Casa Nostra. Qui Italia
seconda guerra mondiale
il libro ritrovato
Boris Pahor, “Il rogo nel porto”
Ed. Zandonai, trad. Anna
Raffetto, pagg. 224, Euro 18,00
Titolo originale: Kres v pristanu
“Vieni qui” le disse con gli occhi
lampeggianti.
Julka si mosse e già le dita impazienti del maestro l’avevano afferrata
per l’orecchio.
“Non voglio più sentire quella brutta lingua” disse camminando fra i
banchi e tirandosela dietro. “Non voglio.” La sua voce ansimava. “Avete capito
che non voglio?”
“Ognuno sa purtroppo soltanto
le cose che lo riguardano”, riflette lo scrittore quando, insieme a due
compagni sopravvissuti come lui ai campi di concentramento, ascolta alla radio
la notizia che l’esercito jugoslavo ha occupato Trieste. Sono a Lille, in
Francia, indossano ancora le casacche a righe dei detenuti, sono entrati nel
negozio di un vecchio barbiere che gli ha detto: “Chi porta simili uniformi non
ha bisogno di denaro”. E’ un’eccezione, il vecchio barbiere del racconto “Nuove
fibre” che fa parte della raccolta “Il rogo nel porto” di Boris Pahor, appena
pubblicata dalla casa editrice Zandonai.
Perché, a guerra terminata, questa è
l’esperienza sconvolgente di coloro che tornano dall’inferno dei campi: la
gente non vuole sapere, si gira dall’altra parte facendo finta di non vedere,
scansando un reduce se lo incontra per strada, come fosse un appestato. Peggio
ancora: con quell’aspetto così malconcio, con il feltro in testa che nasconde
il cranio rasato ma gli conferisce l’aria di un malintenzionato, lo
scrittore-narratore, ritornato a Trieste, viene addirittura fermato dalla
polizia e accusato di tentativo di scasso. E l’interrogatorio (nel racconto
“Una strana accoglienza”) suona come un dialogo tra sordi, o uno scambio di
battute in un tragicomico dramma dell’assurdo: “E’ disoccupato?”, “Prima ero internato”, “E’ disoccupato. E basta”.
Tuttavia il significato della frase che
abbiamo citato all’inizio- che ognuno conosce solo ciò che lo riguarda- va
oltre la capacità di immedesimarsi, di dare un’occhiata nel baratro della
necropoli, nel mondo degli scheletri ambulanti con una divisa a strisce e
zoccoli di legno ai piedi. Arriva ad inglobare tutto e a riguardare tutti noi,
lettori del presente che continuiamo a sapere soltanto quello che ci tocca da
vicino e a procedere con frammenti di cognizioni e spesso con vecchi
pregiudizi. Perché quanti di noi sono informati di quello che accadde il 13
luglio 1920 a
Trieste, quando i fascisti diedero fuoco alla casa della Cultura slovena, il
bianco edificio in centro alla città progettato dall’architetto Max Fabiani nel
1904? Eppure è questo il ricordo traumatizzante che ritorna di frequente, a
fare da collante, nei racconti de “Il rogo nel porto”. A volte è solo un
accenno, come uno spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’.
Nella storia che dà
il titolo alla raccolta è l’avvenimento centrale- il cielo che si tinge di
rosso, il puzzo di bruciato, le camicie nere che danzano come selvaggi intorno
al Narodni Dom, uomini e donne che si gettano dalle finestre per sfuggire alle
fiamme- accostato a tre altre vicende. Quella di Mizzi (più serva che nipote
del vecchio zio che la ospita) che, rispondendo alla domanda dello zio, dice di
essersi dichiarata slovena, e lui le lancia un insulto, S’ciava: veniamo così a sapere del censimento che operò un’altra
forma di violenza sui triestini (“Sei
cittadina straniera. Ti manderanno via”). E poi altri due episodi che hanno
spaventato Branko e Evka, i bambini protagonisti di quasi tutti i racconti che
sono memorie d’infanzia,- quando i fascisti
interruppero una recita per San Nicolò e quando dei ragazzini italiani
disturbarono un’ora di lezione nella scuola slovena. “Che ne sarà di questi bambini?”, si chiede Mizzi. “Vivono sotto una cappa di paura”.
Non è solo paura, non sono solo gli incubi che
hanno il colore del rosso e del nero che assillano i bambini. E’ anche quell’altra
costrizione che li rende muti togliendogli la loro lingua, obbligandoli ad
esprimersi in italiano (e così Branko scrive in un tema che la nave ‘si
annegò’), punendoli se parlano nella loro (sono come le ali di una farfalla
inchiodata con uno spillo le cocche del nastro che lega le trecce di Julka-
attenzione, la si deve chiamare
Giulia- e con cui il maestro la sospende all’attaccapanni).
Sono queste le cose che non sapevamo perché non ci riguardano da vicino-
e ce ne sono altre ancora in questa raccolta di storie che leggiamo come un
tutto unico perché vi riscontriamo alcuni fili conduttori: i bambini del primo
gruppo di ricordi; le leggi repressive fasciste; lo smarrimento per la perdita
di identità culturale; l’esperienza della ‘fortezza della perdizione’ di cui
abbiamo letto più a lungo in “Necropoli” e quella sconcertante
dell’indifferenza altrui al ritorno. Ovunque, in ogni pagina, le luci e i
colori di Trieste.
Gli scorci sul mare e il Carso alle spalle. La bora che
soffia, compagna ed amica anche quando gela le ossa. La terra che non si vuole
abbandonare perché la si ama, qualunque sia la lingua in cui questo amore è
espresso. E si finisce, nel racconto “Una sosta sul Ponte Vecchio”, quasi nello
stesso modo con cui si è iniziato: quanta acqua è passata sotto i ponti, eppure
sono ancora vivi la discriminazione, il disprezzo, l’ignoranza. Perché mai gli
studenti sloveni di Trieste studiano Dante e la letteratura italiana e gli
studenti italiani nulla sanno degli scrittori sloveni? Forse perché, se così
fosse, “la vita da noi diventerebbe un paradiso”?
La penna di Boris Pahor è
straordinariamente felice in questi racconti (e altrettanto felice quella della
traduttrice Anna Raffetto), lo stile ci pare più levigato e insieme più
naturale che nel dolente “Necropoli”, permeato di una poesia che riesce ancora
ad alleviare i ricordi bui. E, in aggiunta al piacere, la lettura si risolve in
uno spunto di riflessione: “la storia ci ha messi tutti alla prova…il compito
nostro, ora, è di fare in modo che ci si possa riunire in un saggio convivio.”
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
Nessun commento:
Posta un commento