domenica 30 novembre 2014

Henning Mankell, "Muro di fuoco" ed. 2005

                                                                  vento del Nord
          cento sfumature di giallo
          il libro ritrovato

Henning Mankell, “Muro di fuoco”
Ed. Marsilio, trad. Giorgio Puleo, pagg. 517, Euro 18,00



  “La gente ha l’abitudine di dire che la tecnologia ha reso il mondo più piccolo” disse Hökberg. “E’ un concetto opinabile. Ma è indubbio che il mio mondo è diventato più grande. Da questa casa alla periferia di Ystad, io posso operare su tutti i mercati del mondo. Posso contattare agenzie per scommesse a Londra o a Roma. Posso chiedere un’opzione alla Borsa di Hong Kong e vendere dollari americani a Giacarta.”


C’è solo Henning Mankell che è capace di tenere avvinto il lettore per più di 500 pagine, e, ancora, c’è solo Henning Mankell che è in grado di mantenere in vita il personaggio di un ispettore, in una serie che è arrivata all’ottavo romanzo, senza conoscere cedimenti e senza stancarci. E c’è un’altra cosa che non cessa di stupirci nell’autore svedese: la grandiosità delle sue trame. Mankell è grandioso- il Male, nei romanzi di Mankell, non è mai il male con la m minuscola, lo striminzito e meschino male di provincia che ci si potrebbe aspettare nella regione periferica della Scania. Non si tratta mai di delitti dettati da avidità o passione o gelosia o vendetta, è un Male immaginifico e grandioso che muove le sue trame in ampi spazi, attraversando i confini, superando le barriere del tempo- e pensiamo agli ultimi due libri pubblicati da Marsilio, “La leonessa bianca” e “L’uomo che sorrideva”. Se sostituiamo il titolo italiano “Muro di fuoco” con il vocabolo inglese Firewall, comprendiamo immediatamente che il nodo centrale del nuovo romanzo di Mankell è nascosto nei computer, difeso da protezioni ad altissima sicurezza a prova di hacker. L’inizio può trarre in inganno, e non solo il lettore, visto che lo stesso Kurt Wallander pensa che il tassista brutalmente assassinato da due ragazzine sia un caso che dimostra la scelleratezza dei tempi in cui viviamo, la degenerazione dei giovani. Poi succede dell’altro: un blackout fa piombare l’intera Scania nel buio totale e, subito dopo, viene trovato in una centrale elettrica il corpo carbonizzato di una ragazza; il cadavere di un uomo scompare dall’obitorio per riapparire- con due dita mozzate- vicino allo sportello di bancomat dove era stramazzato a terra, presumibilmente colpito da un infarto; su un traghetto per la Polonia muore un ragazzo orrendamente maciullato dall’elica. Non sembra esserci alcun nesso tra queste morti, eppure…qualcuno spara a Wallander mentre questi entra nell’appartamento del morto del bancomat, il ragazzo era amico dell’assassina del tassista, spunta un uomo dai lineamenti asiatici, vengono trovate una cartolina e una fotografia che portano a Luanda, in Angola.
Non diciamo altro riguardo alla trama che è ricca di colpi di scena, di tensione e di sorprese. Ma soprattutto ci pone dei quesiti che ci fanno riflettere sul mondo in cui viviamo, su dove ci abbiano condotto le nuove tecnologie, su quanto ci abbiano reso vulnerabili proprio le innovazioni che ci fanno sentire padroni dell’universo. E’ la concezione stessa dello spazio che è cambiata: quando Wallander trova scritto in un appunto che lo spazio tace, il suo pensiero va allo spazio della poetica romantica e invece si tratta dello spazio attraversato in una frazione infinitesimale di tempo da un messaggio inviato da un computer. Mai come adesso il mondo è stato così piccolo e così facilmente raggiungibile in ogni suo angolo, ma, nello stesso tempo, mai è stato così trasparente e fragile: se si riesce a intercettare persino un banale annuncio personale del nostro Wallander, che si sente solo e cerca una donna, possiamo immaginare le conseguenze che può scatenare un sabotaggio finanziario eseguito attraverso la rete elettronica. Ed è quello che succede in “Muro di fuoco”.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



                                                              

giovedì 27 novembre 2014

Maria Venegas, "La figlia del fuorilegge" ed. 2014

                                               Voci da mondi diversi. America Latina
fresco di lettura


Maria Venegas, “La figlia del fuorilegge”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. M. Faimali, pagg. 376, Euro 15,30
Titolo originale: Bulletproof Vest: The Ballad of an Outlaw and His Daughter


Se potessi fare uno scambio di teste, rinuncerei alla sua pur di riavere indietro mio fratello. All’epoca correva voce che l’omicidio di mio fratello avesse qualcosa a che vedere con mio padre, una vecchia faida o qualcosa del genere. Si diceva che qualcuno fosse stato pagato per uccidere Jose Manuel Venegas e avesse fatto fuori la persona sbagliata. Perfino mia madre dava la colpa a mio padre. Secondo lei Dio si era preso mio fratello per ‘occuparsi’ di mio padre- in modo che si decidesse ad abbandonarsi al Signore una volta per tutte.


     Bajaron al Toro Negro. Hanno abbattuto il Toro Nero. Nelle parole del primo pensiero che passa per la mente a Pascuala quando apprende della morte del marito cogliamo stupore, incredulità e, sì, ammirazione. Pascuala e Jose erano separati da più di vent’anni- lui dava la colpa agli alleluia (la Chiesa che Pascuala si era messa a frequentare troppo assiduamente), lei agli eccessi di lui-, eppure c’è qualcosa di così violento e definitivo nel verbo bajaron che usa Pascuala, come se fosse necessaria una forza bruta per uccidere un uomo che aveva sette vite come i gatti, che era già sfuggito infinite volte alle grinfie della morte, qualcosa che comunica rispetto nell’immagine grandiosa e selvaggia del Toro Nero che si distingue da tutti gli altri e che non può semplicemente essere ucciso, deve essere abbattuto.

     Jose Venegas è il Toro Nero che si ammira e che si teme, un personaggio affascinante nella sua complessità e nella sua negatività. La figlia Maria Venegas gli dedica un romanzo, “La figlia del fuorilegge”, un memoir che narra per lo più le vicende della vita del padre inframmezzandole, a tratti, con quelle della sua propria vita, spostando il racconto tra il Messico e gli Stati Uniti. E se, all’inizio, prevale il sentimento di rifiuto, quasi di odio, per un padre che ha abbandonato la moglie e gli otto figli, si è messo con un’altra donna, ha ucciso non sa neppure lui quanti uomini, è stato la causa dell’assassinio del figlio primogenito, ha scontato anni di prigione, è scampato miracolosamente ad imboscate per essere infine rapito dai membri di un cartello della droga, a poco a poco Maria si riavvicina al padre, forse perché si sente simile a lui- l’ereditarietà non perdona-, perché ama il paesaggio messicano quanto lui, perché gode della vita primitiva che fa quando va a trovarlo, perché prova un istinto di protezione nei confronti di un uomo che deve essere difeso da se stesso e dalla sua inclinazione al bere fino a mettersi in situazioni di pericolo- come troppe volte è successo.

      Le parti del romanzo in cui Maria parla di sé, dei suoi studi, delle sue esperienze amorose e poi dei primi tentativi di scrittura sono interessanti ma pallide, di certo è Jose Venegas che ruba la scena, che si impone di prepotenza sulla pagina. Ogni volta che i ricordi di Maria si volgono al passato, alla paura che tutti loro avevano quando lui si metteva a sparare perché ubriaco, o a quando avevano dovuto abbandonare in fretta la casa per timore di una qualche vendetta, prevale l’astio verso un padre che non permette ai figli di avere una vita tranquilla come i compagni di scuola. Eppure quella del padre è già un’immagine ingigantita dalla fantasia infantile, nutrita dalle leggende familiari- il padre soprannominato il cento vacche, il padre che corteggiava Pascuala, il padre bambino a cui la madre aveva ordinato di non tirarsi mai indietro, il padre e il suo fucile appeso sopra il letto, il padre con la pistola sotto il cuscino-, diventa l’uomo che affascina anche se non si approvano le sue azioni.
E quando Maria incomincia ad andare a passare dei lunghi periodi in Messico con lui, conosce un altro suo aspetto: Jose Venegas che tratta cavalli e vacche con ‘sentimento’, che fiuta l’aria avvertendo il temporale, che conosce ogni erba e ogni sasso di quelle distese vaste e desertiche che aprono la porta su un altro mondo, lontano anni luce da Chicago o da New York. Jose Venegas riesce a farsi amare, cancellando il ricordo di un padre indifferente.
     Jose Venegas aveva già scritto prima di morire il suo ‘corrido’- la ballata o racconto di stile popolare così diffusa in Messico- anche se mancava la fine che non poteva conoscere. Sua figlia Maria ha scritto per lui questo romanzo fatto di sentimenti forti e violenti, aspri come lo è la natura di quella terra: il più bel corrido che Jose Venegas potesse avere.

la recensione e' stata pubblicata su www.wuz.it


     

Maria Venegas, "La figlia del fuorilegge" ed. 2014



                                                      Voci da mondi diversi. America Latina
                                                     musica per un libro

Jose Venegas, il padre della scrittrice, il protagonista 'larger than life' del romanzo "La figlia del fuorilegge", aveva espresso il desiderio che al suo funerale venisse cantata "Las golondrinas", una canzone in cui ci si domanda dove voleranno le rondini quando trasmigrano- un'immagine che richiama la vita di Jose stesso, emigrante dal Messico agli Stati Uniti e poi ritornato in Messico, con una parte di cuore in America dove erano rimasti i suoi figli.

martedì 25 novembre 2014

Susan Vreeland, "Una ragazza da Tiffany" ed. 2010

                                      Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America              
                                                           painting fiction
                                                           il libro ritrovato


Susan Vreeland, “Una ragazza da Tiffany”
Ed. Neri Pozza, trad. Massimo Ortelio, pagg. 498, Euro 18,00

Titolo originale: Clara and Mr. Tiffany   
 
    Non era il quinto giorno che Dio diceva: Brulichino le acque di moltitudini di esseri viventi? Libellule! Libellule che sfrecciavano intorno ad un sole fiammeggiante, sopra una piccola cupola di luce, splendida come la volta celeste! Niente filigrana, il vetro delle ali avrebbe avuto venature violette, se non magenta, contro un cielo turchino. Nella frenesia del volo, le piccole ali si sarebbero sovrapposte creando imprevedibili combinazioni di colore.



    Immaginate del glicine. Immaginate una cascata di grappoli di glicine su un muro assolato. Immaginate il colore dei fiori, le diverse tonalità di azzurro, o di lilla. Immaginate la perfezione della natura in quegli infiniti petali che si ammassano, ricadendo l’uno sull’altro, con una leggerezza e una grazia senza pari. Ora immaginate che questa pianta di glicine sia in qualche modo riportata sul vetro del paralume di una lampada e che sia illuminata dall’interno: si accenderà di vita, le sfumature dei petali palpiteranno. Farà restare senza fiato ad ammirarla in una commozione stupita.
     E’ difficile mettere in parole quello che si prova leggendo “Una ragazza da Tiffany”, il nuovo romanzo di Susan Vreeland, pubblicato in italiano prima ancora che in originale. E’ la gioia tranquilla della visione dell’arte, perché, raccontandoci la storia di Clara Driscoll, disegnatrice di vetri per la Tiffany Glass &Decorating Company, la scrittrice americana ci racconta anche di come sono nate le famose lampade di vetro a piombo ormai note come ‘di stile Tiffany’. Ci parla delle idee ‘dietro’ i paralumi, delle visioni che li hanno ispirati- libellule e cavallucci marini, papaveri e peonie, farfalle e oche selvatiche, glicine e gelsomini. Ci fa ‘vedere’, insieme a Clara Driscoll. Prima la natura, poi l’imitazione della natura sul vetro. Quando l’arte sembra persino più bella del vero. Ci porta dentro il laboratorio di Clara, ci fa seguire le tecniche di lavorazione, le difficoltà pratiche di adeguare il vetro alla visione che è diventata disegno, i problemi che insorgono davanti ai costi delle lampade- ognuna un oggetto d’arte squisito e di grande valore, troppo elevato per il mercato degli acquirenti medi. C’è di che restare incantati.

    Ma non è tutto. Susan Vreeland ha letto l’epistolario di Clara Driscoll e, sulla base di quello, ci dipinge il ritratto di una giovane donna di fine ottocento, che lavora, che ama, che si muove in una New York che sta iniziando a diventare la metropoli che è ora. Tra il 1892 e il 1908 Clara disegna le prime lampade, rende famoso Louis Tiffany con le sue creazioni, riesce a dare uno spirito di corpo alle altre ragazze che lavorano con lei, riesce addirittura a renderle consapevoli dei loro diritti come lavoratrici operaie sfidando un mondo in cui la manodopera è quasi soprattutto maschile e in cui i sindacati accettano solo le iscrizioni degli uomini. “Una ragazza da Tiffany” diventa, così, il romanzo di un’epoca di grandi cambiamenti- sociali, economici, di costume- ambientato nella città che aveva inaugurato da poco il ponte di Brooklyn, il più lungo ponte sospeso, e dove i primi grattacieli suscitano meraviglia e perplessità:
Clara cita più volte il Flatiron, l’insolito grattacielo a pianta triangolare che deve il nome al fatto che sembra un ferro da stiro e che fu terminato nel 1902. Le carrozze cedono a poco a poco il posto alle automobili, Clara abita in una pensione i cui altri inquilini sono artisti e intellettuali: in questo ambiente l’omosessualità è tacitamente accettata, non fa scandalo e ci stupisce un poco che Clara, così aperta alle diverse inclinazioni altrui, si attenga ad una stretta moralità per quello che la riguarda. Passano molti anni prima che Clara, vedova non particolarmente bella anche se non priva di un suo fascino, trovi l’amore: il secondo uomo della sua vita scompare all’improvviso e il terzo deve prima liberarsi dai legami di un matrimonio. Forse è proprio perché è così libera da legami famigliari che Clara riesce a dedicarsi interamente alla sua arte: l’arte diventa il valore supremo, arte come ispiratrice del bene, arte come elevazione dello spirito. Arte che contagia, anche noi attraverso la bella scrittura di Susan Vreeland.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




      

Susan Vreeland, "Una ragazza da Tiffany" Intervista del 2010

                                     Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                               painting fiction


 INTERVISTA A SUSAN VREELAND

    Abbiamo ricordato insieme, Susan Vreeland ed io, l’evento di cui la scrittrice è stata protagonista al Festival della Letteratura di Mantova del 2004. Era l’anno in cui era stato pubblicato il suo romanzo sulla pittrice Emily Carr, “L’amante del bosco”, e l’incontro con i lettori si teneva sotto un enorme tendone a Campo Canoa, uno degli spazi più ampi del festival. Quando Susan Vreeland era salita sul palco, il pubblico, numerosissimo, l’aveva applaudita a lungo, con calore. Ricordo di aver pensato che era straordinario che una simile accoglienza venisse riservata ad una scrittrice- mi sarei stupita di meno se fosse stato un cantante al centro della scena. E Susan Vreeland mi dice di quanto si fosse emozionata lei: era stato uno dei momenti più belli della sua carriera di scrittrice. Ci troviamo ora per parlare del suo ultimo romanzo, che parla di un’altra artista, Clara Driscoll, la disegnatrice delle lampade Tiffany.


E’ stata una donna o è stata una lampada ad ispirarla a scrivere questo libro? Chi è venuta per prima?

     E’ venuta per prima Clara: l’ho ‘incontrata’ alla mostra del 2007 dove ho potuto vedere le meravigliose vetrate e le lampade. E tuttavia sono stata subito attratta dalle lettere scritte a mano che erano in mostra: che cosa scriveva? Era un mistero da scoprire, le lettere me lo avrebbero svelato. Su un livello personale mi avrebbero rivelato la storia di diversi uomini nella sua vita: il marito prima, poi Edwin che scomparve all’improvviso e infine l’uomo che ha sposato, quello che nel romanzo io chiamo Bernard ma che in realtà si chiamava Edward Booth- mi sembrava che due personaggi con un nome così simile, Edwin e Edward, potessero creare confusione. Su un secondo piano rimasi affascinata da come era coinvolta con la città di New York: parlava di elezioni, della folla che si accalcava per ascoltare i risultati, della palla luminosa che veniva calata allo scoccare della mezzanotte della fine dell’anno, di tutte le cinque zone di New York. Era anche lì quando la metropolitana venne inaugurata. Clara aveva una vita personale, artistica e pubblica nella metropoli.

 Mi sono domandata se, nel fatto che Lei scelga sempre delle donne eccezionali come protagoniste dei suoi romanzi, ci sia anche un voluto ricordo e ringraziamento nei confronti di donne che hanno preparato la strada per noi, donne del secolo XXI.
      Nel discorso che farò questa sera dirò che ho trovato in Clara le stesse qualità che ho trovato in Artemisia: il coraggio, l’indipendenza, il talento, la devozione all’arte. In un certo senso Clara, una donna del secolo XX è la figlia di Artemisia del secolo XVII. Quello che fece per le 35 donne nel suo dipartimento è stupefacente. Anche se poi le donne presero un’altra strada, non erano più le stesse. Nellie, ad esempio, così umile e timida, dopo l’esperienza del lavoro nello Studio, si raddrizza e se ne va come orgoglioso membro della classe operaia. E sì, certamente, penso che si debba essere grate a queste donne che ci hanno fatto strada.

Artemisia, Emily Carr, Clara: che cosa hanno in comune queste donne, oltre all’amore per la bellezza? Ha già detto che hanno lo stesso coraggio, lo stesso senso di indipendenza…che altro essenzialmente?
    Erano tutte donne pronte a sacrificarsi personalmente per quell’amore della bellezza. Mettevano l’arte prima di tutto, poi alla fine, però, Clara decise che non sarebbe restata da Tiffany quando finì la sua indipendenza come creatrice di oggetti d’arte. Il lavoro sarebbe diventato ripetitivo e a lei non andava affatto bene, non era quello che voleva. C’era molto per cui lottare per le donne dell’epoca: pensiamo al fatto che da Tiffany non venivano assunte donne sposate. Ma, d’altra parte anche mia madre ha dovuto lasciare il lavoro quando si fidanzò- ed era il 1942…

Si parla molto di bellezza nel libro: la bellezza ha una forza etica, secondo Lei?
      Se si è innamorati della bellezza, penso che si faccia di tutto per mantenerla e per condividerla. La bellezza non ci rende migliori e però pensavano così quelli che aderirono al British and American Arts and Crafts Movement di quel periodo. Si pensava che l’apprezzamento della bellezza rendesse gli individui e la società migliori. Personalmente penso che l’apprezzamento della bellezza ti renda una persona più ricca e più profonda, faccia di te un amico migliore, più spirituale.

 Si può insegnare alle persone a vedere la bellezza oppure questa è una capacità innata?
       Penso che si possa insegnare a vedere la bellezza. Mio marito era una persona capace di vedere intensamente la bellezza della natura ma non quella creata dall’uomo Adesso, dopo tanti anni che stiamo insieme, mi sento ricompensata quando lo sento parlare di un quadro, o di un affresco, o di una scultura. Penso che venticinque anni al mio fianco abbiano ampliato il suo senso della bellezza. Sì, penso proprio che ci siano persone che hanno innata la capacità di vedere la bellezza, ma anche che si possa esporre alla bellezza qualcuno che non ha questa qualità innata, in modo che si senta commosso.

 Di quale delle lampade si è innamorata, mentre le studiava per il romanzo? E quali sono le sue reazioni di fronte a queste opere d’arte che sono così diverse da un quadro?

    Mi sono innamorata di una delle lampade con le libellule in diverse sfumature di blu: sono aria e acqua. Non c’è nessun elemento umano, è natura pura, puro colore e forma. E’ qualcosa di più astratto di un quadro in cui l’elemento umano è presente. E’ un tipo di arte più astratto. Quando vedi le lampade senza la luce accesa sono solo la metà belle di quanto lo sono accese: c’è un insieme di ciò che è fatto dall’uomo e di ciò che è naturale. Sono come gioielli: quelle con le libellule sono gioielli liquidi.


l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it

lunedì 24 novembre 2014

Margaret Forster, "La damigella sconosciuta" ed. 2014

                                    Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
         fresco di lettura

Margaret Forster, “La damigella sconosciuta”
Ed. e/o, trad. C. De Caro, pagg. 263, Euro 15,30  
Titolo originale: The Unknown Bridesmaid

    Aveva mentito. Nel momento in cui aveva omesso di accennare a quella parte del pomeriggio, quella in cui aveva portato il piccolo Reggie a fare una passeggiata, cominciò a sentirsi male. Le bugie portavano altre bugie, le aveva sempre detto sua madre, e si finiva sempre nei guai.

      “La damigella sconosciuta”: c’è già tutto nel titolo del romanzo di Margaret Forster. Quando Jane aveva otto anni, aveva fatto da damigella d’onore al matrimonio della cugina Iris. Le avevano fatto delle foto insieme agli sposi e alle altre damigelle. Anni dopo una di queste foto era stata pubblicata su un giornale, per illustrare un articolo sui cambiamenti della moda degli abiti da sposa nel tempo. La dicitura sotto la fotografia indicava i nomi delle persone ritratte, tranne che per Julia, però, dove si diceva ‘damigella sconosciuta’. E Julia resterà sconosciuta: è difficile conoscere Julia, terminiamo la lettura del libro e non sappiamo che cosa pensare di lei, ci pare di sapere tutto, eppure la sua personalità è sfuggente, ambigua. Ed è su questo che gioca l’attrattiva sottile del romanzo, perché la narrativa è in terza persona ma è interamente dall’unico punto di vista di Julia, sia quando ricostruisce il passato, sia quando racconta il presente.
     Julia era cresciuta con la madre, aveva pochi ricordi del padre, morto presto. Una madre rigida, che aveva idee chiare su quello che una bambina potesse o non potesse fare, su come dovesse comportarsi, su che cosa fosse adatto per le sue orecchie di bambina e che cosa invece non dovesse sapere. Per Julia bambina c’è sempre un alone di mistero e di segretezza intorno ai grandi eventi di quei primi anni- la morte prematura del marito della cugina poco dopo il matrimonio (e Julia ha dimenticato di dare a Iris una scatoletta che lui le ha affidato in chiesa- un segreto, non deve parlarne con nessuno), la gravidanza che strappa Iris dal torpore, il secondo dramma della scomparsa del piccolo Reggie. Questa mancanza di chiarezza nel linguaggio, che contribuisce ad una certa confusione mentale, è un retaggio di pudore vittoriano e ci aiuta ad entrare nel piccolo mondo chiuso della provincia inglese. Il bambino Reggie non scompare, muore. E qui inizia la storia della personalità doppia e contorta di Julia.
    Nella narrazione che si svolge nel presente Julia è una psicologa infantile e la vediamo intenta, nei vari capitoli, a parlare con qualche bambina (le sue pazienti sono tutte bambine di una fascia di età- non a caso- tra gli otto e i quindici anni).
Ci rendiamo conto, a poco a poco, che le malefatte delle bambine, tutti i loro comportamenti anomali, le piccole azioni di crudeltà criminale, il rifiuto delle persone che sono loro vicino, le menzogne, i furtarelli- tutto ha un richiamo nel passato di Julia, nella bambina che era e in quello che ha fatto. Julia che disobbedisce, spinge la carrozzina di Reggie sul marciapiede facendola capovolgere: il bambino è morto perché ha picchiato dalla testa o è morto per la sindrome ‘morte nella culla’? comunque Julia tace, non confessa mai di essersi spinta fuori dal cancello. E’ questo primo occultamento della verità che provoca i comportamenti degli anni seguenti che paiono essere suggeriti da uno spiritello maligno? E’ la gelosia che la spinge a mettere in pericolo la cuginetta Elsa, nata dal secondo matrimonio di Iris? E’ il desiderio di sentirsi invincibile che la spinge a rubacchiare senza che nessuno se ne accorga? Finché ci sono episodi più gravi, il marito di Iris la porta da una psicologa e Julia scappa.
  
  C’è uno sdoppiamento nella narrazione ma anche uno sdoppiamento nella personalità di Julia. I suoi studi e il suo lavoro avrebbero dovuto insegnarle diversamente, eppure si decide solo ora, da adulta, a rivangare il passato e a confessare a Iris  la sua probabile colpevolezza. A che cosa serve?- le urla Elsa, adulta anche lei ora, che ha intercettato la lettera indirizzata a sua madre. E’ un’ambiguità che ci disturba, la capacità di Julia di interpretare correttamente le motivazioni del comportamento delle sue piccole pazienti, l’evidente empatia per dei casi in cui rivede se stessa, e poi, invece, la totale incapacità di leggere chiaro dentro di sé.
     Un romanzo capace di scavare, con leggerezza, nella psiche infantile cercando nel passato le cause di una fragilità interiore difficile da sanare nell’adulto, scritto con la meravigliosa raffinatezza che sembra essere una prerogativa delle scrittrici inglesi.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


   


sabato 22 novembre 2014

Susan Vreeland, "L'amante del bosco" ed. 2004

                                              Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                                       painting fiction
           il libro ritrovato


Susan Vreeland, “L’amante del bosco”
Ed. Neri Pozza, trad.Chiara Gabutti, pagg. 462, Euro 17,00

I nativi la chiamavano hailat, “persona con il potere dello spirito nelle mani”, quella donna audace che si era spinta nelle loro terre al Nord, in Canada, indossando una gonna che aveva cucito in mezzo alle gambe per trasformarla in un più comodo pantalone, avida di conoscere le loro storie, pronta a condividere le loro esperienze, capace di mettere su tela la luce che filtrava tra gli alberi giganteschi trasformando la foresta in una cattedrale, il colore cupo degli abeti e quello squillante dei pali totemici con le figure di Corvo, di Orso, di Aquila e di altre creature, una seduta sulle spalle dell’altra- i potenti antenati in cui loro si identificavano. Non è molto conosciuta al di fuori del Canada, la pittrice Emily Carr, vissuta tra il 1871 e il 1945, che è al centro del nuovo romanzo della scrittrice americana Susan Vreeland, “L’amante della foresta”. Una figura di donna anticonvenzionale che rifiuta le regole strette della morale e della società del suo tempo, i canoni tradizionali della bellezza e gli scialbi colori dell’acquarello, per seguire quella che lei pensa essere la sua missione: preservare nei suoi quadri i totem degli indigeni, prima che marciscano o vengano rubati o venduti.
Dedicare la sua vita all’arte significa, per Emily Carr, non soltanto affrontare i disagi e i pericoli di un viaggio in una terra inospitale, ma anche l’opposizione della sua famiglia, le difficoltà economiche, i pregiudizi della gente e, soprattutto, il mancato riconoscimento del valore dei suoi quadri. Ci vorranno anni prima che il Canada senta la necessità di trovare un’identità nel suo paesaggio e nel retaggio culturale delle popolazioni che l’abitavano prima dell’arrivo dell’uomo bianco, e prima che sia pronto a “vedere” i quadri della Carr, che si appropria dello stile indigeno che sente suo, distorcendo le immagini per dare espressione, applicando pennellate forti e cupe, dipingendo i totem in cui non c’è distanza tra animale e uomo, tra natura e spirito. Abbiamo già potuto apprezzare la sensibilità con cui Susan Vreeland si avvicina alla pittura nel romanzo precedente, “La passione di Artemisia”, e ritroviamo lo stesso tocco felice ne “L’amante della foresta”, capace di ridare vita ad un personaggio vero mescolando realtà biografica e finzione narrativa, circondandolo di altre figure, le sorelle diffidenti della sua stravaganza, un innamorato per cui la Carr non ha tempo, l’amica squamish che seppellisce un bambino dopo l’altro, l’uomo reso folle dalla severità del padre missionario, la pittrice neozelandese.
Ma forse il merito maggiore della Vreeland è quello di prestarci gli occhi per vedere i quadri di Emily, con tutte le storie che ci sono dietro che raccontano di coraggio e di disperazione, di morti e di nuove vite, in un ciclo continuo.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net







Susan Vreeland, "La ragazza in blu" ed. 2003

                                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                                painting fiction
                                                               il libro ritrovato

La vita in un quadro
Susan Vreeland, "La ragazza in blu"
Ed. Neri Pozza, pagg.168, Trad. Maria Clara Pasetti, Euro 14,00

E' il blu il colore dominante nel nuovo libro di Susan Vreeland nel filone della "painting fiction" - arte per rappresentare la vita, romanzo per parlare di un quadro e della vita che nasconde. Blu dello scialle sulle spalle della ragazzina nel dipinto, blu ceruleo degli occhi che sembrano prendere il colore dallo scialle che si schiarisce nella luce, come il blu delle maioliche di Delft, quelle dei pavimenti nei quadri di Vermeer, e il blu dei cieli d'Olanda spazzati dal vento. O il blu dei giacinti, come è il titolo originale del libro, che si vendono a tutti gli angoli di strada, in Olanda. Questa volta non troviamo nel libro né la storia di un quadro né quella di un pittore e neppure di chi ha posato per lui: sono otto storie diverse in tempi diversi, di persone la cui vita è stata in qualche modo toccata dal quadro della ragazzina che guarda lontano, oltre la finestra, un futuro sognato, chissà. Solo la prima storia non è ambientata in Olanda, ma in un college americano, in cui il professore Cornelius Engelbrecht mostra ad un collega il quadro di Vermeer della ragazza in blu. Perché glielo fa vedere? Perché vuole una conferma sull'autenticità del quadro? Perché l'arte non esiste se non ci sono occhi per vederla? Il collega non crede possa essere un Vermeer originale, sarebbe in un museo, come potrebbe possederne uno Cornelius? E Cornelius racconta la storia del padre che nel 1942 era stato ad Amsterdam con l'esercito tedesco e aveva "soltanto accompagnato" gli ebrei ai treni.
Tutte le storie seguenti risalgono indietro nel tempo, a gradini di mezzi secoli o di secoli, ai precedenti possessori del quadro, il legame di bellezza tra di loro, testimone di storie drammatiche in cui ogni sprazzo di felicità ha il suo prezzo in dolore. Entriamo nella casa della famiglia ebrea che si prepara al seder, è il 1942, i tedeschi stanno rastrellando le vie di Amsterdam e la risposta della bambina alla domanda rituale con cui si inizia la lettura della Bibbia per i giorni di Pasqua, "in che cosa è diversa questa notte da tutte le altre?", è: "era cominciata la vita vera", quella in cui la morte è una realtà. Seguono poi le storie della coppia borghese che regala  il quadro alla figlia che si sposa, quella del bambino ritrovato insieme al quadro da due contadini nella loro barca, mentre le dighe hanno ceduto, l'Olanda è sott'acqua ed è il1717, quella della ragazza-madre accusata di stregoneria e infine le storie del pittore stesso e di sua figlia Magdalena, quando lui aveva fissato su tela l'immagine di lei trasformandola nella ragazza in blu con la lama di luce sul volto che guarda lontano e ha ancora la vita davanti. E quando Magdalena vende il quadro si separa per sempre dalla ragazza che è stata in cui non si sa più riconoscere. Altri la vedranno, senza sapere niente di lei, ma è questo il valore dell'arte, consegnare il momento all'eternità, come dice il verso di Keats, "una cosa di bellezza è una gioia per sempre".

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net







giovedì 20 novembre 2014

Susan Vreeland, "La passione di Artemisia" ed. 2002

                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                                   painting fiction
il libro ritrovato


Una donna moderna del '600
Susan Vreeland, "La passione di Artemisia"
Ed. Neri Pozza, pagg. 317, Euro 15,50

In copertina una donna con un abito rosso - il colore della passione. Il viso  assorto, e si intuisce che la passione è tutta lì, nello sguardo abbassato sulle mani che sfiorano uno strumento musicale. La passione per l' arte, la stessa che prova Artemisia Gentileschi che ha dipinto questa Santa Cecilia. Il romanzo di Susan Vreeland inizia nel 1612: il pittore Orazio Gentileschi ha citato al tribunale dell' Inquisizione di Roma l' amico Agostino Tassi per aver violentato sua figlia, la diciottenne Artemisia. L' umiliazione dell' interrogatorio che mette in dubbio l' integrità e la sincerità della ragazza, la visita medica sotto lo sguardo di tutti, il tradimento del padre che pensa solo alla sua pittura, il matrimonio combinato con un pittore di Firenze. Artemisia ha già dipinto delle grandi tele, dipinge da quando era bambina, dipingere è, per lei, una maniera di vivere, è sentire la vita con maggiore intensità degli altri, è essere più vivi degli altri. La sua non è una pittura convenzionale, perché lei non è una donna convenzionale. Suo padre dirà che è la Sibilla di una nuova era (che rivincita su quello stesso termine usato per indicare la tortura a cui era stata sottoposta, come una prova della verità!). Artemisia osserva, riflette, guarda le cose da un' altra prospettiva. Artemisia diventa Giuditta che uccide Oloferne (non avrebbe ucciso volentieri Agostino?). Artemisia è Susanna guardata con lascivia dai vecchioni; Artemisia è, contro la sua volontà, Lucrezia che si uccide per la vergogna dello stupro.
Ma la Lucrezia di Artemisia è colta in un momento di dubbio - chi guarderà il quadro dovrà sentirsi a disagio di fronte a questa donna che è stata spinta al suicidio dall' ignoranza. Perché Artemisia crede che l' arte possa aiutare a cambiare il mondo, l' arte ci fa pensare, ci fa vivere una vita ricca di spiritualità. E l' arte è una passione che fa dimenticare tutti gli altri legami - un marito geloso, una figlia con altri interessi. C' è solo un uomo, tra i contemporanei di Artemisia, che capisce appieno la forza rivoluzionaria della pittrice: è Galileo, il grande ribelle che nessuno può mettere a tacere. Come le figure femminili dei quadri di Artemisia balzano fuori dalla tela prendendo una vita propria sotto il pennello della pittrice, così il personaggio di Artemisia esce fuori vivido e vibrante dalla penna di Susan Vreeland. Forse anche la scrittrice, come la pittrice, vuole forzarci a riconsiderare la storia sotto una luce diversa, a non dare per scontati pregiudizi e stereotipi. Questo è un libro che ha una voce che non è solo quella di Artemisia, ma di tutte le donne che hanno taciuto per secoli  E' anche un libro "visivamente" straordinario, per la capacità che ha la Vreeland di farci vedere non solo i colori che Artemisia sparge sulla tela, ma anche uomini e paesaggi attraverso gli occhi di una donna che dice "è meglio essere assetati di bellezza e comprenderla, che essere belli e basta".

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net




Susan Vreeland, "La passione di Artemisia" Intervista del 2002

                                    Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                        

INTERVISTA A SUSAN VREELAND, autrice di "La passione di Artemisia"

Susan Vreeland è a Roma - sulle tracce di Artemisia, la protagonista del suo libro che è appena stato pubblicato in Italiano. Parliamo con lei al telefono, della sua carriera come scrittrice, di questo romanzo e di quello che verrà pubblicato a primavera.

Può dirci qualcosa sulla sua vita e sulla sua carriera come scrittrice - quando ha iniziato a scrivere?
     Sono venuta per la prima volta in Europa nel 1971, in un viaggio di studio organizzato dalla mia università e guidato dai nostri insegnanti di materie umanistiche. Il testo che usavamo era "Civiltà" di Kenneth Clark e nel primo capitolo veniva citata una frase di John Ruskin: "Le grandi nazioni scrivono le loro autobiografie in tre manoscritti - il libro delle loro imprese, il libro delle loro parole e il libro della loro arte." Questa affermazione di Ruskin mi colpì come molto profonda, ma ha poi avuto per me un significato di una portata di gran lunga maggiore di quello che avrei potuto immaginare, quando promisi a me stessa che l' arte di questo nuovo mondo nel Vecchio Mondo sarebbe stata la compagna della mia vita. Mai come allora, durante quel viaggio, la storia era stata vibrante di vita, con una voce sua propria. Pittura, scultura, architettura, musica, storia religiosa e storia sociale - ero rapita da tutte queste cose, volevo leggere di più, imparare le lingue, riempirmi i polmoni di una cultura ricca, gloriosa e antica, elaborata dall' energia umana. Questa esperienza è dietro ai miei scritti degli anni '80, articoli su viaggi, arte e cultura per riviste e giornali. Un incontro e la successiva amicizia con due persone coraggiose, una coppia la cui cecità non impediva loro di condurre una vita indipendente e piena, mi insegnò dei modi alternativi di vedere. Solo quando sentiii fortissima la necessità di raccontare la loro storia, mi avventurai nella narrativa. Così scrissi il romanzo "What Love Sees" nel 1988. Il romanzo seguente, "Girl in Hyacinth Blue", nel 1999, su un quadro di Vermeer, fu scritto mentre mi sottoponevo alla terapia per la cura di un linfoma e fu, in gran parte, un' opera di gratitudine verso gli artisti che avevano sollevato il mio spirito in quel periodo difficile. Lo sforzo creativo e il piacere della bellezza possono aiutare a guarire perché ci tirano fuori dal pensiero rivolto soltanto a noi stessi.

 Che cosa l' ha portata a scegliere Artemisia come soggetto del suo libro?
    Sono stata attratta da Artemisia Gentileschi perché è una figura grandiosa, come artista, come donna e come essere umano. E' stata la prima donna a guadagnarsi da vivere con il pennello, la prima donna che ha dipinto quadri politici e religiosi di grandi dimensioni, soggetti una volta riservati agli uomini. Una pittrice di straordinaria creatività, la prima donna ad essere ammessa all'Accademia dell' Arte di Firenze. Ad ogni punto decisivo della sua vita, ha scelto il corso d'azione che richiedeva maggior coraggio. Nonostante lo stupro, nonostante l' esposizione pubblica nel processo del suo violentatore da parte di una corte papale che sottopose lei alla tortura, nonostante le macchie sulla sua reputazione, è diventata uno dei pittori più famosi del Barocco Italiano. Ha usato la sua notorietà a suo vantaggio. Ha sviluppato un ideale di donna eroica e coraggiosa. Ho ammirato il modo in cui ha ricostruito se stessa lavorando sull' offesa che le era stata fatta e sciogliendo nella pittura il suo risentimento.



Artemisia dice al padre che loro due si assomigliano: entrambi hanno rinunciato ad una figlia per la carriera. Pensa che sia inevitabile scegliere tra essere madre e avere una carriera?
     La scelta tra maternità tradizionale e carriera è ancora molto difficile. Oggi è diffcile, ma possibile, scegliere entrambe. La facilità o difficoltà nel riuscire a combinare le due cose dipende da due fattori: la situazione finanziaria in famiglia, per poter prendere un aiuto se è necessario; e la disponibilità del marito ad assumersi alcune delle responsabilità che una volta erano solo della donna. Purtroppo, spesso non ci sono questi presupposti ed è impossibile per le donne svolgere del lavoro creativo. Se questo è vero oggigiorno, i risultati di Artemisia nel diciassettesimo secolo sono ancora più stupefacenti.

Qual è il ruolo dell' arte nella vita?
   La ricchezza dell' arte nella vita umana riflette i suoi molteplici intenti: dare piacere, certo, ma anche innalzare lo spirito, servire come modello di comportamento, celebrare persone degne della nostra ammirazione, incitarci all' azione, farci prestare attenzione alle bellezze della terra, trasportarci in altri tempi e farci conoscere le loro problematiche, stimolare la nostra immaginazione, passione, spiritualità  e compassione.

 Artemisia vive a Roma, Firenze, Genova, Venezia e Napoli e lei riesce splendidamente nel renderci le strade, gli odori, i colori e i rumori di queste città: vi ha vissuto?
     La descrizione delle città italiane deriva soprattutto dalla ricerca fatta negli Stati Uniti che ha stimolato la mia immaginazione. Ho consultato 70 libri, non solo di storia dell' arte, ma storie della cultura e della società, libri di resoconti di viaggi di scrittori inglesi del '700 e '800, libri di viaggio contemporanei, romanzi ambientati in Italia, libri di architettura, di costume, di musica e danza, libri di fotografie e, naturalmente, di quadri di tutti questi luoghi. Purtroppo non ho mai avuto l' opportunità di vivere in Italia, vi sono stata soltanto per un paio di settimane trent' anni fa. Dopo che il mio romanzo è stato accettato dal mio editore sono stata in Italia una settimana per tenere un corso di scrittura e un' altra settimana per visitare Firenze e Roma, camminando sulle orme di Artemisia, guardando i palazzi, i quadri e le sculture che lei aveva visto, immaginando i rumori e gli odori che lei aveva sentito.

 Galileo è la voce ribelle per la scienza, proprio come Artemisia lo è per la pittura. E' questo il motivo per cui gli ha dato un ruolo così importante - oppure è semplicemente storicamente vero che era amico di Artemisia?

    Sia Galileo sia Artemisia si tovavano alla corte di Cosimo Secondo dei Medici a Firenze nello stesso periodo. La prova che si conoscessero è in una lettera in cui Artemisia chiede l' aiuto di Galileo per farsi pagare da Cosimo quello che le è dovuto. Ho scelto di attribuire a Galileo un ruolo più importante nella vita di Artemisia per la posizione parallela che i due avevano nell' ambito dei rispettivi campi. Certamente devono aver compreso i rischi che l' altro stava correndo, e rispettato il coraggio e l' impegno che ognuno di loro mostrava.

 Speriamo di leggere presto anche il suo primo libro - un altro libro su un pittore?
    "Girl in Hyacinth Blue" (che sarà pubblicato da Neri Pozza nella primavera del 2003) segue , invertendo la cronologia, un dipinto fittizio del pittore olandese Vermeer. Il quadro opera in maniera diversa per ogni personaggio che si trova ad avere a che fare con esso; ognuno vede nel quadro qualcosa di rilievo per la propria esperienza personale. Così può parlare dell' innocenza perduta, spingere ad un' azione generosa e coraggiosa di amore, suscitare il ricordo del passato, anche di un amore passato, suggerire un' offerta di rappacificazione coniugale, esprimere un conflitto di valori tra marito e moglie. E, sopra tutto, parlare di desiderio, in tutte le sue varianti. E' solo un quadro, ma invia molti messaggi a chi è capace di riceverli, mentre ognuno vive dei momenti decisivi sotto la sua influenza. La ricchezza dell' arte è in questa diversità di effetti.

Susan Vreeland, "La passione di Artemisia"     
Ed. Neri Pozza, pagg. 317, Euro 15,5    

lunedì 17 novembre 2014

Holidays

Il blog non è 



Lo aggiornerò ogni volta che ne avrò la possibilità






Susan Vreeland, "La lista di Lisette" ed. 2014

                             Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

                                       



INTERVISTA A SUSAN VREELAND

E’ un piacere incontrare di nuovo, a distanza di anni, Susan Vreeland, a Milano nella settimana di Milano BookCity. E’ sempre la stessa, sottile, raffinata, elegante, con un’aria fragile. Lei dice che ricorda la mia voce. Non so se sia vero, ma è gentile da parte sua dirlo.

Chi è il protagonista del romanzo? Lisette o la Provenza? L’importanza che il paesaggio ha nel romanzo mi ha ricordato “L’amante della foresta”- il paesaggio come fonte di ispirazione.

     Penso che il personaggio principale sia Lisette, ma il paesaggio mi ha ispirato a ideare Lisette e l’intero romanzo. Quando visitai Roussillon, pensai che sarebbe stato una splendida ambientazione e a come potessi collegarlo con il mondo dell’arte. Quando poi ho scoperto che c’erano le miniere di ocra nella zona, quello mi ha fornito il legame che cercavo. Il passo seguente è stato inventare un minatore e connetterlo con il mondo dell’arte a Parigi facendolo vendere i pigmenti e facendogli fare le cornici per Pissarro e Cézanne. Poi farlo tornare a Roussillon e introdurre Lisette dopo che André e Lisette sono andati a vivere con lui. Il paesaggio mi ha portato a Lisette, ma il paesaggio non cambia, al contrario di Lisette che matura nel tempo mentre impara ad amare il paese dove è venuta a vivere.. All’inizio Lisette non è affatto contenta di essersi trasferita da Parigi, finché Pasacal le racconta di come avesse conosciuto i pittori.

Questo romanzo ha anche un profondo coinvolgimento con la Storia: era il tempo in cui è ambientato il libro che lo richiedeva oppure ha scelto questo periodo perché le interessavano gli avvenimenti storici della Francia spaccata in due?

      Per il secondo motivo. Ho scelto questo periodo per la sua minaccia all’arte della Francia e di tutti i paesi occupati.

Il romanzo gira intorno all’arte dando spazio a tutti quelli che hanno a che fare con l’arte: i corniciai e i minatori che estraggono l’ocra. Era importante all’epoca il ruolo dei corniciai?

     Sì, certo. Gli impressionisti lottavano per far incorniciare i loro quadri. Penso che Pissarro avrebbe pensato di mancare di rispetto agli altri impressionisti, se anche lui, come loro, non metteva in cornice i suoi quadri. Non poteva mostrare i suoi dipinti insieme a quelli degli altri senza cornice. Le cornici erano un completamento del quadro: l’inizio dei quadri è nelle miniere da dove provengono i pigmenti e il tocco finale è mettere la cornice. Volevo sottolineare quanto profondamente Pascal sentisse di far parte di questo processo e di come si sentisse onorato. Attraverso lui volevo mostrare che una persona non colta poteva avere un rapporto profondo con i quadri, che l’arte non è solo per un’élite.

Sono stata affascinata dalla descrizioni delle miniere di ocra: le ha visitate, che cosa ha provato?

    Sembrava essere in un luogo sacro. Essere nelle miniere dove gli uomini scavavano qualcosa dalla terra per fare un’opera di bellezza mi fece sentire che il loro era un compito sacro. Le gallerie delle miniere erano così alte che sembravano la navata di una chiesa. Ecco perché volevo ambientare là il mio libro.

Un’altra cosa che ho scoperto nel suo libro sono stata i bories.Ancora la stessa domanda: li ha visitati? E che cosa ha provato davanti a queste abitazioni così primitive?

     Ho iniziato a pensare a come vivevano le persone in quelle abitazioni,
quale tipo di linguaggio usassero e che tipo di pensieri avessero sulla natura che li circondava. La luce nell’interno era quella che entrava dalla porta aperta. Quello che è stupefacente è come non entri l’acqua dentro, considerando come sono costruite.

Cézanne e Chagall occupano il posto più importante fra i pittori di cui parla nel libro: c’è un motivo speciale?

    Cézanne era nato a Aix-en-Provence, penso che capisse l’importanza delle miniere, ha dipinto parecchie volte Mont Saint Victoire con dei minatori in primo piano, penso che onorasse i minatori come degli eroi dell’arte che sarebbe nata. Chagall, poi, perché si nascose là, a circa 8 chilometri da Roussillon. Mi permetteva di creare una progressione di artisti- i primi impressionisti, Pissarro, e poi Cézanne, che non è un vero e proprio impressionista ma si indirizza già verso il cubismo, a Picasso ho dedicato un piccolo cammeo per fare un collegamento con il post-impressionismo e il post-modernismo di Chagall e i suoi dipinti frutto dell’immaginazione e delle leggende russe. Ho provato eccitazione quando ho saputo che Chagall si era nascosto laggiù: mi offriva l’argomento della distruzione dell’arte europea dopo il Rinascimento voluta dai nazisti.


In tutti i suoi romanzi c’è un messaggio costante ed è quello della capacità dell’arte di nobilitare lo spirito.


    Mi piace la parola che ha usato, “nobilitare”, ecco perché scrivo romanzi sull’arte, mi piace pensare che i lettori abbiano voglia di andare a visitare un museo, dopo aver letto un mio romanzo.

l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it