domenica 21 luglio 2024

Conn Iggulden, “E’ stato Nerone” ed. 2024

                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

    romanzo storico

Conn Iggulden, “E’ stato Nerone”

Ed. Piemme, trad. Elena Cantoni, pagg. 399, Euro 22,00

 

   Non è Nerone, non ancora, il protagonista del romanzo di Conn Iggulden, come il titolo farebbe pensare. All’inizio del libro Nerone non è ancora nato e Agrippina, sua madre, chiede al marito Gneo Enobarbo, acclamato auriga, di andare a Roma, di non sfuggire a Seiano, prefetto di Roma e voce dell’imperatore Tiberio, altrimenti questi lo dichiarerà fuorilegge e si prenderà tutto quello che lui possiede, di pensare al bambino che lei porta in grembo.

   È il 37 d.C., un anziano Tiberio è imperatore. Ritorna a Roma dal suo rifugio di Capri- quello che lui faccia, a Capri, è argomento di chiacchiere e fonte di paura. Così come l’essere mandati prigionieri a Ponza, chi ritorna da Ponza è in condizioni terribili. Sono tempi feroci, con uomini feroci al potere. L’esecuzione di Seiano, strangolato e fatto rotolare dalle scale gemonie, ne è un esempio. A Tiberio (era ammalato ma la sua morte fu, per così dire, accelerata) succederà Gaio Cesare, meglio noto con il soprannome di Caligola, fratello di Agrippina. Gaio era stato una ‘mascotte’ dei soldati, quando suo padre Germanico lo portava tra le file dell’esercito con una divisa che era stata fatta su sua misura come le calzature da cui derivava il suo soprannome. Oggi si direbbe che Caligola era stato profondamente segnato dalla vita- e come poteva non esserlo, con il padre morto avvelenato, due fratelli fatti uccidere da Tiberio, lui stesso forzato ‘ospite’ dello zio a Capri dove condusse una vita dissoluta?- e che aveva problemi psicologici nonché un morboso attaccamento alla sorella. Il matrimonio con Claudilla lo aveva trasformato, Claudilla poteva essere la sua salvezza e, invece, la morte di questa e del bambino che non era riuscito a nascere lo fecero precipitare nella follia. Morto l’imperatore, viva l’imperatore. Chi più improbabile di Claudio, fratello di Germanico, uno studioso anziano e balbuziente, come imperatore? Le trame di Agrippina sono prevedibili.

Tiberio

    È Agrippina la vera protagonista di questo primo libro della storia di Nerone. La bellissima Agrippina andata sposa a Gneo Enobarbo a soli tredici anni, diventata madre a ventidue. Il bambino fu chiamato con il nome del padre del marito, Lucio Domizio Enobarbo. Soltanto alla fine viene anticipato che prenderà il nome di Nerone. Il piccolo Lucio sarà l’erede al titolo finché Messalina, la giovane sposa di Claudio, non metterà al mondo un maschietto, bruciando le speranze di Agrippina. Lei, però, non è una donna che si dà per vinta, ed è una donna che sa giocare bene le sue carte.

Agrippina

   Uno studioso di Storia rifugge dal genere del romanzo storico, eppure questo è un genere che avvicina la grande Storia ad un vasto pubblico di lettori perché fa rivivere il passato portando alla ribalta personaggi di cui tutti noi conosciamo il nome anche se forse abbiamo dimenticato il ruolo che hanno avuto, quali imprese hanno compiuto, di che cosa, nel bene e nel male, siamo loro debitori.

    Conn Iggulden, figlio di padre inglese e madre irlandese, è specializzato nei romanzi storici che coprono un ampio raggio (troppo ampio, forse?)- dalla serie su Gengis Khan alla guerra delle Rose, dal ciclo su Giulio Cesare alla serie ateniese. La sua notorietà e il suo successo sono giustificati. “E’ stato Nerone” è un esempio del suo stile. Il lettore viene trasportato subito a Roma, nel pieno di una disputa tra Agrippina e il marito in cui i caratteri dei due personaggi appaiono chiari, affinandosi poi nelle pagine seguenti. Lo stesso avviene per gli altri personaggi che affiancano questi- impossibile dimenticarli o confonderli, nonostante i nomi ricorrenti nella stessa famiglia possano creare qualche difficoltà.

Caligola

   Soprattutto è l’atmosfera del tempo che Iggulden ricrea per il lettore, la Roma del primo secolo d.C. in cui- per dirlo con parole di oggi- il terrore corre sul filo. Una voce fatta pervenire all’orecchio dell’imperatore, un sospetto, una manifesta ambizione possono provocare la morte. Il potere che viene esercitato è assoluto e arbitrario. La violenza e la ferocia sono all’ordine del giorno e i mezzi per uccidere qualcuno variano da armi bianche, mani nude, veleni a effetto immediato o protratto nel tempo.

   Una bella lettura per quelli a cui la storia piace ma temono la noia. Le ultime parole annunciano il prossimo libro: “Ti darei il nome di mio fratello, per rendergli onore. Se fossi tu a diventare imperatore, prenderesti il suo nome. Ti chiameresti Nerone.”








giovedì 11 luglio 2024

Cristina Cassar Scalia, “Il castagno dei cento cavalli” Ed. Einaudi, pagg.320, Euro 17,50 ed. 2024

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia


        cento sfumature di giallo


Cristina Cassar Scalia, “Il castagno dei cento cavalli”

Ed. Einaudi, pagg.320, Euro 17,50

 

   C’era una vecchia storia dal sapore di leggenda, intorno al gigantesco castagno dei cento cavalli. Si raccontava di un esercito che aveva trovato riparo sotto i suoi rami, tanto era l’estensione di questi. Adesso due guardie forestali, chiamate per un incendio nella zona, avevano trovato il cadavere di una donna assassinata- era una scena così cruenta che una delle due guardie era svenuta.

    Un nuovo caso per Vanina Guarrasi, vicequestore a Catania, protagonista dei romanzi seriali di Cristina Cassar Scalia e ora anche di una serie televisiva.

La vittima aveva un soprannome, ‘la Boscaiola’, perché raccoglieva funghi che poi vendeva. Di lei si sapeva poco, aveva un amico che era stato uno scalatore e aveva fatto la guida alpina, come lei del resto. L’amico, o compagno- non era chiaro, ma, d’altra parte, a lui piacevano le donne e aveva successo con loro- era caduto dalle nuvole quando Vanina gli aveva chiesto se sapeva che il vero nome della Boscaiola non era quello con cui la conoscevano tutti. E però resta l’unico sospettato, finché un’altra donna, una casellante, viene uccisa con le stesse modalità e lui non può essere il colpevole, visto che è in stato di fermo.


Si scava ancora nel passato di entrambe le donne- non è una coincidenza sospetta che anche la seconda avesse cambiato nome?-, quello che viene fuori è sconcertante, tristissimo, drammatico, doloroso. E la morte sotto la quercia forse non è affatto casuale, così come ora diventa chiara la modalità della loro morte.

   Con il senso della misura che le è tipico, Cristina Cassar Scalia aggiunge altre tracce a quella principale del romanzo di indagine, inserendo altri tasselli nella vita dei protagonisti. Mentre prosegue, seppure con qualche difficoltà e con un’impennata di gelosia, la storia d’amore tra Vanina e Paolo Malfitano, magistrato di Palermo attivo nell’antimafia, finisce invece quella della sorella Costanza, fidanzatissima con un collega del padre medico. Quello che veniamo a sapere sui motivi della rottura è un’altra squallida storia di un tradimento perfino peggiore che se ci fosse stata una donna di mezzo. Quanto all’anziano ex commissario Patané, sempre felice di dare il suo apporto alle indagini, questa volta deve stupirsi perché la moglie non gli fa le solite scene di gelosia insana nei confronti di Vanina- che cosa le sta succedendo? È un segnale di allarme? E sboccia anche un nuovo amore per l’ispettore capo Spanò e chissà che riesca a dimenticare la ex moglie che ha già un nuovo legame.


    Sono eleganti e discreti, i gialli di Cristina Cassar Scalia. La trama de “Il castagno dei cento cavalli” tocca un argomento di particolare interesse per tutte le donne e la scrittrice riesce a intrecciare con equilibrio il giallo con il rosa, a farci assaporare le leccornie siciliane e a inframmezzare qualche parola dialettale che aggiunge un pizzico di colore alla narrazione.

    L’appuntamento estivo con Cristina Cassar Scalia e con Vanina Guarrasi non ci ha deluso. Una piacevolissima lettura.



domenica 7 luglio 2024

Jarka Kubsova, “La palude delle streghe” ed. 2024

 




Voci da mondi diversi. Area germanica


Jarka Kubsova, “La palude delle streghe”

Ed. Neri Pozza, trad. Chiara Ujka, pagg. 325, Euro 18,05

 

    Ochsenwerder, alla periferia di Amburgo, nella zona delle Marschlande (terre paludose) che è, infatti, il titolo originale del libro di Jarka Kubsova, scrittrice di lingua tedesca nata in Cecoslovacchia, a Pilsen.

    Britta Stoever. Giorni nostri.

    Abelke Bleken. 1570.

Due donne. Due tempi diversi. Due storie. Eppure, nonostante i secoli di distanza, nonostante le esperienze di vita differenti, c’è molto che accomuna Britta e Abelke, c’è un legame tutto femminile che la narrativa accentua nell’alternarsi di capitoli che si collegano come anelli di una catena- quello che segue si allaccia al precedente riprendendone il tema come fosse una sequenza musicale, la storia di una donna che si riversa in quella dell’altra.

    Sembrava un idillio, quando Britta, il marito e i due figli si sono trasferiti a vivere a Ochsenwerder, lasciando Amburgo. La casa grande (più tardi Britta verrà a sapere che la gente del posto la chiamava ‘la casa di ghiaccio’ perché era tutta di vetro e cemento) piaceva soprattutto al marito, ma la pace della natura, l’Elba che scorreva vicino, le gru sull’argine, gli spazi aperti- tutto questo riempiva il cuore, era come una rinascita. Eppure una certa qual insoddisfazione striscia in Britta- lei che aveva amato il suo lavoro di ricerca e che aveva dovuto abbandonarlo dopo che erano nati i figli, lei che aveva ripiegato su un altro lavoro che non la soddisfaceva affatto, si sente ora più che mai tagliata fuori da tutto. Il marito esce al mattino, rientra alla sera, scambiano a mala pena due parole, lui ha sempre cose più importanti a cui pensare. Lei esce per lunghe passeggiate nei dintorni e incomincia a chiedersi quali storie si nascondano dietro case abbandonate, perfino un poco sinistre. E’ così che si imbatte in un cartello che segnala una strada, con il nome di Abelke Bleken. Si incuriosisce, fa ricerche in internet, chiederà in giro.


    Abelke aveva fatto una fine terribile. Era bella, gestiva da sola, con l’aiuto di un paio di lavoranti, una grande fattoria dopo la morte del padre. Sognava un uomo che aveva conosciuto ad una festa di paese (era andato via con la promessa di tornare, non si era più rivisto), aveva un’amica (il marito di questa le impediva di vederla). Poteva una donna orgogliosamente indipendente non attirare la malevolenza degli invidiosi nel tempo in cui viveva? E noi siamo indotti a pensare che la attiri tuttora, una donna come lei.

Ma erano i tempi della ‘caccia alle streghe’ in cui demonizzare una donna significava gettare su di lei la colpa di tutto- morti accidentali, malattie, carestie, alluvioni. Quello che non poteva essere spiegato razionalmente era attribuito ai sortilegi operati da chi se non da una donna, dalla peccatrice Eva che era stata la causa della cacciata dal Paradiso terrestre?

     Abelke aveva previsto la bufera e la conseguente alluvione, aveva avvisato i paesani che mettessero in salvo il raccolto, le bestie e loro stessi. Nessuno le aveva creduto. Quando poi la natura si era scatenata, quando l’argine aveva ceduto, tutto quello che era successo dopo era la soluzione per sbarazzarsi di un personaggio scomodo, per impadronirsi di una fattoria che faceva gola a molti. Il ‘come’ è storia risaputa, ne abbiamo letto in molti libri, da “Il crogiuolo” di Arthur Miller a “La chimera” di Sebastiano Vassalli.


    In parallelo alla storia di Abelke scorre quella di Britta e, in chiave minore, quella della figlia adolescente. Sono storie diverse che parlano, però, di maschilismo, di prevaricazione, dei rischi maggiori che corrono le donne a qualunque età, delle responsabilità- anche quelle maggiori- che le donne devono assumersi in una famiglia.

    Ispirato ad una vicenda reale, “La palude delle streghe” ‘strega’ la nostra attenzione con una narrativa fatta di uno sguardo poetico e insieme realista, calandoci in situazioni in cui ci immedesimiamo al di là delle barriere di tempo. È questo che ci colpisce, come tutto sia cambiato restando fondamentalmente uguale.



 

mercoledì 3 luglio 2024

Abigail Assor, “Ricco quanto il re” ed.2024

                                              Voci da mondi diversi- Marocco


                 love story

Abigail Assor, “Ricco quanto il re”

Ed. Marsilio, trad. Annalisa Romani, pagg. 192, Euro 17,00

 

   Potrebbe essere una storia banale. Anzi, è una storia banale raccontata in maniera brillante e ambientata in un luogo del nostro immaginario- Casablanca.

   È una variante della storia di Cenerentola (nessuna fine felice, però), o della Bella e la Bestia (nessuna trasformazione finale della Bestia nel bel principe) con qualcosa anche di “Pretty Woman” (citato anche nel libro).

Sarah, sedici anni, è bellissima. La madre è francese, ma, come capiremo presto, il vantaggio e il prestigio dell’essere francese è del tutto annullato dal fatto di portarsi degli uomini a casa per sopravvivere. Del padre Sarah sa solo che era un militare dalla pelle scura come la sua, bello come Marlon Brando.

Hay Mohammed

    Sarah non è solo bella, è perspicace e furba, ha capito presto come gira il mondo, come ci siano due categorie di persone, i ricchi e i poveri, due zone della città, Anfa Superior e Hay Mohammed- là i giardini curati, le ville e le piscine, le auto di gran lusso, qui le baracche e l’immondizia. E Sarah sa che cosa vuole. Lei vuole entrare nei club esclusivi, vuole vestiti nuovi e non riadattati, vuole l’auto e l’autista. E la villa naturalmente. Vuole un uomo ricco che le dia tutto questo. Quando le indicano Driss, dicendole che è ricco quanto il re, lei decide che lo conquisterà e si farà sposare. Non importa se Driss è piccolo e tozzo, se ha il naso adunco e una brutta pelle, se non parla mai con nessuno. Driss ha una moto e- lei non lo sa ancora- è uno dei Fassi (le famiglie i cui antenati vengono dalla città santa di Fès) che assolutamente non ammettono legami con chi sta più in basso di loro.

   Sarah elabora una strategia, tutto sommato non ci vuole molto per far innamorare Driss, facendolo sentire ‘il prescelto’. Sei mesi di regali, sei mesi in cui Sarah mangia nei migliori ristoranti, in cui Driss le porta a casa i dolci migliori durante il Ramadan. Perché Driss è brutto ma è buono, non storce il naso vedendo dove abita Sarah, crede veramente che lei lo ami e lui la ama di ricambio. Sarah, vuole di più. Vuole una cerimonia e diamanti al dito. Possibile che ci riesca?


    Se la storia d’amore della piccola Pretty Woman con il suo brutto principe ricco quanto il re può non essere originale, quello che la rende unica è l’ambientazione. Perché Casablanca è la protagonista assoluta del romanzo della giovanissima Abigail Assor, lei stessa di Casablanca. Una Casablanca che non è più quella dell’iconico film con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, così come l’amore tra Sarah e Driss è ben lontano dall’essere quello di Rick per Ilsa. Questa è una città in cui la distanza tra ricchi e poveri è incolmabile, in cui i ricchi possono permettersi qualunque comportamento, possono offendere pesantemente i meno abbienti, possono sedurre le donne che hanno illuso e poi abbandonare loro e i loro marmocchi nelle baraccopoli. A Casablanca l’apparenza è tutto, la droga circola, le donne musulmane devono osservare strettamente la morale, sia per quello che riguarda il comportamento sia per l’abbigliamento- se Sarah non fosse francese, ci penserebbe la polizia a farle osservare le leggi, se Driss non allungasse dei soldi al poliziotto che li ha sorpresi a baciarsi, verrebbero arrestati-, una donna non accompagnata non può entrare in un locale, le norme sul Ramadam sono severissime, l’Aid (la festa del sacrificio che ricorda quello di Abramo) è una ricorrenza che  riempie noi di disgusto, leggendone la descrizione nel romanzo. Eppure questa scena così cruenta, con i montoni che vengono sgozzati, ha un peso profondo nella cultura musulmana e nel contesto è un momento culmine di grande significato per la vicenda dei due innamorati.


 La Casablanca di Abigail Assor è una città che ci sorprende con i suoi forti contrasti, sconosciuta ai turisti che conoscono bene, invece, l’incanto dei suoi colori giocati su una tavolozza di bianchi e di azzurri e il fascino dei suoi tramonti sul mare. Non dimenticheremo né la città né l’adolescente che ha un legittimo desiderio- essere anche lei ricca come un re, anzi una regina, non sentirsi più immondizia tra le immondizie. E il libro di Abigail Assor è una protesta contro le ingiustizie di Casablanca e della cultura musulmana.



   

venerdì 28 giugno 2024

Radikha Jha, “La foresta nascosta” ed. 2024

                                                         Voci da mondi diversi. India


Radikha Jha, “La foresta nascosta”

Ed. Sellerio, trad. Gioia Guerzoni, pagg. 319, Euro 17,00

     Suo padre è morto. Kōsuke, che da anni vive in America, tra New York e Los Angeles dove ha acquistato una certa notorietà programmando effetti speciali per il cinema, deve tornare in Giappone. Se la prende comoda, Kōsuke, non riuscirà neppure ad essere presente al funerale, e questo dice già tutto della distanza che si è creata, non solo geografica ma anche di relazione personale, tra lui e la sua famiglia. Quando arriva a Tokyo e incontra la sorella, viene subito calato in un altro mondo, in un altro genere di preoccupazioni.

    Il padre di Kōsuke era un sacerdote scintoista. Kōsuke aveva sempre sentito il padre lontano da lui, preso come era nella gestione del piccolo santuario, nell’organizzare le cerimonie, nell’occuparsi della comunità. Si sentiva più legato all’altro sacerdote, ormai anziano, che diventa adesso per lui un ponte tra presente e passato, che gli rivela il carattere del padre e la sua nascosta grandezza, la sua dedizione totale al servizio del santuario e dei fedeli.


    La situazione non è affatto semplice- che cosa vuol dire ereditare un santuario? Che cosa è chiamato a fare, Kōsuke? E se rinunciasse e lasciasse il santuario alla sorella? Prima di tutto c’è il problema economico. Tutti i santuari sono in difficoltà in Giappone, gravati dalle tasse, soggetti a pressioni ricattatorie dalla yakuza che mira ad acquistare i terreni su cui sorgono per costruire complessi immobiliari al loro posto. Il padre di Kōsuke  aveva già dovuto sacrificare la lussureggiante foresta che illuminava i ricordi dell’infanzia di Kōsuke.

    Kōsuke non ha il minimo dubbio, appena arrivato. Si sbarazzerà del santuario e tornerà in America dove, oltre al lavoro, ha un legame importante con una donna a cui- altra decisione da prendere- vorrebbe chiedere di sposarlo. Poi iniziano i dubbi, i tentennamenti, l’ondata di ricordi, i confronti.

Meiji Jingu di Kengo Kuma

   Sono duplici i confronti che sorgono spontanei nella mente di Kōsuke, perché il ritorno di questo Ulisse dei nostri tempi è diverso eppur stranamente simile a quello dell’eroe greco. Non sono gli altri che non riconoscono Kōsuke, come avviene per Ulisse, ma è lui che non si raccapezza più, non riconosce la nuova Tokyo occidentalizzata che ha perso la sua anima, che ha distrutto per ricostruire senza tener conto della cultura millenaria che era dietro a quello che abbatteva. Kōsuke riconosce che Kengo Kuma è un genio dell’architettura, ma dove è finito il bel santuario di legno di una volta? Quello che Kōsuke vede, quello che attrae più turisti e più soldi, è un santuario finto, come è finto il sacerdote sugli scalini. Come è possibile che abbiano costruito degli edifici così alti da dominare i tetti della dimora dell’imperatore? Nel nuovo Giappone, nella nuova Tokyo, è venuto meno il rispetto, si è persa la sacralità.

Kengo Kuma

    Invece della Penelope che aspetta Ulisse, Kōsuke incontra una compagna di scuola- è lei a riconoscere lui e sarà poi, invece, la fidanzata americana a trovarlo cambiato, quasi irriconoscibile, quando lo raggiunge a Tokyo. La compagna di scuola ritrovata è una donna infelice, Kōsuke potrebbe anche innamorarsi di lei ma sarebbe aggiungere pericolo a pericolo. Perché, se Kōsuke aveva iniziato a capire il peso che la yakuza (la maggiore organizzazione criminale del mondo) aveva avuto nel lento declino del santuario del padre esaminandone i conti, adesso che le minacce si sono fatte più pesanti e concrete, Kōsuke capisce che non è solo la sua vita ad essere a rischio.

    Edward M. Forster aveva scritto, nell’esergo di “Passaggio in India”, “Only connect…”. Erano altri tempi, c’era l’esigenza di connettere l’Oriente con l’Occidente, c’era la speranza che si potesse fare. È ancora possibile connettere l’Oriente con l’Occidente? O è troppo tardi e la cultura (o non-cultura) occidentale ha fagocitato quella orientale, impregnata di silenzio, di oscurità (i kami non vogliono la luce, ripete spesso Kosuke), di presenze invisibili, di tempo lento?

“La foresta nascosta” di Rhadika Jha è un libro bellissimo che ci porta in un Giappone inedito, che ci fa meditare.



 

mercoledì 26 giugno 2024

Jocelyne Saucier, “Il segreto dei Cardinal” ed. 2024

                                          Voci da mondi diversi. Canada

   cento sfumature di giallo

Jocelyne Saucier, “Il segreto dei Cardinal”

Ed. Iperborea, trad. Luciana Cisbani, pagg.224, Euro 17,00

   I Cardinal. Ah, i Cardinal con il fascino delle famiglie numerose. Sono ventuno i giovani Cardinal. Sì, non c’è nessun errore: ventun figli di cui solo cinque le figlie femmine. E certo che hanno ognuno il proprio nome, ma è solo il padre che li chiama con quello, tra di loro sono LaPulzella, ElToro, Tootsie, Geronimo, Fanalino che è l’ultimo arrivato, LaTommy e la sua gemella che a volte è chiamata L’Adottata e molto più spesso con il suo vero nome, Angèle.

    Tra i tanti aneddoti, tra i tanti dettagli di vita quotidiana, tra le tante parole di lessico famigliare (Nemmiposto vuol dire ‘nessuno mi prenda il posto’ su quell’unico divano a tre sedute o per terra appoggiati al muro), tra le tante imprese audaci di Geronimo e degli altri contro quelli che loro chiamano ‘i bifolchi’, sono Le Gemelle che occupano il posto principale in questa storia di famiglia. Sono assolutamente identiche, anche se LaTommy deve il suo soprannome al suo comportamento da maschiaccio e L’Adottata è angelica come il suo nome- una coppia senza figli voleva adottare entrambe le gemelle, solo Angèle si era lasciata tentare dai vestitini frou-frou e dalla promessa di una stanza tutta bianca e una volta all’anno andava ospite da quei genitori che la colmavano di regali anche senza averla poi adottata. E però era diventata la vittima delle battute cattive dei fratelli che si divertivano a insudiciarle i begli abiti con cui ritornava. Dove è Angèle ora? L’ultima volta l’avevano vista seduta sul sedile posteriore dell’automobile di Geronimo, indossava il vestitino a fiori, aveva accanto a sé dei sacchetti con le sue cose. Era diretta a Montréal, e poi?


   La presenza-assenza di Angèle ritorna in tutte le narrazioni fatte in prima persona da membri diversi della famiglia- inizia Fanalino il cui racconto si basa per lo più su quello che ha sentito dire, perché parla anche di fatti avvenuti quando lui non era neppure nato, poi interviene LaPulzella, poi il primogenito che finirà in Australia per allontanarsi dalla famiglia, e Geronimo con la sua passione per i candelotti di dinamite e LaTommy che vive all’estremo Nord e ha sposato un inuit, e poi altri ancora.

   Dove sono i genitori in questo romanzo di famiglia? Padre è un prospettore, diventato famoso per aver scoperto una miniera di zinco. È lui che ha fondato la cittadina dove vivono in quella grande casa con stanze ‘disordinate’ perché è composta da due case messe insieme. Padre ha una passione dominante, quella delle rocce, e dei figli sembra ricordarsi solo quando compiono sette anni e il compleanno viene festeggiato con una iniziazione alla dinamite.


     La più grande delle figlie, LaPulzella, aveva fatto da madre a quasi tutti i bambini- come avrebbe potuto occuparsene Madre, sempre impegnata a sfornare figli e cucinare in giganteschi pentoloni? È una figura evanescente, questa Madre che passa silenziosamente da un letto all’altro quando già dormono, per una fugace carezza. Eppure tutti sono d’accordo nel volerla proteggere, nel cercare di confonderla perché non si renda conto che non sono ventuno i figli che la circondano. Si può ingannare il cuore di una madre?

     Nel 1995 il padre ormai anziano riceve un premio alla carriera e tutti i figli Cardinal si ritrovano insieme. Quando era iniziata la diaspora? Forse  quando Angèle si era allontanata sull’automobile? Incontrarsi di nuovo e sparpagliarsi per rendere meno evidente un’assenza dà inizio ai ricordi, alla ricostruzione di quanto era accaduto, alle domande ‘come è stato possibile?’, ai sensi di colpa: “un colpevole basta e avanza”, dice Geronimo, “è inutile stare ad accusarsi”. E non è neppure la madre la più straziata, ma Carmelle/LaTommy che solo davanti allo specchio fa riaffiorare il sorriso di Angéle sul suo volto.

   Divertente e drammatico, con una misteriosa esplosione al centro della trama, con una famiglia così numerosa da distrarci dagli altri temi sociali ed economici che hanno a che fare con le scoperte minerarie e con un finale forse un poco deludente. Ma una cosa è certa: sentiremo la mancanza dei Cardinal.



lunedì 24 giugno 2024

Alvydas Šlepikas, “Il mio nome è Maryté” ed. 2024

                                                 Voci da mondi diversi. Lituania

    seconda guerra mondiale

Alvydas Šlepikas, “Il mio nome è Maryté”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Adriano Cerri, pagg. 256, Euro 20,90

 

    Aveva sette o otto anni. Le avevano detto che, se glielo domandavano, doveva dire “Il mio nome è Maryté”. Non sapeva dire nient’altro in lituano, ma mai, assolutamente mai, i soldati russi dovevano sospettare che lei si chiamasse in realtà Renate e fosse tedesca. L’avrebbero uccisa.

   Si stima siano stati circa 45.000 i bambini o ragazzi tedeschi della Prussia Orientale che in qualche maniera riuscirono ad arrivare in Lituania, mentre l’Armata Rossa avanzava e ai tedeschi di quei territori veniva proibito, in un primo tempo, di evacuare. Erano per lo più orfani o bambini lasciati indietro dai genitori portati via a forza nei campi di lavoro oppure addirittura venduti per un poco di cibo per sfamare gli altri figli. Li chiamavano “Wolfskinder”, i figli del lupo, o i bambini lupo, perché giravano affamati nelle foreste, mangiando qualunque cosa fosse più o meno commestibile. Si offrivano per lavorare nelle fattorie e molti contadini lituani, per interesse o per generosità, li alloggiarono anche se era proibito- chi dava lavoro ai bambini tedeschi poteva essere mandato in Siberia, se scoperto o denunciato.


    Il libro di Alvydas Šlepikas ci racconta della odissea dei ‘piccoli tedeschi’ in una narrativa spezzata e frammentata come lo era la vita dei bambini e di quello che restava della loro famiglia. Il piccolo nucleo famigliare che conosciamo all’inizio, formato da mamma, zia e bambini a cui si aggiunge poi un’amica con i suoi due figli, si assottiglia a poco a poco. Il primo ad allontanarsi è il maschietto più grande- andrà in Lituania nascosto in un carico di carbone su un treno merci e poi tornerà indietro con le cibarie che è riuscito a procurarsi. È la prima parte di una storia che ci paralizza il cuore tra compassione e incredulità. Ci chiediamo quanto grande sia stata la disperazione di una madre per spingere un figlio dodicenne verso un’impresa difficile e pericolosa anche per un adulto. Ci chiediamo quanto grande sia stato il coraggio e il senso di responsabilità e l’altruismo di un bambino che non mangia quello che porta nello zaino per non privarne il fratellino minore che piagnucola di continuo, ‘ho fame’. Ci chiediamo quanto grande sia stato il terrore di una donna- perché ha visto come è stata ridotta la sua amica- per impiastricciare i visetti delle sue bambine per risparmiarle dalla bestialità dei soldati russi.


    Nella gelida legnaia che è diventata la loro casa il ragazzino non trova più nessuno ed è un altro frammento di storia che seguiamo, quello che ha in primo piano la sorellina Renate diventata Maryté. Anche lei si offriva per fare qualunque lavoro (chi l’avrebbe presa, così piccola?), credeva di essere stata fortunata, di aver trovato un nuovo papà e una nuova mamma…

    Nella postfazione lo scrittore dice di aver saputo di due bambine con questo nome, due bambine diventate donne che non volevano si venisse a sapere del loro passato e infatti solo dopo il 1990, dopo la fine dell’Unione Sovietica, quelli che erano stati i Wolfskinder poterono rivelare la loro identità. Quanti lo avranno fatto? Quanti avranno preferito non disseppellire ricordi traumatici? Quanti avranno scelto di mantenere nome e cognome lituani piuttosto che riprendere una identità tedesca che non diceva loro nulla?

    Nel 2010 c’erano ancora un centinaio di quegli ex-bambini che vivevano ancora in Lituania. Mentre quella tedesca non contempla alcun risarcimento per gli ex-bambini lupo, la legge lituana concede loro una piccola pensione aggiuntiva.

   Un film di Rick Ostermann, del 1913 ricorda l’odissea dimenticata dei bambini lupo.