sabato 16 marzo 2024

Chiara Valerio, “Chi dice e chi tace” ed. 2024

                                                                  Casa Nostra. Qui Italia

cento sfumature di giallo

Chiara Valerio, “Chi dice e chi tace”

Ed. Sellerio, pagg. 276, Euro 15,00

 

     Vittoria è arrivata a Scauri, l’ultimo paese del Lazio, negli anni ’70. È arrivata insieme a Mara, una donna bionda e molto bella, di parecchio più giovane di lei. Tutti fanno supposizioni, perché a Scauri tutti si conoscono e sanno tutto di tutti- che rapporto c’è fra le due donne? Madre e figlia? Non sembra probabile. Sono parenti? Mara è stata adottata? Oppure? Finisce che tutti smettono di farsi domande, accettano l’ovvio. Vittoria compra una grande casa con giardino, Mara apre una pensione per animali- a Scauri? Sì, a Scauri e l’avvocato Lea Russo- io narrante del romanzo- sarà tra i primi ad approfittarne lasciandoci il suo cane per qualche giorno. Vittoria si impone con la sua personalità carismatica, aiuta i bambini a fare degli erbari, gioca a carte con gli uomini che incontra al dopolavoro ferroviario, è l’unica donna che possegga una barca a Scauri.


    Poi Vittoria muore, affogata nella vasca da bagno. Vittoria che era un’ottima nuotatrice? Un malore? Sì, un infortunio, le disgrazie capitano così. E, adesso che non c’è più, è chiaro che nessuno la conosceva veramente.

Qualcuno sapeva che Vittoria era sposata? Nessuno. Qualcuno sapeva che era laureata in medicina? Nessuno. Qualcuno sapeva che aveva vissuto tre anni in America? Nessuno. Qualcuno sapeva che era ammalata? Nessuno.

    Allora questo romanzo, così ricco di suggestioni, così stimolante nelle tematiche che propone, così incantatore nelle descrizioni della piccola città dalla ‘grazia scomposta’, diventa in qualche maniera un romanzo di indagine, di più di una sola indagine- d’altra parte l’io narrante (altro personaggio molto interessante) è un avvocato. Ed è incaricata di dirimere un litigio fra due ragazzi sulla spiaggia, sfociato in una rissa. Questa è la prima indagine su colpe e responsabilità, quasi un pretesto perché la famiglia implicata è strettamente imparentata con Vittoria, che appare come figura sfuocata in una foto polaroid scattata sulla spiaggia e che, a quanto pare, era intervenuta, rimettendo a posto, con un colpo secco, il naso di uno dei ragazzi. C’è poi la curiosità di Lea Russo (l’occhio esterno che osserva e che racconta) di sapere di più su Vittoria, una volta che apprende dettagli che ignorava sulla vita di lei. E’ una curiosità che la scava dentro, che la porta a dubitare di se stessa e delle sue inclinazioni, lei che è felicemente sposata con quel marito che ama e che ‘distrattamente’ (questo è un gioco tra di loro) l’ha resa madre di due bambine. E più sa di Vittoria, più le appare impossibile che sia morta per un incidente- e questo è un altro filone di indagine. E un altro ancora- da dove è saltata fuori Mara? Veniamo a conoscenza di forme celate di violenza, come fossero state anticipate dal litigio sulla spiaggia.


    La verità non è una, l’identità neppure, l’amore ha molte forme, bisogna solo avere il coraggio di essere se stessi, di aprirsi agli altri- Vittoria insegna, anche il suo nome ha questo significato.

  Uno stile vivace, brillante, una voce narrante che sa essere lirica e realista, onesta verso se stessa e verso gli altri, capace di far vivere un intero paese in queste pagine, di colorare il paesaggio e i personaggi che diventano tutti, anche quelli minori, indimenticabili. Un libro molto bello e insolito, che fa riflettere, che ci fa porre delle domande a noi stessi. 



giovedì 14 marzo 2024

Claire Keegan, “Piccole cose da nulla” ed. 2023

                          Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda



Claire Keegan, “Piccole cose da nulla”

Ed. Einaudi, trad. Monica Pareschi, pagg. 104, Euro 12,35

     

    1985. una cittadina irlandese. I giorni che precedono il Natale.

Bill Furlong è un piccolo commerciante di carbone e legna. Sono giornate lunghe e di duro lavoro per lui.

In poche frasi concise veniamo a sapere del suo passato e del suo presente. Non ha mai saputo chi fosse suo padre. Sua madre ha avuto la fortuna di essere accolta da una benestante signora protestante che ha continuato ad occuparsi di Bill anche dopo che è rimasto orfano. Adesso Bill è sposato e ha cinque bambine che scrivono la letterina a Babbo Natale. Sono bambine “sagge” che non chiedono niente di inaccessibile- un paio di jeans la più grande, un libro, un disco, un gioco da tavola, un mappamondo. Bill riconosce alla moglie il merito di aver educato bene le figlie.

    È del tutto felice, Bill? Dovrebbe esserlo ma, ogni tanto, viene assalito dal pensiero di come sarebbe la sua vita se…E poi, il desiderio lo prende a tratti, di sapere chi fosse suo padre. È possibile che nessuno, nel paese, lo sappia?

Magdalene Laundry

   Il capitolo che inizia con la breve frase “Era un dicembre da corvi” introduce una nuova atmosfera, e non potrebbe essere altrimenti con quegli uccelli neri che si azzuffano su qualunque possa essere un cibo per loro. Ai corvi che volteggiano in stormi si contrappone il convento, un luogo dall’aspetto imponente e minaccioso. Girano tante voci sul convento, sulle suore, sul servizio di lavanderia che offrono, sulle ragazze che ospitano. Si diceva che fosse una sorta di scuola, ma anche che accogliesse ragazze “perdute”. Sappiamo che cosa volesse dire “ragazze perdute” in Irlanda, ragazze che dovevano lavare i loro peccati lavando i panni sporchi altrui.

   Bill tornerà per tre volte nel convento in un crescendo di consapevolezza, in un risveglio della sua coscienza, quasi incredulo davanti a quello che vede, incapace di credere a richieste disperate di aiuto.

Pensa a sua madre che avrebbe potuto trovarsi lì, pensa alle sue bambine- chi mai può sapere che cosa riserba il futuro?


È incerto, non sa come comportarsi, non è facile mettersi contro l’intero paese, le autorità della Chiesa, la sua stessa moglie. Ma Bill è un uomo buono e la fine non potrebbe essere diversa.

    Lo stile di Claire Keegan è limpido, pulito, essenziale, poetico. Non c’è una parola di troppo in questa che potrebbe essere una favola di Natale come “A Christmas Carol” di Dickens che Bill aveva ricevuto in regalo per Natale quando era bambino.

Abbiamo appena letto delle “sorelle Magdalene” o delle “lavanderie Magdalene” nell’ultimo romanzo di Catherine Dunne e, come in tutte le vicende in cui il Bene trionfa sulla banalità del Male, la storia di Bill Furlong è, forse, un poco scontata.

Che decisione avrebbe preso Bill Furlong se la sua esperienza personale fosse stata diversa? Sarebbe stata un’altra storia, forse più lacerante e tormentata, forse però anche più coraggiosa.




 

lunedì 11 marzo 2024

Tetsuya Honda, “Misterioso omicidio a Tokyo” ed. 2024

                                              Voci da mondi diversi. Giappone

cento sfumature di giallo

Tetsuya Honda, “Misterioso omicidio a Tokyo”

Ed. Piemme, trad. Cristina Ingiardi, pagg 374, Euro 19,90

 

    Quando una mano mozzata viene ritrovata dentro un minivan abbandonato lungo le sponde del fiume Tama, non  ci può essere dubbio che qualcuno sia stato assassinato. Quando poi anche un torso umano è ripescato dalle acque, le analisi del sangue sembrano indicare che si tratti della stessa persona a cui apparteneva la mano. Quando invece si sente raccontare di due operai edili morti cadendo da un’impalcatura, la questione diventa più difficile- che cosa c’è di più facile che far passare per un incidente quello che in realtà è stato un omicidio? C’è puzza di bruciato quando si scoprono dettagli su assicurazioni sulla vita e su chi le abbia incassate.

    A grandi linee è su questo che si basa il ‘giallo’ “Misterioso omicidio a Tokyo” dello scrittore giapponese Tetsuya Honda di cui la casa editrice Piemme ha già pubblicato “Omicidio a Mizumoto Park” con la stessa protagonista, la detective Reiko Himekawa.


   È Reiko ad occuparsi del caso, insieme all’ispettore Kusaka. Il rapporto tra i due non è facile perché il loro approccio ai casi da risolvere è molto diverso- per Kusaka contano solo i fatti, le prove certe, mentre Reiko, partendo da una prova concreta, lavora di intuizione e di immaginazione. Il suo fiuto la porta molto spesso sulla via giusta, ma questo non le evita gli scontri con l’ispettore. Unica donna nel corpo della polizia criminale- e per di più giovane e affascinante- Reiko deve difendersi da scherzi, battute e allusioni al suo rapporto con il timido sergente Kikuta.

    Il morto con la mano mozzata ha presto un nome, Kenichi Takaoka. Gestiva una piccola impresa edile aiutato da un ragazzo rimasto orfano dopo che suo padre era caduto da un ponteggio. Kenichi era diventato come un padre per Mishima, gli aveva anche insegnato il suo lavoro, era molto contento che si fosse fatto anche la ragazza- guarda caso, anche il padre della ragazza era morto cadendo da un ponteggio.


   La trama del ‘giallo’ è piena di sorprese e di colpi di scena, una parte è raccontata in prima persona da un personaggio e solo alla fine il lettore la capirà del tutto, appaiono altri personaggi sulla scena, l’ombra della Yakuza, la temuta mafia giapponese che per spietatezza rivaleggia con quella siciliana, si estende su tutti e su tutto. Al di là di questa trama ne scorre un’altra che ci induce a riflettere sulla violenza sulle donne e sui traumi che ne conseguono, sulla paternità e l’istinto di protezione che un padre prova per i figli, sulla legittimità di farsi giustizia da soli.

   Il finale è a sorpresa, per la polizia di Tokyo e per il lettore.

   Pur non avendo la profondità e la complessità di un Keigo Higashino (sempre pubblicato da Piemme), “Misterioso omicidio a Tokyo” è una buona lettura per gli appassionati di genere.



domenica 10 marzo 2024

Fabiano Massimi, “L’angelo di Monaco” ed. 2020

                                                           Casa Nostra. Qui Italia

    cento sfumature di giallo

Fabiano Massimi, “L’angelo di Monaco”

Ed. Longanesi, pagg. 496, Euro 16,00

 

     Monaco di Baviera. Settembre 1931. Il corpo di una ragazza senza vita in una stanza di Prinzregentstrasse 16. In apparenza suicidio. MA la ragazza, ventitre anni compiuti da pochi mesi, si chiamava Angela Raubal ed era la nipote (figlia della sorellastra) dell’astro nascente nel mondo della politica, Adolf Hitler. Vivevano nello stesso appartamento, il loro legame, più affettuoso di quello che sarebbe stato normale tra zio e nipote, era molto chiacchierato.

    Il commissario Siegfried Sauer e il suo vice Helmut (chiamato con il diminutivo di Mutti) sono incaricati delle indagini. C’è fretta di chiudere il caso, la parentela è scottante, e poi che dubbio c’è? La stanza era chiusa dall’interno, la pistola è stata trovata vicino al corpo. In fretta, in fretta. Le inaccuratezze sono tante, ad iniziare dalla mancata autopsia.


    Inizia così un ‘giallo storico’- il caso da indagare è quello vero della morte sospetta di Angela Raubel, chiamata Geli, una ragazza positiva e solare a detta di tutti, dotata di grande fascino anche se non propriamente bella, con altri legami sentimentali oltre a quello con lo zio, ma questo offre un ottimo pretesto per parlare proprio del famigerato zio, agli albori della carriera che lo porterà a diventare il Führer, e dell’atmosfera a Monaco dove già si moltiplicano le camicie brune per le strade e sventolano bandiere rosse con la svastica (Geli portava al collo una catenina con una piccola svastica d’oro) e poi a Vienna, non ancora soggiogata da Hitler.

    I due commissari sono l’uno l’opposto dell’altro, come è tipico nella letteratura poliziesca. Fisicamente, prima di tutto- e anche questo ha un significato che allude ad altro. Sono una coppia che fa pensare a Stanlio e Ollio (lo dice Mutti stesso)- Siggi Sauer alto e biondo è il prototipo del perfetto ariano, tanto che il sosia che lo pedina e che avrà un ruolo importante nella trama è nientemeno che Reynhard Heydrich (l’uomo che progettò la Soluzione Finale degli Ebrei e che sarebbe diventato ‘il boia di Praga’), Helmut Forster è basso e grasso, Siggi moderato e astemio, timido con le donne, Mutti amante del buon cibo e della birra, felicemente sposato e padre di tre bambini.

Geli Raubal

    La trama de “L’angelo di Berlino” è ricca di significati, per indagare sulla morte di Geli si deve indagare anche sui rapporti personali con lo zio e non c’è niente che non sia già stato detto sui gusti sessuali particolari e perversi del Führer, si devono incontrare alcuni dei suoi più stretti collaboratori, Göring e Goebbel, Himmler e von Schirach, il fotografo Hoffmann e la sua segretaria Eva Braun (diventerà la compagna di Hitler e sua moglie all’ultima ora). Il tema si sposta dal suicidio /omicidio alla fedeltà e al tradimento, al sospetto generalizzato e alla menzogna come norma di vita, al pericolo costante che si avverte, pericolo non solo nell’accezione quotidiana più comune ma anche come enorme nube oscura che incombe su tutti, sul futuro della Germania e dell’Europa.

     In genere diffido di romanzi gialli in cui i protagonisti o i personaggi principali sono veramente esistiti, perché mi pare spesso di avvertire una nota falsa. Fabiano Massimi è bravo e preparato, non ci sono leggerezza e superficialità nel suo romanzo, non infastidisce con una esagerata costruzione e libera invenzione letteraria. “L’angelo di Monaco” non è e non vuole essere un libro di Storia, ci presenta però in maniera attraente una storia vera in un contesto vero.



 

 

venerdì 8 marzo 2024

Gaëlle Nohant, “L’archivio dei destini” ed. 2024

                                               Voci da mondi diversi. Francia

       Shoah

Gaëlle Nohant, “L’archivio dei destini”

Ed. Neri Pozza, trad. Luigi M. Sponzilli, pagg. 329, Euro 20,00

 

    Questo è un libro prezioso. Un libro straziante. Un libro che vi ruberà il cuore. Un libro a cui il vostro pensiero continuerà a ritornare e sarà un poco come se il vostro ricordo possa mantenere viva la memoria delle persone scomparse.

     Bad Arolsen, nell’Assia, nel cuore della Germania. A Bad Arolsen dal 1955 l’ITS, International Tracing Service, fu incaricato di gestire gli archivi, il più grande centro di documentazione e informazione sull’ Olocausto e sul lavoro forzato: 30 milioni di documenti dei campi di concentramento e schede di persone deportate, 26 chilometri di scaffali traboccanti di fascicoli, quaderni, mappe, effetti personali. Dal 2013 l’archivio di Bad Arolsen è stato inserito nel programma Memoria del Mondo dell’Unesco.


   Irène lavora nell’archivio di Bad Arolsen dal 1990. E’ francese, ma ha sposato un tedesco da cui si è separata dopo averne avuto un figlio- leggeremo di una scena memorabile durante una cena con i suoceri. Quello che era stato detto e quello che non era stato detto avevano reso impossibile ad Irène continuare a vivere con il marito. Fino al 2016 il suo compito era stato quello di cercare le persone di cui si erano perse le tracce, una lavoro di pazienza che portava da un testimone all’altro, senza mai perdere la speranza. Poi, dal 2016, ad Irène viene affidato un altro compito- restituire alle famiglie dei proprietari originari gli oggetti rinvenuti nei campi.

    Gli oggetti hanno una storia, gli oggetti parlano, gli oggetti tacciono segreti che è doloroso rivelare. Tra le mani di Irène capita un Pierrot sgualcito, un numero scritto sull’interno della veste. È di certo appartenuto ad un bambino. E quel bambino è di certo scomparso subito nelle camere a gas. Ma la ricerca porta altrove, sulle tracce di un uomo che ha avuto diversi nomi, che forse è sopravvissuto, che forse, anche senza saperlo, ha lasciato un figlio o una figlia. Come sapere se è la traccia giusta?


    C’è un altro oggetto che Irène non scopre nell’archivio ma che le arriva con una lettera, apparteneva (davvero, apparteneva?) alla nonna di chi le scrive. È un medaglione con la Madonna, dentro un disegno che raffigura un bambino biondo, con un nome e una data. E qui si apre un capitolo di dolore dentro il dolore. C’è la domanda che non finiamo mai di porci: come ha potuto una ragazza di vent’anni accettare di essere così crudele?, e poi quell’altra: come affrontano il peso del passato i figli e i nipoti di quelli che sono stati i protagonisti del Terzo Reich? E infine la storia di quell’aberrazione che è stato il rapimento dei bambini di aspetto ariano per darli a famiglie che ne facessero dei puri tedeschi.

    Il coinvolgimento di Irène è totale. Segue le tracce, parla con chiunque le offra un frammento di ricordo, è affascinata dalla personalità delle persone scomparse di cui lei sta cercando i discendenti, dalla combattività di uno e dal coraggio generoso dell’altra. Ricostruisce anche la storia della donna che le ha fatto da mentore all’ITS quando lei è arrivata- ormai questa donna che aveva diciassette anni quando era uscita da Auschwitz (in realtà non si esce mai da Auschwitz) era morta, ma una cugina era venuta a cercarla dall’Argentina.


    Il finale è la chiusura di un cerchio che include Irène stessa e che svela qualcosa che lei non aveva mai capito, anche se era lì sotto i suoi occhi. Forse il caso ha calcato la mano, ma poco importa.

   Un romanzo ben costruito- non deve essere stato facile tirare le diverse fila senza smarrirsi-, che divide la nostra attenzione tra le vicende del passato, gli incontri con i parenti delle vittime nel presente (sconvolgente quello in Polonia) e la vita personale di Irène. E anche se la scrittrice ci dice che le indagini e i personaggi del libro sono opera di finzione, questo non ne diminuisce il valore.



Valerio Morucci, “La peggio gioventù”- Una vita nella lotta armata- Intervista del 2005

                                                               Casa Nostra. Qui Italia

         Anni di piombo

Valerio Morucci, “La peggio gioventù”- Una vita nella lotta armata

Ed. Rizzoli, pagg. 356, Euro 17,00

    “La peggio gioventù”: un titolo, quello del libro di Valerio Morucci, che contiene già un giudizio, opposto com’è a quello del film dei fratelli Giordana, un indizio su quello che il libro vuole essere, e cioè un ripensamento in cui i fatti trovano la loro collocazione, ma soprattutto un tentativo di comprendere come si sia passati dall’essere “la meglio” gioventù alla “peggio”. E il sequestro che si concluse con l’uccisione di Moro è il nodo centrale verso cui convergono le memorie e i pensieri dell’autore, c’è un prima e un dopo quei cinquantacinque giorni della primavera del 1978. Un prima- la sua formazione in un’epoca di fermenti generazionali e in un’Italia che dava segni di cambiamento, il ‘68 e la rivoluzione studentesca, l’autunno caldo delle lotte operaie l’anno seguente, Potere Operaio e le Brigate Rosse, il primo omicidio delle BR, quello del giudice Coco nel ‘76- e si arriva al punto di non ritorno, la preparazione accurata del sequestro di Moro, l’uccisione dei cinque uomini della scorta e poi quella del presidente della DC. Il dopo è una lucida analisi degli anni caldi della politica italiana, la decisione di Morucci e della Faranda di dissociarsi dalle BR, l’arresto, la prigione: “eravamo uomini che hanno creduto e hanno sbagliato. Siamo uomini pronti a riconoscere l’errore. E, subordinato a questo, siamo uomini consapevoli che non solo nostro è stato.”



 INTERVISTA A VALERIO MORUCCI, autore de “La peggio gioventù”  (2005)

 

    La stampa ha sempre bisogno di dare un soprannome alle persone, per renderne più facile l’identificazione ai lettori: Valerio Morucci era “il postino” del sequestro Moro, quello che dava indicazioni perché venissero ritirate le missive del presidente della DC. “Ma quelle lettere, Adriana e io, le rileggevamo anche la sera nel nostro appartamento…e le parole scorrevano lente. E ognuna lasciava il suo segno”. D’altra parte, nel primo capitolo del suo libro “La peggio gioventù”, Valerio Morucci si riferisce a Moro come “l’Uomo”, mentre descrive la concitata sequenza del sequestro. “L’Uomo” che proprio nel suo essere “uomo” è simile agli “uomini delle Brigate Rosse” a cui rivolge il suo appello il Pontefice perché il prigioniero venga rilasciato senza condizioni. Ed è per questo che Morucci si era opposto alla sua uccisione, perché, oltre ad essere politicamente un errore, era “un abominio”, inaccettabile perché Moro non era un nemico senza volto, ma un uomo prigioniero. Si rivolge ad un immaginario interlocutore, Valerio Morucci, in questa rievocazione di un passato vecchio di trent’anni, un’interpretazione dall’interno della storia delle BR con stralci di ricordi autobiografici e critiche aperte sia dei capi delle BR sia di quelli dei partiti del Governo, per come non hanno saputo o voluto gestire il sequestro Moro. Morucci, condannato dapprima all’ergastolo, poi a trent’anni nel ricorso in appello e infine a ventidue anni e mezzo per l’applicazione della legge sulla dissociazione, ha finito di scontare la pena nel 1994 e ha iniziato a lavorare nel campo dell’informatica. Stilos ha parlato con lui.

 Che cosa ha voluto dire per lei, fronteggiare il suo passato mettendo ordine nei suoi pensieri, per scrivere questo libro?


       Affrontare il passato non è mai semplice, perché i piani sono sempre due: da una parte un’analisi dei fatti e quindi una ricostruzione storica e politica, dall’altra quello che c’è sotto e il peso delle azioni compiute che si incastra storicamente nei fatti analizzati ma non trova collocazione nel rapporto con se stessi e con le proprie intenzioni. E sono due piani che potrebbero tendere a confondersi- nel libro mi sembrava di essere stato chiaro che la storia non giustifica nessuno ma si potrebbe pensare che questa profusione di pensieri analitici sulla storia e sulla politica sia tesa a nascondere la necessaria riflessione sull’etica. Per me fronteggiare il passato vuol dire questo, trovare ad ogni passo giustificazioni storiche e politiche, e, più ne trovo, meno giustificazioni etiche per contro trovo. E’ un problema che ho io e che abbiamo tutti davanti alle nostre azioni, per quanto siano necessitate. Quando le si riguarda, si vede che questa necessità negava i principi etici fondamentali.

 Secondo lei, la strage di Piazza Fontana è da considerarsi la madre di tutte le stragi, come è stata definita da molti, o il sangue che è stato sparso dopo sarebbe stato ugualmente versato?


     Secondo me la strage di Piazza Fontana è la madre di tutte le stragi di quel segno. Non certo del terrorismo di sinistra. E’ stata la prima feroce azione nel tentativo di fermare l’Italia da un possibile avvento al potere del partito comunista, strategia di vecchia data partita nel ‘48. E tutte le forze estere e italiane che temevano la vittoria comunista, da allora hanno iniziato a muoversi anche su terreno illegale per contrastare questa possibilità. Chi ha voluto questa strage non temeva certo le lotte studentesche e quelle operaie, ma temeva che queste potessero portare ad un rafforzamento elettorale del partito comunista, e dagli stessi intenti sono motivate le stragi fasciste- l’Italia è l’unico paese occidentale in cui siano maturati così tanti tentativi di colpi di stato. E però la strage di Piazza Fontana non è da considerarsi come l’origine del terrorismo, la nostra strada era già segnata. Può aver costituito un motivo in più di odio e di accelerazione, ma non ha determinato la scelta. Questa è una grossa fandonia della ricostruzione perché la nostra era una scelta rivoluzionaria basata sull’ideologia comunista che prevede che la rivoluzione sia un atto violento. In Italia solo i Gap di Feltrinelli hanno usato le armi per contrastare un possibile ritorno al fascismo. Nessuna altra formazione armata è nata per contrastare tentativi golpisti.

 La scelta di sequestrare Moro fu dettata dalla volontà di colpire lui in quanto regista dell’operazione di avvicinamento tra DC e PCI oppure fu una scelta più “casuale” dettata dalla fattibilità dell’impresa?

     No, la scelta di sequestrare Moro non ha niente a che fare con la sua operazione di avvicinamento tra la DC e il PCI, perché la scelta di sequestrare un alto esponente della DC è maturata nelle BR dopo il sequestro Sossi, quando questo avvicinamento era considerato impossibile ed è naturale perché, dopo che lo Stato è intervenuto per impedire la liberazione dei detenuti già accordata e il sequestro è fallito, le BR hanno capito che il problema era lo Stato e non bastava sequestrare localmente chicchessia, ma bisognava impattare con lo Stato. Tant’è che le prime inchieste in questo senso furono svolte da Franceschini nel ‘74-‘75. E perché Moro? Perché nell’analisi delle BR sullo stato dell’invasione delle multinazionali si torna a Lenin e allo stato imperialista e ad altre analisi prodotte nella sinistra non comunista italiana. Ed era un’analisi che si era rivelata giusta nel cogliere le linee di fondo, errata perché, essendo comunque di matrice marxista- comunista, individuava sempre nelle forme statali- esplicite del potere- la manifestazione di un’involuzione autoritaria del capitalismo. E’ evidente invece che, seppure in parte può sembrare così oggi, la realtà è che le multinazionali, proprio in quanto tali, non hanno bisogno di uno Stato. Cioè riescono ad operare al di fuori di qualsiasi controllo. In quella lettura che facevano le BR era la macchina statale che doveva acquisire una maggiore efficienza e quindi maggiore autoritarismo per rispondere alle esigenze delle multinazionali. E dato che Moro era fautore del rinnovamento della DC nel senso di maggiore efficienza come partito-Stato, si è pensato che questa sua intenzione coincidesse con le indicazioni delle multinazionali, laddove invece era evidente che Moro poteva essere tutto fuorché un esecutore dei desideri autoritari degli americani.. Il suo intento di rinnovamento era dovuto al fatto che comunque i partiti in Italia- tutti, e la DC in quanto partito di governo- erano fermi al dopoguerra, inadeguati alla società di massa scaturita dallo sviluppo capitalistico.


 Se 30 anni fa la scelta fu quella di combattere il capitalismo delle multinazionali servendosi da un lato delle armi e dall’altro dell’apparato ideologico comunista, oggi che di quest’ultimo è rimasto ben poco, che cosa si sente di opporre lei a quel capitalismo che lei stesso definisce l’ultimo degli “ismi” coercitivi rimasti?

     Trent’anni fa era molto forte la convinzione che ci fosse un sistema alternativo a quello capitalistico e per questo si è combattuto. Oggi che non è più così, a maggior ragione occorre riconsiderare l’errore di base compiuto allora, che è stato quello di smettere di potenziare la propria parte, le proprie ragioni, gli ideali, i valori, nel tentativo impossibile di azzerare quelli dell’avversario. E quindi oggi per me, arrivati al punto in cui il crollo dell’ideologia si è portato necessariamente appresso il crollo della politica come sistema di mediazione separato dalla società, appannaggio di una casta di sacerdoti della politica, l’unica possibilità è quella di riportare un movimento di trasformazione sul terreno del confronto, che è in alto e che non è tra sistemi politici né tra politiche apparentemente contrapposte, ma è quello della preminenza dell’etica sullo sviluppo selvaggio privo di ogni regola del mercato globale.

 Adesso che la DC come grande partito di massa e di governo non esiste più, qual è il suo giudizio sull’operato di questo partito che per 50 anni ha governato l’Italia?

      Il giudizio è quello dato dalla Storia più che il mio. La DC è scomparsa e non può certo dirsi che è scomparsa perché i suoi esponenti sono stati sotto processo per le tangenti. Questo è un giudizio sicuramente ingenuo perché, per quanto se ne possa dare un giudizio negativo, va considerato che quello che ha fatto la DC nei quasi 50 anni di governo va letto in un quadro sia interno che internazionale di blocco dovuto alla guerra fredda e alla presenza in Italia del più forte partito comunista europeo. Quindi, in parte la DC non è stata capace di adeguarsi allo sviluppo della società perché era preminente questa funzione di blocco anticomunista- e su questo posso aggiungere a titolo personale che di questo le va reso merito perché, se i comunisti disgraziatamente fossero andati al governo, si sarebbe instaurato un regime ben più oppressivo di quello democristiano.


 Secondo lei, quanto influì il ritardo del PCI nel riconoscere quei limiti dell’ideologia comunista che lei oggi lucidamente indica, sui giovani che in quegli anni scelsero la strada della lotta armata?

     Il PCI in parte aveva già aggiustato più volte e attenuato una ferrea identificazione con l’ideologia comunista, e già questo era stato preso da noi come un tradimento. Se l’avessero portato più a fondo, probabilmente sarebbero stati per noi ancora più traditori. Ciò non toglie che l’incapacità del PCI di adeguare il proprio apparato ideologico in modo consequenziale alle scelte già fatte nel ‘44 e allo sviluppo della società di massa conseguente all’espansione capitalistica, e quindi anche di diventare un moderno partito di opposizione, ha lasciato integro quel sottostrato rivoluzionario nel quale noi siamo cresciuti.

 Secondo lei è cambiata la percezione che noi abbiamo del terrorismo dopo l’11 settembre?


     Sicuramente è cambiata perché il terrorismo odierno è un terrorismo che viene dall’esterno ed essendo un vero terrorismo colpisce indistintamente. Il nostro era un terrorismo di azioni militari, il vero terrorismo che colpisce senza distinzioni fa sì che tutti siano delle vittime potenziali, a differenza di quello che avveniva negli anni ‘70, quando incuteva paura solo a chi si voleva colpire.


Nel suo libro ci sono degli “intermezzi”: chi sono i protagonisti di questi intermezzi e che significato ha voluto aggiungere?

      Gli intermezzi sono dei racconti che ho inserito nella narrazione. Scrivo racconti già da molto tempo. Finita l’ubriacatura della politica c’è stata da parte mia una repulsione ad affrontare questo argomento in termini politici perché imperava e impera una lettura manichea del fenomeno antagonista degli anni ‘70. Ho pensato allora che lo strumento della letteratura consentisse di proporre degli argomenti che toccassero altre corde più emozionali che razionali. In parte per sfuggire alla cappa del monopolio dei partiti sulla lettura degli anni ‘70 e in parte per offrire al lettore un altro punto di vista ho scritto dei racconti e li ho inseriti, in modo che da una parte c’è l’analisi che richiama nel lettore l’attenzione con la parte razionale e dall’altra i racconti che sollecitano la sua parte emotiva. I racconti danno di quello stesso argomento un altro punto di vista., ampliandolo.

 Oltre ai due libri autobiografici, lei ha appena pubblicato un thriller: pensa di continuare a scrivere letteratura di genere?

      L’unico genere di cui non vorrei più scrivere è quello terroristico. Quello che vorrei non fare è scrivere altri libri su quegli anni. Possiamo offrire il nostro contributo ma adesso devono essere gli altri a parlare, noi siamo troppo la parte in causa.

L'intervista a Valerio Morucci è stata fatta a Roma nel 2005 e pubblicata sulla rivista letteraria "Stilos"



 

                                                           

 

mercoledì 6 marzo 2024

Karl Alfred Loeser, “Requiem” ed. 2023

              Voci da mondi diversi. Area germanica

                                  seconda guerra mondiale


Karl Alfred Loeser, “Requiem”

Ed. Neri Pozza, trad. Silvia Albesano, pagg. 239, Euro 18,00

     Vestfalia, metà anni ‘30. Dal 1933 Hitler è cancelliere del Reich, dal 1934

si è autonominato Führer. L’ombra scura si estende sulla Germania. La caccia agli ebrei è incominciata. Qualcuno è già partito, saggiamente, con lungimiranza. Quella che prevale, però, è un’atmosfera di inquietudine, sì, ma anche di incredulità, una fiducia- basata sul nulla- che la paura sia ingiustificata, che la Germania, patria di musicisti e filosofi, non possa abbassarsi ad una politica basata su pregiudizi. La follia che sembra percorrere il paese come un’onda di marea, si ritirerà.

    Erich Krakau è un violoncellista di fama, membro dell’orchestra municipale, il suo fiore all’occhiello. Quando suona lui, è la musica degli angeli che vibra nell’aria. Vive per la musica. E per la moglie, un’ariana bionda e delicata ‘come un papavero’ (dice il dottor Spitzer che l’ha in cura). Lisa Krakau è incinta, basta poco per scuoterle i nervi.

   Fritz Eberle è perfino ridicolo come rivale di Krakau. È un nano di fronte a un gigante. Non sono le sue umili origini (è figlio di un panettiere) che lo rendono inferiore, è la sua presunzione di essere un bravo musicista e poter ambire ad occupare il posto di Erich Krakau. Perché è vero che non c’è posto per un altro violoncellista nell’orchestra. Adesso non c’è posto. Perché quel posto è occupato da un ebreo. E l’ebreo deve essere mandato via. Quando si presenta per un’audizione, è proprio Krakau a giudicarlo, senza sospettare che, consigliandogli di andare a fare il panettiere come suo padre, sta firmando la sua condanna. Come poteva Eberle pensare di suonare nell’orchestra, traendo quei suoni penosi dal suo strumento?


    La caccia all’ebreo, a Krakau nella fattispecie, inizia. Inizia con una vendetta personale da parte di Eberle, ferito nel suo orgoglio. Membro delle SA, con i suoi compagni Eberle organizza un’azione di disturbo durante un’esecuzione di Erich Krakau il quale reagisce con un ‘Porci’ a loro indirizzato. E viene portato via dalla polizia.

    E adesso, scomparso Krakau dalla scena, sfilano una serie di personaggi ognuno dei quali rappresenta una reazione diversa alle minacce degli albori del nazismo. C’è l’ignobile giornalista di scarso valore che pensa ai propri interessi cercando di favorire la carriera di Fritz Eberle, c’è chi, nell’ambiente dell’orchestra, si tira indietro davanti alla proposta di fare qualcosa, di rivolgersi a chi ha il potere di intervenire per scoprire dove sia stato portato Krakau e di farlo liberare, e c’è chi, infine, si mette in gioco, rischia, tira fuori vecchie conoscenze, risveglia la coscienza di un amico di altri tempi che pare aver dimenticato gli ideali che condividevano durante la guerra. E poi c’è la piccola moglie. Di lei si pensava fosse fragile, delicata come un papavero. Eppure Lisa Krakau raccoglie la sfida, per amore. Potremmo paragonarla non più ad un fiore, ma ad una tigre che sfodera le unghie. È pronta a tutto, per suo marito. Già prima, lei, ariana che non aveva nulla da temere, aveva proposto di partire, avvertendo il pericolo. Adesso è disposta ad offrire quello che a una donna è più prezioso, per salvarlo.


    “Requiem” è il romanzo di un’epoca che si avvicina al baratro, che pone il singolo davanti alla scelta, se seguire la massa o il proprio imperativo morale, un romanzo in cui la musica è al centro della scena. Musica come arte suprema che scavalca ideologie ed etnie, che eleva gli animi. Musica che identifica la Germania stessa, con tutti i geni a cui ha dato i natali. E allora, nel retrofondo, c’è l’assillo della domanda- come è stato possibile? Come è stato possibile un simile stravolgimento?

   “Requiem” è un romanzo singolare anche per la storia che c’è dietro- è in parte la sua storia e quella di suo fratello Norbert (compositore e critico musicale) che Karl Alfred Loeser racconta. Entrambi i fratelli erano riusciti a fuggire in Olanda (come il dottor Spitzer nel romanzo), Norbert vi era rimasto ed era sopravvissuto alla guerra, Karl Alfred era emigrato in Brasile insieme alla moglie conosciuta in Olanda. Morì anche in Brasile nel 1999 e i suoi eredi trovarono tra le sue carte il manoscritto di “Requiem” che fu pubblicato in Germania soltanto nel 2023.