mercoledì 27 giugno 2018

Eva García Sáenz de Urturi, “Il silenzio della città bianca” ed. 2018


                                            Voci da mondi diversi. Penisola iberica
                                                   cento sfumature di giallo


Eva García Sáenz de Urturi, “Il silenzio della città bianca”
Ed. Sperling& Kupfer, trad. P. Olivieri, pagg. 446, Euro 16,91


      La cittadina basca di Vitoria. Ne conosceremo tutte le strade, tutti gli antichi monumenti, tutte le usanze e le festività quando avremo terminato la lettura del romanzo di Eva García Sáenz de Urturi. Sapremo perfino qualche parola in basco, ad esempio eguzkilore, il fiore del sole, una sorta di cardo il cui nome è Carlina Acaulis. E’ usanza nei paesi baschi mettere un eguzkilore sulla porta per tenere lontano il male, ma, ne “Il silenzio della città bianca”, finirà per accompagnare il Male, per essere la firma dell’assassino che è solito metterne tre accanto ai corpi delle sue vittime, uccise a due a due, in coppie che hanno la stessa età che salta di cinque anni in cinque anni- erano due neonati le prime vittime trovate vent’anni fa (strazianti, il maschietto e la bambina, distesi uno accanto all’altro, ognuno con una mattina appoggiata sulla guancia dell’altro), avevano quindici anni le ultime due vittime, trovate sempre nella stessa posizione. C’era anche una sofisticata ricostruzione di epoche storiche da individuare nei luoghi dove i corpi erano stati trovati- uno dei motivi per cui dei delitti era stato accusato Tasio Ortiz de Zárate, archeologo molto noto in Vitoria sia per la posizione sociale della sua famiglia, sia per le sue brillanti trasmissioni televisive, sia per essere ‘uno di due’. Il suo gemello identico, Ignacio- tutt’altro carattere, tutt’altra carriera, era un ispettore di polizia- lo aveva identificato come serial killer e lo aveva arrestato di persona.


   Ed ora Tasio, dopo vent’anni di carcere, sta per uscire di prigione per una settimana di permesso. E gli assassinii ricominciano da dove si erano interrotti. Una coppia di vent’anni. Una di venticinque. Una di trenta. Il panico serpeggia per Vitoria. La morte colpisce da vicino il commissario Unai Lopez de Ayala, sarebbe bene anche lui stesse in guardia- compie quarant’anni. Può essere ancora Tasio che manipola qualcuno che compia i delitti al suo posto? Oppure c’è stato un errore madornale vent’anni fa, e Tasio aveva ragione nel proclamarsi innocente. E se fosse stato il contrario, se fosse stato l’altro gemello a uccidere in questa sinistra vicenda in cui il numero due ritorna come un’ossessione? Comunque Tasio esce di prigione. E scompare. Anche il gemello Ignacio scompare. Quanti anni hanno i due Ortiz de Zárate?

    Parallelamente alla trama principale scorre un’altra storia negli anni 1969-1970. Un fidanzato e un marito violento, un matrimonio infelice, un medico troppo gentile, dei bambini che vengono al mondo, mentre, nel presente, ci sono dei bambini che neppure si affacciano al mondo- forse è la tragedia simile della perdita di figli non nati che unisce il commissario Unai e il suo nuovo capo, una donna affascinante di nome Alba,  quando ancora pensano di avere in comune solo il piacere di correre al mattino presto per le strade deserte di Vitoria. E neppure sono ancora consapevoli di essere entrambi nel mirino dell’assassino.
     C’è qualcosa del feuilleton in alcuni risvolti della trama che si svolge nel passato, alcuni dettagli macabri che sanno di ‘déja lu’ nelle vicende del presente, e però “Il silenzio della città bianca” è un thriller che si legge di un fiato- per la splendida ambientazione, per la ricchezza di informazioni sull’architettura degli antichi edifici baschi, per dei personaggi ben riusciti come il commissario Unai (voce narrante che, a metà narrazione, ci anticipa qualcosa che proprio non possiamo accettare) e quel gran vecchio saggio che è suo nonno. Suspense, colore, stile brillante e vivace, il tema della passione e della gelosia, della possessività maschile e della gemellarità con il suo fascino oscuro del doppio e dell’opposto, della rivalità e della simbiosi- ce n’è più che a sufficienza per fare di questo romanzo un’ottima lettura per l’estate.

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lunedì 25 giugno 2018

Kenzaburō Ōe, “Il bambino scambiato” ed. 2013


                                              Voci da mondi diversi. Giappone   
                                                            premio Nobel
     il libro ritrovato


Kenzaburō Ōe, “Il bambino scambiato”
Ed. Garzanti, trad. Gianluca Coci, pagg 424, Euro 24,00
    
Titolo originale: Torikaeko (Chenjiringu)


    “In ogni caso, non permetti mai che il lettore dimentichi che l’autore del libro che tiene tra le mani è Chōkō Kogito. E questo vale per ogni tuo singolo romanzo. Perché tutta questa tua smania di presenziare così attivamente tra le pagine dei tuoi lavori? In fondo- non lo dico solo in senso negativo, non mi fraintendere- sei uno scrittore come tanti altri.”

     Kogito, un anziano e famoso scrittore giapponese, ha preso l’abitudine di ascoltare regolarmente i nastri delle audiocassette registrate per lui dall’amico e cognato Gorō che è un regista conosciuto in patria e all’estero: contengono ricordi, riflessioni, critiche, citazioni letterarie, osservazioni. La voce di Gorō si esprime in un lungo monologo che tuttavia Kogito non avverte come tale, perché a tratti ferma l’apparecchio, interviene come se l’amico fosse presente e potesse sentirlo: è un modo come un altro per restare in contatto, con questa vecchia apparecchiatura che ormai nessuno usa più e che richiede, per l’ascolto, l’uso di due grosse cuffie che a Kogito hanno sempre fatto pensare ai tagame, enormi scarabei d’acqua che catturava da bambino. E “Tagame” è rimasto il nome in codice tra Kogito e Gorō per parlare delle audiocassette.

Una sera il nastro che Kogito sta ascoltando termina sulle parole, “Per adesso non c’è altro. Sto per trasferirmi in un altro mondo”. Poi un tonfo. Dopo non molto la moglie di Kogito entra nella stanza per dirgli che suo fratello si è suicidato gettandosi nel vuoto da un tetto.
   
    Il romanzo di Kenzaburō Ōe (premio Nobel per la letteratura nel 1994) non ha un andamento lineare dopo questo inizio. Procede avanti e indietro nel tempo, perché la morte di Gorō porta inevitabilmente alla memoria il passato che hanno condiviso, mentre il tentativo di Kogito di staccarsi dalla ‘dipendenza’ del Tagame (quasi un’ossessione per lui, ormai) accettando l’invito di recarsi a Berlino, si conclude con un’ulteriore riavvicinamento all’amico che non solo passò del tempo nella stessa città, ma qui conobbe e si innamorò di una ragazza molto giovane (ne aveva parlato, infatti, nel Tagame). “Il bambino scambiato” è, fondamentalmente, un romanzo autobiografico: è facile anche per noi lettori occidentali riconoscere Kenzaburō Ōe nel personaggio a cui lo scrittore ha dato un nome che è un chiaro omaggio al Cogito ergo sum descartesiano, che ha un figlio disabile e che ha vinto il Nobel, e i giapponesi non fanno fatica a capire che sotto le spoglie di Gorō si nasconde il regista Juzo Itami, cognato di Kenzaburo e morto nel 1997 suicidandosi come Gorō.
D’altra parte una delle critiche che Gorō rivolge a Kogito è proprio questa, di non permettere mai, “in ogni singolo romanzo”, “che il lettore dimentichi che l’autore del libro che tiene tra le mani è Chōkō Kogito”. Sembra quasi che, nella dialettica tra i due personaggi, Kenzaburo Ōe voglia mostrare la sua consapevolezza di quello che i critici trovano a ridire sul suo stile “dissociato e disgregato”, sulla lettura che risulta “ostica” dei suoi romanzi. Perché, in effetti, è questa l’impressione che abbiamo a tratti, leggendo il romanzo che sembra non arrivare mai a quello che è il punto centrale: che cosa è successo la volta che i due amici si erano trovati insieme nel centro di addestramento di un ambiguo nazionalista che programmava una protesta contro il trattato di pace? Quando li aveva visti tornare a casa, la sorella di Gorō che adesso è moglie di Kogito aveva intuito subito che il fratello era profondamente cambiato. Questo tema del cambiamento viene rielaborato in tutta l’ultima parte del romanzo, collegato con una insolita variante tratta da un libro di racconti illustrati- la storia di una bimba rapita da dei folletti maligni e sostituita con una ‘controfigura’ di ghiaccio- e infine con l’attesa della nascita di un bambino che, pur non avendo nessun legame di sangue con Gorō, lo potrà, forse, sostituire.

      Ci si trova in soggezione nello scrivere di un autore universalmente acclamato e a cui è stato conferito il premio che è il massimo riconoscimento nel mondo della letteratura. Si procede con cautela nell’esprimere giudizi e, tuttavia, terminata la lettura de “Il bambino scambiato”, si resta con una certa insoddisfazione, come quando, dopo un lungo e faticoso cammino, si arriva ad una meta che non risponde alle nostre aspettative.

la recensione è stata pubblicata da www.wuz.it




venerdì 22 giugno 2018

Dezsö Kostolányi, “Anna Édes” ed. 2018


                                                     Voci da mondi diversi. Europa dell'Est



Dezsö Kostolányi, “Anna Édes”
Ed. Anfora, trad. Andrea Rényi e Monika Szilágyi, pagg. 270, Euro 17,00

    Budapest, 31 luglio 1919. La data di un grande cambiamento in Ungheria. Quanto sia grande ce lo fa capire in due brevi magistrali capitoli questo scrittore, Dezsö Kostolányi, che purtroppo finora non conoscevamo.
    Una frase secca come un colpo di fucile inizia il romanzo “Anna Édes”: “Béla Kun fuggì dal paese a bordo di un aereo”. Era il segno della fine della Repubblica Sovietica Ungherese. Un tocco di ironia caratterizzante: il commissario del popolo fuggiva con le tasche piene di pasticcini del caffè Gerbaud (chiunque sia stato a Budapest lo ricorda) e di gioielli. Grosse catene d’oro pendevano addirittura dal suo braccio, neppure fosse una statua della Madonna. E una di queste catene cadde solcando l’aria, dritto nel mezzo del parco pubblico e fu trovata da un anziano borghese. E’ il vecchio equilibrio che si ristabilisce: “i rossi sono caduti”, dice Kornél Vizy, consigliere ministeriale alla cameriera. “Sono caduti quei farabutti”, rincalza il portinaio che per la prima volta dopo mesi si rivolge a Kornél Vizy chiamandolo “Illustrissimo”, offrendosi (finalmente) di riparargli il campanello e proponendo una sua nipote come domestica presso di loro, una contadina del Balaton.

    E’ lei, la servetta diciannovenne, la protagonista del romanzo. Anna Édes, Anna Dolce (questo il significato del suo cognome) dolce Anna, che si aggiunge alla galleria dei personaggi femminili indimenticabili, una piccola eroina che si lascia vittimizzare (potrebbe fare altrimenti considerando l’ambiente e il tempo in cui è cresciuta?) finché reagisce perdendo ogni controllo, compiendo un’azione di cui non cerca neppure di giustificarsi. Il vaso era colmo, non c’era neppure bisogno della goccia che lo facesse traboccare.
   
La signora Vizy, come tutte le signore borghesi sue pari, come tutte le signore di altri romanzi che abbiamo letto, amano parlare e sparlare della servitù. In genere ne sparlano. Le domestiche (ma perché essere politicamente corretti? chiamiamole per quello che sono, ‘le serve’) sono sfaticate, lavorano male e di cattiva voglia, rubano, non ci si può fidare di loro, non si rendono conto di quanto siano fortunate, le serve, non devono pensare a nulla. Quando arriva la dolce Anna, la signora Vizy si deve ricredere. Anna Dolce è la perla rara, è proprio vero che le piace lavorare, non c’è bisogno di darle istruzioni. E se non reclama niente, perché pagarla quanto la precedente infingarda che avevano prima? Riceve tutto quello di cui ha bisogno in casa, magari la signora le regalerà anche un vestito, i soldi non le servono.
Se Anna sentiva nostalgia per il bambino a cui badava nella famiglia dove era prima a servizio, presto le passa, se l’odore di naftalina nella casa dei Vizy la prendeva alla gola, presto si abitua, se si sentiva sola, ci pensa il nipote scapestrato dei Vizy a tenerle compagnia infilandosi nel suo letto per quattro giorni in cui lo zio e la zia si sono assentati. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, Anna aveva sentito raccontare dei padroni che mettevano incinte le serve, le era sembrato naturale, si era sentita lusingata, si illudeva che lui l’amasse. Mentre lui, pensando a lei, aveva immaginato di ‘rovesciarla come un sacco di farina, senza preamboli, come si fa con le serve’.
D’altra parte anche un amico di Vizy aveva sostenuto, parlando con il dottore durante una cena, che ‘loro sono diversi da noi. Hanno stomaci diversi, anime diverse. Sono servi. E vogliono rimanere tali.’ Sarà soltanto il dottore, un vecchio gravemente ammalato, a prendere le difese di Anna in tribunale, dopo che tutto si è concluso, dopo che Anna aveva dapprima accettato e poi rifiutato di sposare un vedovo che la corteggiava, perché la dolce Anna non era stata capace di sottrarsi al ricatto morale della sua padrona che non voleva fare a meno di lei. ‘Non l’hanno trattata come un essere umano, ma come una macchina. L’hanno resa una macchina. L’hanno trattata in maniera disumana. L’hanno trattata ignobilmente.’ E’ l’unica voce discorde- ‘Il pubblico ebbe l’impressione che il vecchio dottore con un piede nella fossa fosse un uomo mentalmente limitato.’
    “Anna Édes” è stato pubblicato per la prima volta nel 1926, ma, come avviene per tutti i libri molto belli, niente ne rivela l’età- né il contenuto, né lo stile, misurato, pulito, ironico, compassionevole.

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mercoledì 20 giugno 2018

Matsumoto Seicho, “Tokyo Express” ed. 2018


                                                           Voci da mondi diversi. Giappone
                                                         cento sfumature di giallo


Matsumoto Seicho, “Tokyo Express”
Ed. Adelphi, trad. G. M. Follaco, pagg. 175, Euro 15,30

   Nella baia di Hakata, nell’isola giapponese di Kyushu, una giovane coppia viene ritrovata morta: sdraiati uno accanto all’altra sulle rocce (nessuna impronta, quindi), composti, belli e ben vestiti, le guance arrossate lasciano pensare che abbiano ingerito del cianuro. Un suicidio d’amore? Parrebbe così. Eppure l’anziano investigatore della polizia di Fukuoka non è convinto. Non lo è neppure Mihara Kiichi, il più giovane collega di Tokyo. Sayama, l’uomo che è morto, era un funzionario di un ministero al centro di un grosso scandalo. Nessuno era al corrente che avesse una relazione con la ragazza, Otoki, intrattenitrice in un ristorante di Tokyo, anche se altre due ragazze che lavoravano insieme a lei l’avevano vista salire sul treno insieme a Sayama (e se ne erano stupite). C’è poi il dettaglio di una casualità costruita ad arte, che le due ragazze fossero riuscite a vedere la coppia che partiva da un altro binario nei quattro minuti di tempo in cui la visuale era libera, senza che nessun treno passasse sul binario di mezzo- loro due avevano acconsentito alla richiesta di Yasuda, un uomo di affari cliente del ristorante, di accompagnarlo in stazione.

    Il romanzo di Matsumoto Seicho è tutto giocato sul tempo, il tempo fissato dall’orario ferroviario di partenze ed arrivi e durata di percorso. Chi viaggia spesso, come X, conosce alla perfezione gli orari dei treni, per lui il manuale dell’orario ferroviario (a proposito, è una delle cose scomparse con l’avvento di internet) è uno strumento di lavoro. Per sua moglie, a letto per una forma di tubercolosi, è una forma di evasione, un surrogato dei viaggi, la possibilità di spostarsi con la mente e di immaginare i viaggi che non può fare. Mihara Kiichi si intestardisce nelle sue ricerche, l’istinto gli dice che i due giovani sono stati uccisi- perché, ad esempio, Sayama ha cenato da solo nel vagone ristorante del treno? Anche se Otoki non aveva fame, sarebbe stato naturale tenergli compagnia (un dubbio avanzato dall’ispettore di Fukuoka). Perché, poi, Sayama è rimasto cinque giorni, da solo, in un ryokan, aspettando una telefonata? Eppure Yasuda, su cui si appuntano i sospetti, ha un alibi inattaccabile: era nell’Hokkaido, all’estremità opposta del Giappone. Ancora, orario ferroviario alla mano, gli sarebbe stato impossibile uccidere la coppia ad Hakata ed arrivare nell’Hokkaido dove un altro uomo d’affari lo stava aspettando nella sala d’attesa della stazione (non sul binario, perché?).
    Sono questi alibi troppo perfetti, con testimoni che sono presenti al momento giusto, con registrazioni agli imbarchi dei traghetti, là dove dovrebbero essere, che acuiscono la sensazione di Mihara che ci sia qualcosa di sbagliato in tutto ciò. E “Tokyo Express” è un poliziesco che procede ‘alla rovescia’- se un probabile assassino ha avuto una mente così freddamente logica da prevedere assolutamente tutto, calcolando ogni frammento di tempo, l’ispettore di polizia deve adeguarsi al suo modo di pensare e decostruire i suoi alibi procedendo nella stessa maniera.

    Quello di Matsumoto Seicho è un libro estremamente intelligente e intrigante che unisce  in maniera inaspettata il rigore dei numeri alla poesia di squarci di paesaggi giapponesi. Mentre sia l’identità del colpevole sia la motivazione del delitto sono oscuramente chiari fin dall’inizio, seguiamo affascinati la trama nell’attesa che venga svelato come sia stato possibile. Sorridiamo anche fra di noi- solo in Giappone, dove il ritardo medio annuale dei treni è di un minuto e un paio di secondi, si poteva concepire un romanzo come “Tokyo Express”. Non certamente in Italia.

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lunedì 18 giugno 2018

Tishana Doshi, “Il piacere non può aspettare” ed. 2010


                                                       Voci da mondi diversi. Asia
                                                                    love story
      il libro ritrovato

Tishana Doshi, “Il piacere non può aspettare”
Ed. Feltrinelli, trad. Gioia Guerzoni, pagg. 306, Euro 18,00

Titolo originale: The Pleasure Seekers

   “Non era così per noi, Babo. Ci sono così tanti modi di amare una persona…Per noi era una cosa delicata, niente a che vedere con quello che senti adesso. Quello che provi tu è molto raro. Noi lo chiamiamo ekam. Dicono che si possa conoscere una sola volta nella vita, oppure mai. Alcuni lo hanno descritto come entrare in una grotta senza fine. Altri come sentire il cuore che brucia su un fuoco lento di loppa secca. Quando provi questo ekam hai l’impressione di poter eliminare qualsiasi colpa nel mondo, qualsiasi profanazione e qualsiasi sfortuna.”

   E’ il 1968 quando Babo, primogenito della famiglia Patel, lascia Madras per fare un’esperienza di lavoro a Londra. Quando l’aereo atterra a Heathrow Babo ha la prima sgradevole sorpresa: non c’è nessuno ad aspettarlo, dovrà cavarsela da solo per arrivare a casa del cugino che lo ospiterà all’inizio. Seconda sgradevole sorpresa: il costo del taxi. Babo resta quasi senza un soldo. Terza sgradevole sorpresa: deve cercarsi un alloggio, sono troppo allo stretto nel minuscolo appartamento del cugino. Non è finita: Babo ha sempre fame. La sua famiglia è jainista, crede nella non violenza ed è strettamente vegetariana: la cucina inglese non offre molta scelta per un vegetariano. Per fortuna che il suo datore di lavoro è una persona molto gradevole che diventa il suo angelo custode, altrimenti Babo morrebbe di solitudine e nostalgia. Finché tutto cambia, il 25 di novembre 1968, quando Siân Jones appare sulla porta della mensa. E’ gallese, ha i capelli ramati e la pelle color latte. E’ amore a prima vista per entrambi.

    Dei grandi amori si ricorda tutto, ad iniziare dalla data del primo incontro al dettaglio del nastro rosso tra i capelli di lei. I grandi amori ti fanno cambiare senza che tu avverta il minimo sacrificio nel rinunciare a tutto quello che pareva importante. Babo scrive una lettera alla ragazza che corteggiava in India dicendole che la distanza ha spento il suo amore, incomincia a mangiare carne, assaggia l’alcol per la prima volta in vita sua. E naturalmente fa l’amore con Siân, il che sarebbe impensabile con una ragazza indiana prima del matrimonio. Il percorso dei grandi amori è irto di ostacoli, anche questa è una regola: Babo viene richiamato a casa con una menzogna e il padre gli sottrae il passaporto. Ma, e questo è il bello dei grandi amori, tutto finisce bene, dopo che i due passano attraverso la prova dei sei mesi di separazione e Siân raggiunge Babo a Madras.
     Questa è la parte iniziale del romanzo “Il piacere non può aspettare” di Tishana Doshi che- lo indoviniamo dall’intensa partecipazione che avvertiamo nella sua scrittura- ci racconta la storia della sua famiglia. E, in qualche maniera, ci ricorda un’altra grande storia d’amore tra un indiano ed un occidentale: in quegli stessi anni- anni di novità e di rottura- Rajiv, il figlio di Indira Gandhi, si innamorava a Londra dell’italiana Sonia Maino. C’è qualcosa di Sonia, e della sua vita di cui abbiamo letto di recente ne “Il sari rosso” di Javier Moro, nel coraggio spaurito con cui Siân taglia i ponti con il paese nel Galles in cui è cresciuta e con la modesta famiglia che già riteneva che lei si fosse spinta troppo lontano andando a vivere a Londra. E’ l’amore che dà a Siân la forza di affrontare la nuova vita in un paese la cui realtà non sarebbe neppure riuscita ad immaginare e la cui lingua non conosce.

   “Il piacere non può aspettare” è una bella storia d’amore e, nello stesso tempo, la storia di una famiglia mista: nascono due bambine, nessuna delle due ha i colori dorati della mamma. Meglio così: soltanto ogni tre anni, quando vanno a trovare i nonni nel Galles, tutti le guardano perché hanno un’aria esotica. Tishana Doshi ha l’arte di raccontare con vivacità e colore e sa creare un piccolo mondo davanti agli occhi del lettore: ci sono i nonni indiani e quelli gallesi, le zie indiane e le cugine soprannominate ‘le Sopracciglione’, il fratello di Babo che è lo scapolone impenitente finché si innamora (della persona sbagliata). Soprattutto c’è la nonna Ba che ha la saggezza e il grande cuore della vecchiaia, che accoglie il nipote quando soffre di mal d’amore per Siân lontana, così come accoglierà la bisnipote Bean quando questa resta incinta (del solito fedifrago che è già sposato).
    Iniziava con una data e termina con un’altra data, il romanzo della Doshi: il disastroso terremoto del 27 gennaio 2001 nel Gujarat, che colpisce la zona dove abita la nonna e dove Bean sta aspettando il suo bambino. Questo è uno dei tanti agganci con la realtà che cambia e che scorre sullo sfondo della storia di un amore che resta immutato- lo sbarco sulla luna, l’assassinio di Indira Gandhi, il matrimonio di Lady Di…tutto in tono lieve, spesso filtrato attraverso gli occhi della bambina la cui voce (in una maniera strana, perché la narrativa è in terza persona) ci sembra di sentire.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




sabato 16 giugno 2018

Veit Heinichen, “Ostracismo” ed. 2018


                                                           Casa Nostra. Qui Italia
      cento sfumature di giallo


Veit Heinichen, “Ostracismo”
Ed. e/o, trad. M. Pesetti, pagg. 291, Euro 15,30

    Dopo diciassette anni di prigione Aristèides Albanese è tornato a Trieste. La sua presenza non può passare inosservata: alto, capelli raccolti in una coda di cavallo lunga fino al fondo schiena, una barba folta che gli copre il petto, un cucchiaio e un paio di bacchette che fuoriescono dal taschino della giacca. Perché Aristèides è un cuoco (bravissimo e pieno di inventiva, lo vedremo all’opera), aveva un ristorante prima dell’arresto, ha gestito la mensa del carcere ed ora cucina in quella di un centro di accoglienza per i profughi. Ma ha altri programmi in mente: aprire un nuovo ristorante (vicino al Tribunale, si chiamerà ‘Avviso di garanzia’, un nome che suona come una sfida) e vendicarsi di tutti coloro che avevano testimoniato contro di lui al processo in cui era stato condannato per aver ucciso una guardia giurata.
    “Ostracismo”, il nuovo romanzo di Veit Heinichen, lo scrittore tedesco che da anni risiede a Trieste e ci delizia con i suoi libri che hanno per protagonista l’ispettore Proteo Laurenti, è un poliziesco insolito e graffiante. Il fatto stesso che il personaggio principale sia un ex detenuto è insolito, prima di tutto. Che diventi ‘l’eroe’ di cui seguiamo le gesta, facendo il tifo per lui e provando, invece, disprezzo per le persone che, per il ruolo che hanno nella società, dovremmo ammirare- anche questo è insolito. Veit Heinichen si serve di Aristèides e del suo passato per strappare la maschera alla città dalla ‘pensosa grazia’ di Saba, per scoprire i traffici loschi resi facili dalla posizione di frontiera e dal porto con acque profonde che permettono l’attracco anche a grosse navi container. Sono dodici le persone che hanno tradito Aristèides diciassette anni fa, e lui ne spunta i nomi uno dopo l’altro a mano a mano che compie la sua vendetta- il primo è un uomo che ormai non ha neppure più lo status che aveva una volta, quando declamava i versi di D’Annunzio propugnando un disgustoso neo-fascismo di stampo razzista. E’ diventato un alcolizzato che si getta famelico sul pranzo a sorpresa che Aristèides gli ha preparato con i pochi ingredienti che ha trovato, aggiungendo una buona dose di olio di ricino e di semi di ricina grattugiati, e svignandosela poi in incognito.
E’ una perfetta e suprema ironia, una metafora coprofila, l’aver escogitato di far espiare i dodici testimoni spergiuri con la famigerata purga fascista. C’è anche il procuratore Scoglio nella lista. E pure Proteo Laurenti, anche se con un minor grado di colpevolezza. Intanto il lettore segue tre filoni narrativi, di cui quello poliziesco prende in considerazione i casi della armatrice tedesca che muore precipitando da una finestra (è stata spinta: chi è il mandante e chi l’esecutore del delitto? chi aveva interesse a bloccare gli accordi portuali?) e quello del Poeta morto avvelenato. Gli altri due filoni sono le due facce dell’arte del ben cucinare- le nostre papille gustative sono sollecitate dalla descrizione dei piatti preparati da Aristèides, sia quando cucina di nascosto, improvvisando e condendo con olio di ricino (chi saprebbe resistere?), sia quando prepara con amore per la vecchia prostituta che si è presa cura di lui dopo l’assassinio di sua madre (caso irrisolto che rispunta fuori ed è collegato con alcuni nomi dei ‘dodici’) o quando prepara il pranzo per i profughi o, finalmente, per la serata di inaugurazione del nuovo ristorante. A ribadire il tema culinario, una sorta di ‘punto e contrappunto’, c’è il figlio di Proteo che si esibisce preparando per i famigliari quando si stanca dei clienti che non lo soddisfano.

     Prendendoci per la gola, tra un sorso di vino e un piatto di carciofi (meglio quelli senza ricina), Veit Heinichen ci fa conoscere non solo una Trieste dal tessuto sociale molto diverso da quello, idealizzato, di un tempo, ma anche l’ipocrisia, il falso perbenismo, il dilagante razzismo e la pericolosa deriva verso destra della città che una volta veniva portata ad esempio come un ‘melting pot’ italiano.

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mercoledì 13 giugno 2018

Atiq Rahimi, “Pietra di pazienza” ed. 2009


                                                       Voci da mondi diversi. Asia
          la Storia nel romanzo
           il libro ritrovato

Atiq Rahimi, “Pietra di pazienza”
Ed. Einaudi, trad. Yasmina Melaouah, pagg. 109, Euro 17,00


    Sang-e-sabur: Era stato il suocero a parlarle della sang-e-sabur, la pietra magica, la pietra nera davanti alla quale puoi snocciolare tutte le tue lamentele e la pietra le assorbe e tutti i tuoi dolori finiscono dentro di lei, finché un giorno tu sei finalmente libero dalle sofferenze e la pietra va in frantumi. Ecco: il marito che giace in coma è la ‘pietra di pazienza’ della donna che lo accudisce, la moglie che gli parla incessantemente, lo pulisce, gli cambia la flebo.
Il romanzo “Pietra di pazienza” dello scrittore afgano Atiq Rahimi (che attualmente vive a Parigi, dopo aver ottenuto l’asilo politico) è un lungo monologo, “da qualche parte in Afghanistan o altrove”, tra le quattro pareti di una stanza spoglia, con due finestre schermate da tende con un volo di uccelli.
Viene in mente l’Inferno di Sartre, in “Huis clos”, anche se in questa camera ci sono solo due persone. Perché soltanto all’inizio possiamo pensare che la donna si disperi per amore, perché soffre nel vedere il marito ridotto ad un corpo immobile e muto. In realtà, dopo le lamentazioni, dopo la monotona ripetizione di uno dei nomi di Allah nello sgranare del rosario, la donna ci parla di sé e di se stessa nei rapporti con il marito, con suo padre, con i suoceri. Ci racconta che cosa voglia dire essere donna in Afghanistan. E anche che cosa voglia dire essere uomo che sceglie di unirsi alla Jihad, di imbracciare il fucile – chi fa la guerra non è capace di fare l’amore.

    C’è una lenta progressione nelle rivelazioni della donna, è quasi come se il continuo silenzio del marito che è la pietra di pazienza che accoglie i suoi sfoghi la rendesse sempre più ardita in confessioni più audaci. E avvertiamo un astio e un leggero disprezzo nei confronti dell’uomo. Gli rinfaccia l’aver cercato il sangue la prima notte di nozze (e di non essersi neppure accorto che era sangue mestruale), la goffaggine dei suoi approcci, l’averla bandita dal loro letto nei giorni ‘impuri’, l’incapacità e la mancanza di volontà di soddisfarla sessualmente, l’ipocrisia. Quando poi inizia a parlare della zia, ripudiata perché sterile, si apre un altro penoso capitolo sulla miseria della condizione femminile in una società fortemente maschilista e ignorante dei meccanismi della procreazione, tanto da considerare la donna come unica responsabile per le mancate gravidanze.
il film tratto dal libro
Un rimedio c’è, basta saper tenere il segreto. E’ quello che ha fatto la donna, su consiglio della zia e con l’ignara connivenza della suocera. Che credeva di accompagnarla da un santone e si era esaltata per la grazia ricevuta: due bambine, una dopo l’altra. Mater sempre certa est…il padre…chissà.

    Avverrà ancora qualcosa d’altro tra quelle quattro mura, prima che la pietra si sgretoli. Qualcosa di penoso che mette in luce la falsità degli estremismi religiosi, qualcosa che potrebbe anche essere considerato come un toccante atto di generosità da parte della donna- concedersi ad un giovane armato abusato da un altro uomo barbuto- e che farà poi risvegliare il marito. E la sua furia. Mentre fuori, per le strade, si continuano a sentire esplosioni e spari.
    “Pietra di pazienza” è un romanzo. E’ una tragedia dei nostri tempi in forma di romanzo scarno ed essenziale. Che si chiude con l’inquadratura sugli uccelli migratori delle tende: fugga chi può.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net



martedì 12 giugno 2018

Joël Dicker, “La scomparsa di Stephanie Mailer” ed. 2018


                                                Voci da mondi diversi. Svizzera
cento sfumature di giallo


Joël Dicker, “La scomparsa di Stephanie Mailer”
Ed. La Nave di Teseo, trad. V. Vega, pagg. 640, Euro 18,70


     30 luglio 1994. Orphea, un’idilliaca cittadina immaginaria non lontana da New York. Quella sera- proprio quella di apertura del nuovissimo Festival di Orphea- una tragedia aveva sconvolto l’atmosfera sognante: un quadruplice omicidio, l’intera famiglia del sindaco (tre persone, compreso il bambino) e una giovane donna che passava davanti alla loro casa facendo jogging erano stati abbattuti a colpi di pistola. Del caso si erano occupati due giovani ispettori di polizia, Jesse Rosenberg e Derek Scott. Il colpevole era morto durante un inseguimento.
     23 giugno 2014. Fervono i preparativi per l’ormai tradizionale festival annuale di Orphea, a Jesse Rosenberg mancano una manciata di giorni per andare in pensione, tutti si congratulano per una carriera di successo quando spunta una voce discorde. La giornalista Stephanie Mailer insinua il dubbio che nel 1994 la persona sbagliata sia stata incriminata, che Rosenberg e Scott non abbiano visto un’altra realtà che era sotto i loro occhi. Poi scompare. Il suo corpo verrà ritrovato alcuni giorni dopo.

     Questi i fatti del nuovo romanzo di Joël Dicker che ritorna al genere poliziesco che lo aveva reso famoso con “La verità sul caso Harry Québer”, dopo aver sperimentato una sorta di saga con “La famiglia Baltimore”. La vicenda de “La scomparsa di Stephanie Mailer” si svolge su due piani temporali, ricostruendo i fatti del 1994 e seguendo quello che avviene nel presente, vent’anni dopo- ci saranno altri omicidi, una serie di morti concatenati l’uno all’altro in un isterismo parossistico che ci lascia dubbiosi, sulla soglia dell’incredulità- e la narrazione si sposta tra diversi punti di vista arricchendosi delle storie personali dei vari personaggi. Che sono troppi, a dire il vero, e tratteggiati spesso troppo superficialmente.
     Il leit motiv del romanzo è racchiuso in due parole che sono anche il titolo della rappresentazione che andrà in scena nell’edizione del festival del 2014- La Notte Buia. Erano parole che erano apparse anche in scritte sui muri dopo i fatti del 1994- che cosa è ‘la notte buia’? E’ una notte di tregenda, una discesa negli inferi dell’animo umano quando il peggio viene fuori in violenza e sangue. Il nome della città di Orphea ci ricorda che Orfeo era disceso nell’Ade per tirarne fuori la sua amata e poi, uscendone, si era girato indietro per sincerarsi che fosse proprio lei a seguirlo, e non un’ombra. E l’aveva persa per sempre. Perché non si esce indenni dagli inferi. Anche Orphea non sarà più la stessa quando terminerà la notte buia e tutta la verità, con il suo carico di dolore, verrà alla luce in un mondo che ha perso la dimensione dell’idillio e del sogno per rivelarsi totalmente privo di una qualunque morale: “Quando uccidi una volta, puoi uccidere due volte. E quando hai ucciso due volte, puoi uccidere l’intera umanità. Non ci sono più limiti.”

     Del romanzo di Dicker apprezziamo la costruzione, l’aver fatto ricorso alla tecnica drammatica del ‘play within the play’, lo spettacolo dentro lo spettacolo di tradizione scespiriana, cosicché ad un certo punto quello che avviene sul palcoscenico del festival è parte integrante di quanto sta succedendo in città. E tuttavia c’è un eccessivo rimescolamento di carte che certamente mantiene alto il livello di tensione ma ha anche un che di artificioso nell’alternarsi di tragedia e commedia grottesca, nel confronto tra arte e vita. Anche se, in questo registro narrativo, ci sono delle osservazioni che ci deliziano- la graduatoria dell’importanza dei romanzi che mette al primo posto i romanzi incomprensibili e all’ultimo i romanzi rosa, collocando il genere poliziesco al penultimo posto, oppure l’affermazione del molto odiato critico Ostrovsky secondo cui un critico non dovrebbe mai scrivere un romanzo e uno scrittore non dovrebbe mai scrivere una recensione critica del libro di un altro scrittore.  Le rivelazioni del finale, però, hanno dell’incredibile e la soluzione del caso della scomparsa di Stephanie Mailer arriva dopo più di 600 pagine- troppe, non è il caso di dirlo.

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sabato 9 giugno 2018

Hisham Matar, “Il ritorno” ed. 2017


                                              Voci da mondi diversi. Africa
            biografia
         autobiografia
      il libro dimenticato

Hisham Matar, “Il ritorno”
Ed. Einaudi, trad. Anna Nadotti, pagg. 243, Euro 19,50


   C’è un filo che unisce i romanzi di Hisham Matar, lo scrittore libico nato a New York nel 1970 che vive a Londra dal 1986. Un filo che si srotola come il filo d’Arianna, da “Nessuno al mondo”, passando attraverso “Anatomia di una scomparsa”, fino a “Il ritorno”, l’ultimo suo libro che ha vinto il Premio Pulitzer 2017 per la biografia e l’autobiografia. Un filo che collega Hisham Matar al padre Jaballa, il grande assente presente nei tre libri, anche se soltanto nell’ultimo appare con il suo vero nome.
 Jaballa Matar, leader dell’opposizione libica, era stato costretto a rifugiarsi al Cairo con la famiglia nel 1979. Non era stata una misura sufficiente: agenti dei servizi segreti egiziani lo rapirono nel 1990. Consegnato al regime libico, Jaballa Matar fu rinchiuso nel famigerato carcere di Abu Salim, a Tripoli. Riuscì a far arrivare ai famigliari due lettere, una nel 1992 e una nel 1995. Poi silenzio. E nel 2001 si venne a sapere che circa 1200 prigionieri erano stati uccisi ad Abu Salim in un’esecuzione di massa. La famiglia di Jaballa aveva perso ogni speranza che lui potesse essere ancora vivo. Poi una fiammella- forse era stato trasferito in un altro carcere due mesi prima della carneficina, forse qualcuno lo aveva visto nel 2002. Nel 2010 il ministro degli esteri britannico fu sollecitato con una petizione firmata da 270 scrittori perché richiedesse il ripristino dei diritti umani in Libia e ottenesse informazioni su Jaballa Matar e altri prigionieri politici. E infine, nel 2011, l’ultimo atto di una dittatura durata 42 anni con l’uccisione di Gheddafi.
Hisham Matar con il padre Jaballa
     “Il ritorno” è il viaggio di Telemaco in cerca del padre e Hisham Matar è un novello Stephen Dedalus che cerca di mettere insieme i frammenti della memoria e delle testimonianze per ricostruire l’immagine di un uomo di gran valore, per cultura, per dirittura morale, per i suoi ideali, la sua incorruttibilità, la sua generosità. Ritroviamo alcuni dettagli che ricordiamo dagli altri romanzi, perché, con un nome o con un altro, nascosti dietro altre trame, Jaballa e la sua scomparsa erano il nodo della narrativa di Hisham Matar. Così come il dolore che si avverte in ogni pagina, in ogni riga, quando lo scrittore parla del padre, di come era in famiglia nei vent’anni in cui aveva potuto conoscerlo, e poi di come può solo immaginarlo negli altri vent’anni in prigionia. Un’immagine costruita attraverso le scarse e saltuarie parole di chi gli ha parlato attraverso un muro o lo ha intravisto da una feritoia. E allora sembra che il petto possa scoppiare per il dolore al pensiero di quello che Jaballa deve aver sopportato. Lo zio Mahmoud è sopravvissuto ad Abu Salim, i cugini di Hisham sono sopravvissuti. Le ricerche sono estenuanti. Saif Gheddafi, il figlio del dittatore con cui Hisham entra in contatto, sembra fare il gioco del gatto con il topo, sembra stuzzicare la speranza, lascia cadere informazioni con il contagocce.
Hisham con lo zio Mahmoud
    E intanto, leggendo la storia di un uomo eccezionale, leggiamo anche quasi cento anni di storia della Libia (il nonno di Hisham aveva combattuto contro gli occupatori italiani) e percepiamo un altro dolore dietro quello, cocente, di doversi rassegnare ad avere perso un padre senza aver mai saputo ‘quando’ e ‘come’, senza avergli potuto dare sepoltura. E’ il dolore di chi ha perso le sue radici e la sua appartenenza e non sa più identificarsi.
    Da leggere.

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