettera da Ilja in esilio), l’amore non è solo passione ma complicità, amicizia, condivisione. E per i tre ragazzi diventati uomini, più che i genitori (per lo più assenti, parecchi scomparsi nelle famigerate purghe), l’esempio luminoso resterà sempre l’insegnante che aveva perso un braccio in guerra, l’uomo non molto più vecchio di loro che li portava in percorsi letterari in giro per Mosca, che stuzzicava le loro menti, sollecitava letture e discussioni- un professore carismatico quanto quello del film “L’attimo fuggente” (‘oh capitano, mio capitano!’).

Chruscev, Breznev succedono a Stalin. L’atmosfera di paura perenne continua. A turno gli amici sentono i fatidici colpi sulla porta che annunciano la visita del KGB, sono interrogati, nascondono scritti compromettenti, qualcuno fugge in Siberia, qualcuno emigra in Occidente, qualcuno riesce ad avere il permesso di tornare alla terra degli avi in Israele, il fragile Sanja accetta un finto matrimonio per andare in America.

    Un romanzo tumultuoso e affascinante tra le cui pagine si aggirano le ombre dei grandi scrittori che abbiamo amato, Pasternak e Solzhenitsyn, Puskin e Nabokov e Brodskij.




    

giovedì 28 aprile 2016

Maj Sjöwall e Per Wahlöö, “La camera chiusa” ed. 2010

                                                                 vento del Nord
       cento sfumature di giallo
      il libro ritrovato


Maj Sjöwall e Per Wahlöö, “La camera chiusa”
Ed. Sellerio, trad. Renato Zatti, pagg. 409, Euro 14,00


     Stoccolma. Inizio dell’estate. Una donna bionda con un cappello a tesa larga rapina una banca, uccidendo un cliente. Un uomo anziano viene ritrovato morto nella sua stanza: c’era un gran puzzo, la polizia ha dovuto sfondare la porta perchè era chiusa dall’interno, anche le finestre erano chiuse. Il caso viene liquidato velocemente come suicidio, nessuno fa caso al fatto che non c’è una pistola nella stanza, eppure il vecchio è morto per un colpo di arma da fuoco al petto. Non c’è assolutamente nulla che colleghi i due casi, neppure alla lontana, eppure…

     Il nostro Martin Beck (è un vero peccato che stiamo avvicinandoci alla fine della serie dei romanzi che lo vedono protagonista e dovremo accomiatarci da lui) ha appena ripreso servizio dopo quindici mesi d’assenza: se l’è cavata, dopo la sparatoria sul tetto che terminava il romanzo precedente, “L’uomo sul tetto”, ma tuttora si sveglia ogni mattina chiedendosi se sia vivo o sia morto. Di certo non è più l’uomo di prima: uccidere un uomo che era un ex collega è stata un’esperienza traumatizzante, l’aver sfiorato lui stesso la morte lo fa indugiare in riflessioni sul senso di tutto- è come se anche Martin si trovasse in una camera chiusa, senza uscita e senza risposte. Insieme a Martin Beck vediamo al lavoro i suoi colleghi che ormai conosciamo bene, Gunvald Larsson, Rönn e Kollberg. Arrivati ormai agli ultimi romanzi della fortunata serie, possiamo anche dire che Martin e i poliziotti che gli sono più vicini sono il meglio della polizia svedese. Perché la critica di Maj Sjöwall e Per Wahlöö si fa sempre più aspra e pungente nei confronti del corpo di polizia- sia delle norme che lo governano sia dei singoli individui che ne fanno parte- e dell’intera società svedese.
    Il romanzo “La camera chiusa” è del 1972 e, come ben dice il famoso giallista svedese Håkam Nesser nella bella postfazione, è estremamente interessante rileggerlo ora, confrontando la visione distopica degli autori con la realtà odierna. Erano tempi più o meno di lotta armata dappertutto, tempi in cui le divisioni tra destra e sinistra erano chiare e marcate- ci viene quasi da rimpiangere quegli anni di forti ideali, di sogni e utopie, di condanne trancianti. Non esiste il sogno svedese, secondo Maj Sjöwall e Per Wahlöö. Non esiste un wellfare state: i pensionati sono coloro per cui i supermercati allestiscono scaffali con cibo per cani e per gatti (l’unico che si possano permettere di acquistare, per se stessi, ovviamente, e non per le bestiole). Il governo è quasi una dittatura di destra, i cittadini sono schiavi del potere, il corpo di polizia seleziona i suoi uomini in base alla stupidità. E per di più la polizia è armata. Non parliamo poi della corruzione, a tutti i livelli. E neppure della giustizia: il finale de “La camera chiusa” è esemplare, in senso negativo.

    C’è solo un raggio di luce in questo romanzo molto buio e dal tono decisamente didattico per l’urgenza di quello che gli autori vogliono dire, per la critica che- Sjöwall e Wahlöö ci avevano avvisato- è lo scopo dei dieci libri della serie di Martin Beck. E’ il personaggio femminile di Rhea Nielsen, verso cui Martin, separato da anni dalla moglie, si sente attratto. Perché Rhea, una donna impegnata peraltro, è schietta, calorosa- e non solo con un invito sessuale. Rhea è così, generosa e aperta verso tutti, inquilini e altri visitatori. Rhea pratica un socialismo domestico e quotidiano che, se fosse diffuso su larga scala, sarebbe veramente il sogno dei popoli.
   Ancora una volta Maj Sjöwall e Per Wahlöö non ci hanno deluso.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net




mercoledì 27 aprile 2016

Alicia Giménez- Bartlett, "Riti di morte" ed. 2002

                                    Voci da mondi diversi. Penisola iberica
   cento sfumature di giallo
   il libro ritrovato

Alicia Giménez- Bartlett, "Riti di morte"
 Ed. Sellerio, pagg.388, Euro 12,00

    Quarta avventura della coppia investigativa Petra Delicado e Garzón Fermín, anche se in Spagna "Riti di morte" è stato il primo libro della fortunatissima serie. E, come spesso accade per i primi libri, questo è fulminosamente accattivante, con i due personaggi che qui vengono introdotti con abbondanza di particolari e che  sono di una simpatia unica. La trama gialla: siamo a Barcellona e c' è un violentatore seriale che sceglie sempre un certo tipo di vittima - ragazze dal fisico minuto, scialbe - e poi lascia su di loro un marchio, come un fiore sul braccio, impresso con sottili punte di argento rodiato. In una seconda aggressione il maniaco uccide una delle ragazze - ma non si credeva di averlo già individuato e fermato? Un caso che ha disturbanti risvolti psicologici e nel quale Petra si sente coinvolta emotivamente come donna, anche se, proprio in quanto donna, si trova a dover affrontare la discriminazione da parte di colleghi e superiori.
    Se volevamo sapere di più su Petra e Fermín dopo aver letto gli altri libri, in "Riti di morte" la Giménez-Bartlett soddisfa la nostra curiosità, tracciando un ritratto magistrale dei due personaggi, aggiungendo pennellata su pennellata, ritoccando, correggendo, sottolineando. Petra ha girato pagina nella sua vita: ha alle spalle due matrimoni falliti, ha abbandonato la carriera di avvocato per entrare nella polizia, ha una nuova casa. In apparenza mal accoppiati, Petra e Fermín: diffidente lui nei confronti di un superiore donna, reticente e quindi buffo nel linguaggio - mica si può parlare volgarmente davanti a una donna -, scettico davanti ai sistemi di interrogatorio e di indagine della collega, sospettoso nei riguardi del suo passato di bis-divorziata; prevenuta e impaziente lei verso questo poliziotto vicino al pensionamento, goffo, lento, provinciale. Petra è spietata nei suoi giudizi, innumerevoli sono i paragoni e gli epiteti che le vengono in mente. Fermín è un "panzone imperturbabile", sembra "un autista da carro funebre", un "cantante di tango", un "domatore di orsi", ha occhi "da pesce fritto", da "gufo assorto", sembra un "tricheco", un "pinguino", e altro ancora. Poi, lentamente, gli scontri verbali diminuiscono. Lavorando insieme ognuno dei due impara ad apprezzare l'altro, proprio per quelle qualità che all'inizio sembravano negative; l' atteggiamento brusco di lei è la schiettezza e il coraggio di cambiare il corso della propria vita, e la lentezza di lui nasconde capacità di riflessione, onestà, lealtà e integrità. Il caso viene risolto, si appiana la battaglia tra i due sessi nel filone giallo e nella cornice investigativa. 
   Un thriller per chi sa apprezzare il genere di giallo elegante, non violento e ricco di sfumature, una lettura intelligente, divertente e frizzante. Assolutamente da non perdere, sia per chi non conosce ancora Petra e Fermín e ne rimarrà incantato, sia per gli affezionati lettori della Giménez-Bartlett.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net




martedì 26 aprile 2016

Elizabeth Jane Howard, “Il tempo dell’attesa” ed. 2016

                                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
     romanzo 'romanzo'
     FRESCO DI LETTURA

Elizabeth Jane Howard, “Il tempo dell’attesa”
Ed. Fazi, Trad. M. Francescon, pagg. 638, Euro 15,73


      Mi sento orfana. Ho terminato di leggere “Il tempo dell’attesa”, secondo libro della saga dei Cazalet di Elizabeth Jane Howard, e mi sento orfana, privata della compagnia dei personaggi con cui ho vissuto per più di 600 pagine. L’amica di Louise Cazalet dice, ad un certo punto, che le piace stare chez Cazalets’. Piace anche a me stare chez Cazalets e mi mancano tutti- i tre fratelli e le loro mogli, i figli grandi e piccoli, perfino il Generale (l’anziano patriarca) e sua moglie la Duchessa- e penso che incomincia per me il tempo dell’attesa del terzo libro ( a meno che ceda alla tentazione di comprarmelo in originale).
i Cazalet nello sceneggiato televisivo
     E’ il 1939. Hitler ha invaso la Polonia, la guerra è nell’aria. Di nuovo. Sono volati i vent’anni dalla fine del primo conflitto che ha lasciato Hugh Cazalet senza una mano e adesso la famiglia ha una nuova possibile vittima da offrire alla guerra: Rupert, troppo giovane nel 1914, si arruolerà di certo, così come il fratello maggiore Edward. E “Il tempo dell’attesa” diventa, per tutta la famiglia, attesa, giorno dopo giorno, che finisca la guerra, che finisca la loro reclusione nella casa di campagna (com’è che, quando passavano lì le vacanze, i mesi scorrevano veloci e tutto sembrava bellissimo ed ora, invece, si sentono soffocare, come fossero prigionieri?), di avere notizie dell’andamento della guerra, di chi è lontano per cui si è in ansia e poi- soprattutto- di Rupert che è stato dato per disperso dopo la battaglia di Dunkerque. 
Elizabeth Jane Howard
E’ un tempo dell’attesa anche per qualcos’altro, ad un livello più intimo- attesa di crescere, per i giovani Cazalet che si affacciano al mondo. Louise vuole diventare un’attrice e riesce a frequentare una scuola di recitazione. Lontana da casa incontra anche un giovane che si innamora di lei- lei lo ama? Che cosa si prova quando si è innamorati? E’ solo curiosità di amore, la sua? Di Angela si sussurra che sia incinta di un uomo sposato; Neville, così piccolo nel primo romanzo, viene mandato in una scuola privata (come succede a tutti i figli maschi dell’élite britannica), e ne combina di tutti i colori, forse perché soffre, senza darlo a vedere, perché non si sa nulla del padre; la dolce Polly si fa sempre più bella e non se ne rende conto, non ha idee sul suo futuro, sogna solo una casa tutta per sé; Christopher si dichiara pacifista e viene accusato di vigliaccheria; Clary, infine, la primogenita di Rupert, gelosa della nuova giovane moglie del padre, diventa la ‘fiaccola’ dei Cazalet che tiene accesa la speranza che il padre sia vivo. Suo padre Rupert non può essere morto semplicemente perché non può avere lasciato soli lei e Neville che già hanno perso la mamma. Non può. E’ una fede incrollabile, quella di Clary, commovente. Diventa una forza che deve tenere in vita Rupert Cazalet dovunque egli sia. E Clary, aspirante scrittrice, inventa storie rocambolesche su di lui, ne fa una spia (ecco perché il padre non può dare notizie), forse si è unito ai partigiani francesi (parla francese così bene!). Clary scrive a De Gaulle sperando che abbia i canali giusti per appurare che cosa sia successo.

      Quello che è straordinario, nei romanzi di Elizabeth Jane Howard, è quello che definirei ‘lo splendore nell’erba’, la capacità di rendere eccezionale quello che è ordinario. La storia che ci racconta (largamente autobiografica) è, dopotutto, la vita quotidiana, fatta di piccole cose, di una famiglia. Sentimenti, preoccupazioni per mettere un pasto in tavola per tante persone quando si deve fare il conto con le tessere annonarie, chiacchiere leggere su abiti e acconciature e discorsi più seri sull’andamento della guerra, problemi e malattie in famiglia ma anche l’ospitalità generosa verso gli sfollati. E non è neppure tutto roseo e positivo- ci sono dei lati oscuri in alcuni personaggi, c’è chi migliora e c’è chi è incorreggibile, c’è chi amiamo e chi finiamo per disprezzare.
E poi la narrativa è affidata a varie voci, si sposta il centro del romanzo, secondo chi è a parlare noi vediamo tutti da una diversa angolatura, e non riesco a trovare un paragone per la naturalezza dei dialoghi, perfino per l’incantevole chiacchiericcio dei bambini.

Un romanzo bellissimo, finalmente riscoperto.


lunedì 25 aprile 2016

Maj Sjöwall e Per Wahlöö, “L’uomo che andò in fumo” ed. 2009

                                                                      vento del Nord
          cento sfumature di giallo
          il libro ritrovato

Maj Sjöwall e Per Wahlöö, “L’uomo che andò in fumo”
Ed. Sellerio, trad. Renato Zatti, pagg. 263, Euro 13,00



   Vorrei iniziare questa recensione in maniera diversa, ma mi riesce impossibile non dire, come al solito dopo aver terminato un libro di Maj Sjöwall e Per Wahlöö- la coppia di maestri del romanzo di indagine poliziesca svedese- che la lettura di un loro ‘giallo’ è un piacere raffinato, uno di quei piaceri che si pregustano in anticipo, una sorta di consolazione che si tiene da parte per i momenti bui.
      E, dopo aver detto questo, addentriamoci tra le pagine del libro e cerchiamo di spiegarci il perché del nostro godimento. Il personaggio principale è Martin Beck, commissario della polizia di Stoccolma, quello che diremmo un uomo molto normale, molto qualunque, con delle doti spiccate di analisi e di percezione. Uno che macina lento, che riflette, che mette insieme le tessere di un puzzle con calma e pazienza, provando e riprovando. Che raccoglie gli indizi e li salva in file della sua memoria, per ripescarli quando servono. Accanto a lui ci sono Kollberg, amico oltre che collega, e Melander, che ha una memoria eccezionale e viene preso in giro perché è spesso in gabinetto. Sono tutti un poco più giovani rispetto ad altri romanzi della serie che abbiamo già letto perché pubblicati in sequenza diversa da quella originale: Martin è ancora sposato, Kollberg è ancora senza figli.
Martin Beck sullo schermo
   All’inizio del romanzo Martin si prepara per raggiungere la famiglia in vacanza su un’isoletta. Riesce a mala pena a fare un giorno di ferie e viene richiamato in servizio: un giornalista, Alf Matsson, è scomparso a Budapest, dove si era recato per un servizio. Un tipo non simpatico, questo Matsson. Separato dalla moglie, ha un figlio, è un ubriacone e, quando ha bevuto, diventa veramente sgradevole, nonché violento. Dopo aver interrogato i colleghi di lavoro e di bevute, Martin parte per l’Ungheria. E lasciamo al lettore scoprire che cosa accada in Ungheria, ricordando che il romanzo è stato pubblicato nel 1966, quando era ancora necessario il visto d’entrata, i controlli alle dogane erano ferrei e anche per le strade di Budapest gli stranieri sembravano essere sorvegliati di continuo.

     Ma l’ambientazione ungherese è una novità ben riuscita ne “L’uomo che andò in fumo”. Il commissario Martin è particolarmente simpatico nelle vesti di turista e possiamo contare sul suo sguardo attento per vedere Budapest con i suoi occhi- la vecchia città di Buda, l’isola Margherita, il fascino del Danubio che scorre lento sotto il ponte di Elisabetta, perfino quello dell’albergo vecchiotto con i portieri così ossequienti, le terme famose per le acque sulfuree. E’ come se Martin si sdoppiasse: c’è un Martin perfetto estraneo che si sente escluso in un paese dalla lingua incomprensibile (ed è il Martin che sta per lasciarsi sedurre dall’ambigua Ari), e c’è un Martin che non perde mai il controllo di se stesso e che non si lascia sfuggire nulla (ed è quello che ha i riflessi così pronti da evitare una coltellata). In più, Martin si fa un amico a Budapest, il poliziotto Vilmos Szluka: un suo doppio? Oppure semplicemente uno spirito affine come quello dell’altro poliziotto, conosciuto anni prima quando era stato ritrovato un cadavere nel Canale Göta e a cui ora Martin manda una cartolina.
    “L’uomo che andò in fumo” è il settimo romanzo pubblicato di Maj Sjöwall e Per Wahlöö- inizia il conto alla rovescia, ne mancano tre. Solo tre. Peccato.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net




giovedì 21 aprile 2016

Jane Urquhart, "Sanctuary Line" ed. 2016

                                                  Voci da mondi diversi. Canada
              romanzo 'romanzo'
              FRESCO DI LETTURA

Jane Urquhart, “Sanctuary line”
Ed. Nutrimenti, trad. N. Manuppelli, pagg. 238, Euro 14,45

      Per generazioni i Butler, arrivati in Canada dalla Scozia, erano stati frutticoltori o guardiani dei fari. Gli uni attenti all’eterno ciclo delle stagioni con il rinnovato fiorire e poi la gloriosa raccolta di frutti succosi e profumati, gli altri in perpetua vigilanza, con quell’occhio luminoso aggiunto a spazzare mari sereni o in tempesta. Si raccontano molte storie, degli uni e degli altri Butler, nel romanzo “Sanctuary Line” della scrittrice canadese Jane Urquhart. Storie che si tramandano di generazione in generazione, che diventano leggende, del guardiano del faro conosciuto come One Eye perché aveva perso l’altro occhio in una tempesta e che era tornato sulla terraferma dopo che le onde gli avevano portato via entrambi i figli, dell’altro che passava il tempo a leggere e rileggere “Moby Dick” e neppure si era accorto di una imbarcazione che richiedeva soccorso- ne aveva ritrovato la vicenda in una novella di Stephen Crane (e per fortuna lo scrittore si era salvato, ma uno di quelli a bordo con lui era morto)-, di fienili andati a fuoco, dei Butler che sono rimasti in America, al di là del lago Erie, e di quelli che, invece, si sono costruiti la fattoria in Canada. E poi ci sono le storie che non si raccontano, quelle a cui si gira intorno, a cui si accenna. Sono le storie che, per un qualche motivo che noi indoviniamo essere drammatico, vengono costruite a frammenti, per formare un insieme chiaro solo alla fine.

     Nel tempo presente in cui l’io narrante, l’entomologa Liz, inizia a parlare, non c’è più il frutteto, nessuno abita più nella fattoria che, quando Liz era bambina e poi adolescente, traboccava di vita- gli zii e i cugini, lei, Liz, con la madre che era la sorella dello zio Stanley, altri cugini che venivano a passare lì la giornata, i lavoranti stagionali messicani che abitavano nelle ‘baracche’. Tra questi c’era un bambino, Teo, e lo zio Stanley insisteva che lo facessero giocare con loro, poco importava se non sapeva l’inglese. Sono ricordi di estati che sembravano non finire mai, quelli che si affastellano nella mente di Liz, di caldo, di nuotate, della bionda cugina Mandy, quasi una sorella per Liz, delle stravaganze dello zio Stanley, personaggio dominante e affascinante intorno a cui ruotava tutta la famiglia. La realtà del presente è dominata dall’assenza. Un’assenza pesante, gravida di dolore. Mandy si era arruolata e non è tornata dall’Afghanistan. La zia è morta, la madre di Liz è in una casa di riposo, i cugini chissà. Dello zio Stanley si continua a ripetere che se ne è andato e non ha dato più notizie di sé- che cosa è successo, di che colpa si è macchiato perché nessuno voglia neppure più nominarlo? Anche i messicani non sono più venuti e Teo, il dolce Teo che i cugini avevano umiliato, che conosceva- come sua madre- il linguaggio del corpo, che fine aveva fatto Teo?

      Ha un’andatura lenta e un poco sognante, il bel romanzo di Jane Urquhart, una narrativa poetica che equilibra la forte tensione che si accumula prima delle rivelazioni finali dove tutti i lati oscuri vengono alla luce. E c’è una metafora che serve anche da leitmotiv lungo tutto il corso del libro, quella delle farfalle, il motivo per cui Liz si trova ora nella fattoria di famiglia- deve fare una ricerca sulla farfalla monarca, l’esemplare dalle ali arancioni venate di nero che ha trovato un ‘santuario’ nell’area della Sanctuary Line che corre vicino alla fattoria dei Butler.
Quando le farfalle si raccolgono tutte su un albero prima di prendere il volo per emigrare verso il paese da cui viene Teo, è come se una bandiera fiammeggiante palpitasse nel cielo- sono un potente simbolo per le migrazioni di ogni tipo, da quelle stagionali dei lavoratori a quelle di chi cerca la salvezza, come è successo agli avi dei Butler in altri tempi o alla famiglia del misterioso uomo amato da Mandy.
Un romanzo bello e insolito.



   

mercoledì 20 aprile 2016

Maj Sjöwall e Per Wahlöö, “Omicidio al Savoy” ed. 2009

                                                          vento del Nord
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato

Maj Sjöwall e Per Wahlöö, “Omicidio al Savoy”
Ed. Sellerio, trad. Renato Zatti, pagg. 327, Euro 14,00




   Pare proprio inevitabile che inizi a scrivere di un romanzo della coppia svedese Maj Sjöwall e Per Wahlöö dicendo che è stato un piacere leggerlo, anche se so di ripetermi. Ma è quello che si prova girando le pagine di un libro della serie che ha per protagonista l’ispettore Martin Beck, che spero siano in molti a conoscere e apprezzare come protagonista di indagini poliziesche a Stoccolma, alla fine degli anni sessanta.
  Il romanzo precedente, “L’autopompa fantasma”, iniziava con una introduzione in cui i due autori (Per Wahlöö è morto nel 1975) chiarivano i loro intenti: “con la serie ‘ romanzo su un crimine’, che abbiamo pianificato in dieci parti, intendiamo analizzare la società borghese del benessere; cerchiamo di guardare la criminalità in rapporto alle dottrine politiche ed ideologiche di tale società”. E, a mano a mano che continuiamo nella lettura dei romanzi (questo è il sesto che la casa editrice Sellerio ripropone) il loro progetto- di scrivere un unico romanzo in dieci puntate- risulta sempre più chiaro.
      “Omicidio al Savoy” inizia, per l’appunto, con un omicidio: viene ucciso Viktor Palmgren, magnate, proprietario di varie aziende, speculatore finanziario. Il lettore, naturalmente, non sa fino alla fine chi abbia ucciso Palmgren e perché, ma l’attrattiva del romanzo è proprio nell’esplorazione dei possibili motivi, nello svelare quello che c’è dietro lo scintillio della vita dorata di Palmgren, nato e cresciuto in un’area di Stoccolma che è ben nota, tra i poliziotti, solo a Gunvald Larsson (di cui già conosciamo le origini famigliari che si possono indovinare nella raffinatezza del suo abbigliamento).
Una casa a Stoccolma, una al mare, una a Malmö, una a Estoril; una moglie che faceva la modella e aveva oltre vent’anni meno di lui; parecchie aziende affidate a collaboratori: in che cosa commerciava Palmgren? Solo aringhe? O magari si trattava anche di traffico d’armi, visto che il lavoro lo portava così spesso in Africa, in quelle che il Portogallo amava chiamare “province d’oltremare” e che non erano altro che le colonie? E poi un’agenzia immobiliare- il paragone tra le abitazioni costruite dall’impresa di Palmgren, anche se diretta da altri, e la lussuosa dimora in cui la giovane vedova prende il sole nuda sul bordo della piscina è stridente, nonché rivelatore dell’ipocrisia di tutta un’ideologia.

    Ritroviamo nel romanzo i personaggi che abbiamo incontrato in quelli precedenti, e li accompagniamo nella loro vita personale, oltre che nella vicenda poliziesca. Così il nostro pacato ed equilibrato Martin Beck ha trovato finalmente un alloggio per conto suo e si è separato dalla moglie, scoprendo che i suoi disturbi di stomaco erano psicosomatici; Åsa Torell, che aveva perso il marito ne “Il poliziotto che ride”, incomincia a superare il dolore; il giovane Skacke è sempre zelante…E non tutto è roseo neppure nel corpo di polizia svedese: i Catarella esistono ovunque, magari non così divertenti negli strafalcioni di linguaggio, ma ugualmente corti di comprendonio.
    Il colpevole viene preso, ma il finale è molto amaro- per noi e per Martin Beck. Forse avremmo preferito che il delitto restasse impunito. Forse anche Beck (il libro si chiude con la frase, “Si chiedeva se sarebbe riuscito a dormire sul treno”) ne sarebbe stato più contento.

Ah, e a noi dispiace qualcos’altro: che ci siano solo altri quattro romanzi dei “maestri” del giallo svedese da leggere.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


martedì 19 aprile 2016

Alicia Giménez-Bartlett, “Nido vuoto” ed. 2007

                               Voci da mondi diversi. Penisola iberica
       cento sfumature di giallo
        il libro ritrovato


Alicia Giménez-Bartlett, “Nido vuoto”
Ed. Sellerio, trad. Maria Nicola, pagg. 398, Euro 13,00

Una bambina ruba la pistola dell’ispettore Petra Delicado in un centro commerciale. Un uomo verrà ammazzato con quella pistola. Ci saranno altre tre morti, e l’indagine porta Petra e Fermín nell’ambiente degli immigrati rumeni, scontrandosi con la realtà di donne spinte alla prostituzione, donne che prestano i figli per fotografie porno, magnaccia senza scrupoli. Ma non tutto è bene neppure negli asili di accoglienza per i bambini, vittime del mondo degli adulti, costretti a crescere più in fretta. E male.

INTERVISTA AD ALICIA GIMÉNEZ- BARTLETT, autrice di “Nido vuoto”

     “Tre matrimoni e quattro funerali” potrebbe essere il titolo del nuovo romanzo di Alicia Giménez-Bartlett, parodiando quello di un film famoso. Non riveliamo chi sposi chi, c’è qualcuno che tentenna sull’orlo della decisione per tutto il romanzo e qualcuno che cede alla fine, sorprendendoci. E per quello che riguarda i morti, che d’altronde sono alla base di un’indagine poliziesca, diciamo che sono tutti rumeni, ad iniziare dal primo che viene ritrovato, un bell’uomo ammazzato con un colpo di pistola all’inguine- era incensurato, passerà un po’ di tempo prima che sia identificato. Mentre è certo che la pistola usata sia quella dell’ispettore Petra Delicado, la simpaticissima protagonista della serie di romanzi della scrittrice spagnola.
   Alicia Giménez-Bartlett non si smentisce nella sua capacità di stupirci con la sua inventiva, il suo umorismo, la vivacità che impresta ai personaggi alleviando l’atmosfera buia del mondo della depravazione e del crimine. Perché l’episodio che dà inizio alla vicenda è irresistibilmente comico: Petra (che riconosce di essere “una poliziotta litigiosa e anarchica” che protesta “sempre e comunque, senza sapere con chi prendermela”) viene derubata della borsetta mentre sta facendo la pipì nella toilette di un centro commerciale. Non basta. Poiché si è comportata incautamente, appendendo la borsetta al gancio della porta e lasciandoci dentro la pistola di ordinanza, e il ladro è una bambina, Petra diventa immediatamente bersaglio di battute da parte dei colleghi. E tuttavia quanto è successo, al di là del lato ridicolo del furto, è allarmante: perché una bambina si è tenuta la pistola cacciando via la borsa con portafoglio e carta di credito? C’è qualcuno dietro di lei? Ha rubato a caso o aveva tenuto d’occhio Petra sperando nella buona sorte?
Petra Delicado sullo schermo
    Non sveliamo niente che non si possa indovinare, dicendo che le indagini scaveranno nel commercio umano dei bambini, nel mondo della prostituzione e della pedofilia. E lo sconforto di Petra è che quello che alla fine troveranno sarà “il fondo del marciume umano, della miseria morale, della cattiveria gratuita e dell’ignoranza”, ma per che cosa poi? Può la conclusione di un’indagine e la scoperta di uno o più colpevoli mettere fine a tutto questo? Certamente no, fatta pulizia in un angolo, la sporcizia si ripresenterà altrove. Ma c’è in Petra un fondamentale buon senso, un equilibrio interiore che la salva dal lasciarsi inghiottire dal buio, e Alicia Giménez-Bartlett trova sempre delle immagini metaforiche a comunicare un senso di speranza- era il bastimento carico di riso per tante paelle nei sogni del barbone nel romanzo precedente, sono i tulipani blu nel giardino di fronte al centro di accoglienza per i bambini in questo libro. Gli splendidi fiori che sono prova di un crimine rappresentano anche l’essenza della vita, il sovrapporsi di bellezza e malvagità. Perché la bellezza non implica necessariamente la bontà, così come l’infanzia non è sempre innocenza.

    Quello che Alicia Giménez-Bartlett doveva trattare era un argomento duro e dolente, doveva affacciarsi nel pozzo più profondo del male, e forse è per questo che il romanzo ha una caratteristica diversa dagli altri, una venatura di sentimento che lo fa quasi sembrare un “giallo-rosa”. Perché si parla tanto d’amore nel “Nido vuoto”. Ad iniziare dalle parole del titolo che, nel corso del libro, vengono citate due volte, una con disperazione e una con un sottile rimpianto. E’ Petra che si domanda che cosa difenda nella sua accanita solitudine, un  nido vuoto? E allora, per controbilanciare l’immagine del nido che viene svuotato dei piccoli, o per dare un filo di speranza, c’è tutto un gioco di seduzione e di innamoramenti, un gran parlare dei vantaggi e degli svantaggi del matrimonio, sempre in forma scherzosa, in quel brillante scoppiettio di botta e risposta che hanno reso famosa la coppia Petra Delicado e Fermín Garzón. Con tanto di ricevimenti finali, descrizione degli abiti da sposa, menù offerto e regali ricevuti: un po’ troppo, forse? Stilos ha intervistato la scrittrice spagnola.

“Un bastimento carico di riso”, il romanzo con Petra che precede questo, è del 2004 e, nel frattempo, lei ha scritto altri romanzi: ha bisogno, ogni tanto, di distaccarsi dalla sua protagonista?
     Non sempre, ma, ad esempio, ne avrò bisogno dopo questo romanzo, perché dovrò lasciar “riposare” un poco il personaggio di Petra che ha subito un grosso cambiamento. E tuttavia ho voglia di iniziare presto un libro con lei, perché mi interessa vedere come si comporta nella situazione in cui l’ho messa. C’è un numero limitato di storie nella mente e arriva il momento in cui si teme di copiare quello che si è già detto. E tuttavia ci sono ancora storie che vorrei raccontare e vorrei lasciare Petra e scrivere queste altre storie. Anche se poi i lettori preferiscono quelle con Petra, i critici mi trattano male quando scrivo altri tipi di romanzo, guadagno di meno- ma si sa, gli scrittori sono dei masochisti.

Che cosa succede, quando si scrivono dei romanzi seriali? Dopo il primo romanzo si ha già in mente che vita vivranno i personaggi? Oppure, come succede a noi, fuori dai libri, si lascia che vivano e si assiste alle loro scelte di vita?
     E’ sempre lo scrittore che manovra i suoi personaggi. Non ho mai creduto che i personaggi prendano una loro vita e si sviluppino indipendentemente. Dipende dall’autore come crescono i personaggi, dal momento in cui sta vivendo, dalle esperienze che sta facendo. “Madame Bovary c’est moi”, insomma. Credo che più che di libertà del personaggio si debba parlare di influenza dell’autore.

Sono passati sette anni dal primo romanzo con Petra Delicado, “Giorno da cani”: come è cambiato il suo rapporto con il suo personaggio? Le è simpatica Petra?

       Direi proprio di sì, che il mio rapporto è cambiato nel senso che, ogni volta che mi accingo a scrivere un romanzo con Petra, è come ritrovare dei vecchi amici. Quando finisco un romanzo che non appartiene alla serie, mi fa piacere ritrovare Petra, penso, ‘oh, finalmente!’. Petra mi è simpatica, ma Fermín lo è ancora di più, perché è più spontaneo, più vicino ai sentimenti umani. Nel personaggio di Petra ci sono degli aspetti odiosi del suo carattere, Fermín è più lineare. Credo che Petra mi piaccia di più adesso, perché nei primi libri era appena entrata nella polizia ed era insicura e sgradevole. Ora è più integrata nel mondo poliziesco e le sue reazioni sono più naturali.

Ci si domanda spesso fino a che punto o in che cosa un personaggio assomigli allo scrittore che l’ha creato. Nel caso di Petra ci chiediamo anche se le idee di Petra siano un prestito suo, oppure se sia il suo opposto. Che cosa c’è di suo nell’accanita difesa della solitudine da parte di Petra?
     Molto, c’è molto di mio. Credo non nella solitudine totale ma che sia necessario avere uno spazio di solitudine. Ho bisogno di quattro o cinque ore al giorno senza nessuno intorno. In estate posso stare anche un mese senza parlare con quasi nessuno. A mio parere è necessario, perché la mente è lenta e devo riflettere su quello che mi è capitato. Sono cresciuta con dei genitori anziani, una sorella più grande di me e mi sono abituata ad avere uno spazio per me, e, quando mi era difficile avere uno spazio per me, me lo gustavo ancora di più se lo trovavo. Ad esempio, ancora adesso, dopo l’allenamento ad isolarmi in una solitudine mentale quando i figli erano piccoli, sono capace di ritirarmi in uno spazio interno senza sentire nulla di quello che mi accade intorno. Sono capace di leggere o di scrivere in mezzo al rumore.

Quando Petra parla della gioiosità del sesso per la sua generazione, intende la generazione delle donne che è cresciuta dando per scontato il controllo delle nascite, la pillola, l’aborto, il divorzio?
     Sì, naturalmente. La mia è stata la prima generazione con queste possibilità e vantaggi già acquisiti e lo consideravamo stupendo. Ma ci sono paesi in cui questo non è ancora possibile: come si fa a gioire del sesso quando si hanno 20 figli e un marito che non si ama?

Quale idea voleva comunicare, da un primissimo approccio al libro, con un titolo triste come è “Nido vuoto”?
      Penso che non tutti i bambini siano felici e ultraprotetti come avviene, purtroppo, in Spagna; molti bambini sono in situazioni terribili. In Spagna è persino irritante la maniera in cui vengono trattati i bambini, viziati, schermati da tutto, sempre giustificati. Volevo far riflettere sui nidi vuoti che ci sono anche molto vicino a noi.

Quale è stata la notizia di cronaca, o la riflessione, che ha dato lo spunto al romanzo?
    Nessuna notizia in particolare, solo un accumulo di notizie e di immagini di bambini abusati, di foto in internet che mi hanno fatto pensare e hanno fatto scattare la trama.

La trama coinvolge vittime e colpevoli rumeni, sarebbero potuti essere di altra nazionalità ma esprimono forse un timore, peraltro diffuso, sulle conseguenze dell’apertura delle frontiere agli immigrati rumeni dopo che la Romania è entrata nell’Europa Unita?
     No, in realtà no, perché il libro è stato scritto prima. La nazionalità delle mie vittime e colpevoli è casuale, volevo sottolineare l’ingiustizia di una società che porta le persone a comportarsi in una certa maniera. La realtà è che noi abbiamo bisogno del lavoro degli immigrati. La criminalità diffusa è una situazione tremenda ma il mio libro vuole essere un’accusa contro le condizioni in cui vive questa gente e non contro l’ingresso degli immigranti.

Nel romanzo vengono citati i Mossos de Esquadra e una nota spiega che si tratta della polizia autonoma catalana: agiscono in accordo con la polizia di stato? Non corrono il rischio di sovrapporsi?
   
I Mossos de Esquadra e la Polizia Nazionale hanno dei compiti ben separati: la Polizia Nazionale si occupa degli assassinii intorno a Barcellona e di quelli commessi dalle organizzazioni criminali. I Mossos de Esquadra si occupano di tutti gli altri crimini e di quelli commessi in Barcellona. Ad un certo punto pensavo che Petra sarebbe passata nelle fila dei Mossos, ma no, è impossibile perché Fermín non può cambiare per limiti di età. E allora restano entrambi nella Polizia Nazionale.

Il personaggio di Yolanda sta acquistando maggiore importanza. Yolanda e Domínguez avranno la funzione di essere i due doppi di Petra e Fermín?
   No, Yolanda e Domínguez rappresentano il contatto con la gente più giovane, servono per sapere come agiscono e come pensano i giovani. Sono un confronto tra due generazioni, è come se fosse entrato del sangue giovane nella polizia.

Il prossimo romanzo sarà ancora con la coppia Petra- Fermín?
    Sì, il prossimo romanzo che scriverò sarà con Petra, però in Spagna è già stato pubblicato un romanzo che non fa parte della serie, “Días de amor y de engaños”, con parecchi personaggi sulla scena, come protagonisti.

recensione e intervista sono stati pubblicati sulla rivista Stilos



                                                                                       

lunedì 18 aprile 2016

Julian Fellowes, "Snob" ed. 2005

                                    Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda         
                                                    romanzo 'romanzo'
                                                    il libro ritrovato




INTERVISTA A JULIAN FELLOWES, autore di “Snob”

     Destino singolare, quello della parola snob e certamente William Thackeray, che le diede un valore letterario ne “Il libro degli snob”, non poteva prevedere che sarebbe stata adottata da tutte le lingue europee. Nel gergo studentesco di Cambridge snob indicava soltanto chi cerca di emulare i comportamenti degli aristocratici disprezzando tutto quello che ha la parvenza di essere inferiore, poi il significato si estese ad un generico atteggiamento di sufficienza  verso le classi basse. C’è un poco di entrambi i significati nel libro “Snob” (Ed. Neri Pozza, pagg. 349, Euro 16,50), opera prima di Julian Fellowes, noto come lo sceneggiatore che ha vinto l’Oscar per “Gosford Park”, attore coprotagonista nei film “Il danno” e “Shadowlands”.
Perché è snob Edith che, sospinta anche dalle ambizioni materne, sposa Lord Charles Broughton, senza dare importanza al fatto che lui sia così noioso e sessualmente tiepido- la prospettiva di abitare in una magione che apre le porte ai visitatori, di essere presentata a corte, di fare la nobile castellana che distribuisce sorrisi, è splendida e irresistibile. Ma è snob anche la formidabile Lady Uckfield che deve fare buon viso a cattiva sorte davanti alla scelta del figlio, o tutta la cerchia dei loro amici altolocati che sembrano parlare in codice, usando sciocchi nomignoli a sottolineare l’intimità con i loro pari, obbedendo a norme di comportamento che escludono implacabilmente chiunque non sia dei loro. Edith viene accettata anche se con diffidenza, perché è bellissima e Charles la adora. Ma, quando Edith si stanca della campagna, della caccia, dei comitati di beneficenza, dei suoceri, della compagnia stolidamente fedele del marito, e segue a Londra un fascinoso attore, immediatamente tutte le porte si chiudono dietro di lei. La storia è raccontata da un narratore esterno, un attore amico di Edith che diventa poi il confidente di Charles, in un ruolo di osservatore imparziale che ricorda quello di Nick Carraway de “Il grande Gatsby”. A lui, che, per famiglia ed educazione, si muove con disinvoltura in entrambi gli ambienti, il compito di fare da tramite tra i due sposi- Edith che si accorgerà di aver cambiato in peggio una volta che si attenua la furia sessuale, e Charles che, con commovente consapevolezza dei propri limiti, è pronto a riprendersela indietro. Non potevano mancare, in un romanzo di ambientazione così britannica, i riferimenti ai grandi scrittori del passato, da Thackeray a Jane Austen, da Huxley a Waugh, nella creazione di alcuni personaggi (Edith ha qualcosa di Becky Sharp, Charles ricorda il protagonista di “Una manciata di polvere”, la madre di Edith e Lady Uckfield assomigliano, in meglio, a Mrs. Bennett e a Lady Catherine in “Orgoglio e pregiudizio”), nel riadattare frasi famose, nel tono cinico e graffiante, sempre pieno di humour, di chi osserva senza approvare, ma nemmeno disapprovare- così va il mondo (britannico). Stilos ha intervistato Julian Fellowes.

Lei è un attore e uno sceneggiatore famoso: come è nato questo romanzo? L’aveva già in mente quando scriveva la sceneggiatura di “Gosford Park”?
      Avevo scritto un abbozzo di romanzo, prima di “Gosford Park”. Poi c’è stato il successo del film e l’editore di una famosa casa editrice mi ha cercato chiedendomi se mi interessava scrivere un libro. E così ho ripreso in mano quel mio dattiloscritto, ci ho lavorato molto sopra, praticamente l’ho riscritto tutto. E’ molto diverso scrivere un libro dallo scrivere un copione. Quando scrivi un copione, scrivi per il produttore, per il regista, poi ci sono le prove nello studio, ogni volta ti cambiano delle cose. Mi attraeva molto l’idea di scrivere un testo solo per un editore. In un libro si sente soprattutto la voce dello scrittore, in un copione questa voce è solo una parte. Mi piaceva l’idea che si sentisse la mia voce nel libro, e, dopo, è stata piacevole anche l’esperienza inaspettata del successo.


 Non possiamo fare a meno di ricordare l’ambientazione di “Gosford Park” leggendo “Snob”, anche se l’angolazione del punto di vista è del tutto differente.
      “Gosford Park” è ambientato in un periodo in cui le classi alte erano inconsapevoli della fine che si avvicinava per loro, mentre i servitori sembravano avere un sentore di questa fine. Nel film i servitori pensano a come sarà la loro vita in futuro, è come se sapessero che sette anni dopo ci sarebbe stata la guerra e il mondo non sarebbe più stato lo stesso. E allora c’è qualcosa di ironico nella sicurezza che sfoggiano gli aristocratici del piano di sopra. Nel film, ad un certo punto, Lady Sylvia dice che forse chiuderà la casa, perché è diventato troppo difficile mandarla avanti. Le classi alte si stancano di quel tipo di vita, di cercare servitori, cambiarsi d’abito per cena, si rilassano come il resto del mondo. “Snob” è sui sopravvissuti di quel mondo aristocratico. Dopo gli anni ‘60 gli aristocratici finiscono di far parte della classe governante ed escono dalla vita pubblica, la gente sa che esistono ancora solo attraverso articoli occasionali sui giornali che parlano di matrimoni o ricevimenti, gli aristocratici non fanno più politica e non hanno più una vita pubblica. Sono diventati un gruppo che doveva tenere giù la testa in un secolo che non approvava, una specie di società segreta. E “Snob” è intorno a questa società segreta che esiste ancora. Ho attinto dalla vita vera per scrivere “Snob” e sono stato anche un poco punito per averlo fatto. Mi è stato chiesto se abbia ancora degli amici- in realtà quelli che hanno creduto di riconoscersi nei personaggi dapprima se la sono presa, poi si sono sentiti lusingati nel ritrovarsi nelle pagine del libro.

E, a proposito di “Gosford Park”, non ha trovato strano, che fosse una specie di sfida per un regista americano decidere di girare quel film?
     In un certo senso sì, ma, d’altra parte, non era possibile girare quel film con un regista britannico. I britannici si sentono sempre un po’ complessati nei confronti delle classi alte. Altman provava l’interesse di un antropologo per gli aristocratici. Non voleva dimostrare niente ed io ero invitato sul set per controllare che tutto fosse giusto come doveva essere. Un regista britannico non lo avrebbe mai fatto, si sarebbe irritato, non avrebbe mai voluto mostrare di non sapere di fronte a me che sapevo, sarebbe stato difficile correggerlo. Ma un americano non era tenuto a sapere quelle cose, Altman si sforzava di essere il più accurato e il più efficace possibile. Ecco perché ha funzionato.

“Gosford Park” è ambientato negli anni ‘30 e “Snob” ai nostri tempi: l’idea è dell’immutabilità dei comportamenti dell’aristocrazia britannica che sembra essere salda come una roccia.

      Penso che gli aristocratici capiscano di dover resistere davanti ad un mondo moderno i cui valori sono lontani dai loro. C’è qualcosa di contraddittorio in una società che è per lo più selezionata per nascita e la società meritocratica moderna- non possono coesistere. Gli anni ‘60 hanno cambiato il mondo in una maniera ostile ai valori dell’aristocrazia. Adesso però ci si comincia a fare domande sul successo dei valori moderni, viviamo in un periodo caotico e pieno di incertezze, di aumento di criminalità e mancanza di sicurezza personale. Il mondo moderno, almeno nei paesi occidentali, non crede più nella selezione per nascita, “come” uno nasce ha un ruolo secondario nella selezione ma è connesso con l’aristocrazia. In Gran Bretagna dagli anni ‘60 non vengono più concessi titoli ereditari e questa è la sentenza di morte per l’aristocrazia. Ma c’è qualcosa di ammirevole nel fatto che le classi alte aderiscano ancora ai valori di un mondo più vecchio e più lento.

 Dopo tutto, come si dice nel suo libro, la Gran Bretagna ha avuto una sola rivoluzione che è durata poco tempo. Che cosa significa questo, secondo Lei, per quello che riguarda il carattere dei britannici?
     Penso che i Britannici siano molto pragmatici, in complesso a loro non piacciono l’insicurezza e la ribellione. Il punto forte dell’aristocrazia britannica è di aver accettato e cercato di sposare persone dei ceti alti con soldi o bellezza. Abbiamo sempre avuto un’ alta borghesia non titolata ed è sempre stato facile per il self-made man essere assorbito in questa alta borghesia non titolata- era una terra di mezzo in cui si riusciva ad entrare facilmente. Questa era la caratteristica dell’aristocrazia: la sua mobilità, una qualità per cui venivamo disprezzati nell’800 dal resto dell’Europa, ma che per noi ha significato che il sistema poteva durare di più.

Il suo narratore racconta la storia da un punto di vista avvantaggiato perché sembra trovarsi a suo agio con entrambi i mondi: è Lei il narratore?
       In un certo senso sì. Volevo che il narratore non avesse un’aria minacciosa. Volevo che si trovasse a suo agio con l’aristocrazia, ma che lui stesso non fosse troppo “in alto”, e infatti è un attore non di successo, non ha molti soldi. Doveva essere una specie di ponte tra i personaggi, una guida che non incutesse soggezione ai lettori. Il lettore non conosce queste persone e lui gliele deve spiegare- conduce il lettore in maniera gentile.

Il narratore sembra osservare divertito il comportamento di questi aristocratici: non approva e neppure disapprova.
     Questo è il mio atteggiamento. Alla mia età non più giovane, sono convinto che non ci sia un tipo di vita più felice delle altre. Penso che nessuno debba essere invidiato, nessun tipo di vita è una soluzione. Tutti hanno una vita complicata. Ci sono vite individuali, indipendentemente dalla classe sociale. Io non odio ma neppure venero i Broughton. Nel libro il personaggio di Lady Uckfield è quello della persona intelligente con cui il narratore entra in sintonia, perché gioca bene le sue carte, fa del suo meglio della situazione in cui si trova. Il libro, più che essere un libro su una classe sociale, è un libro sulla scelta: ognuno di noi fa una scelta e deve vivere con la scelta che ha fatto. In genere si tende ad attribuire agli altri la colpa di quanto ci accade, ma è contro la mia filosofia della vita. Questa è la parte più importante del crescere: prendersi le responsabilità delle proprie scelte.

 Forse per questo Charles è un personaggio così amabile e simpatico. Al contrario di Edith, lui tiene fede alle proprie scelte. Alla fine ci dispiace per lui, meritava di più.
     Ho creato di proposito così il personaggio di Charles, un uomo grigio, prevedibile, non molto intelligente e non interessante. Andando avanti, però, anche chi non approva l’aristocrazia sente simpatia per Charles che non cambia, non è diverso da come si è presentato, ma è Edith che viene meno al patto che ha stretto. Ho fatto in modo che il lettore simpatizzasse con chi non avrebbe simpatizzato nella vita reale.



 Proseguirà tutte le sue carriere, come attore, sceneggiatore e scrittore?
     Ci sono persone che pianificano la loro vita. La mia vita è stata strana, fino ai quarant’anni sono stato un attore di medio successo, non certamente uno di quelli che fanno fermare il traffico per strada, e poi mi si sono aperte davanti tante strade. Mi piacerebbe provarle tutte. Quando il successo arriva tardi, lo prendi meno sul serio, sai che finirà. Quando succede da giovane, ti senti un dio, ma quando arriva tardi, sai solo che sei fortunato, che stai godendoti cinque minuti al sole, ma sai anche che non durerà per sempre. Mi piace pensare che continuerò a scrivere finché sarò vecchio, penso che Hollywood mi stancherà molto prima. C’è qualcosa di inebriante nel sentire la propria voce in un libro.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos

i personaggi dello sceneggiato Downton Abbey