sabato 31 ottobre 2020

Caroline Bernard, “La passione di Frida” ed. 2020

                                                       Voci da mondi diversi. Area germanica

               biografia romanzata

Caroline Bernard, “La passione di Frida”

Ed. Tre60, trad. M.C. Dallavalle, pagg. 320, Euro 16,00

    La passione di Frida si chiama Diego Rivera. La passione di Frida è la pittura, ma anche la pittura riflette la sua passione per Diego, l’uomo che, pur facendola soffrire, fu il centro della sua vita.

     Aveva solo diciotto anni, Frida, quando, nel 1925, rimase vittima di un incidente. Era salita sull’autobus insieme ad Alejandro, il ragazzo di cui era innamorata. Quando si dice ‘il caso’: se Frida non si fosse attardata ad una bancarella sul mercato, se non avesse dimenticato l’ombrellino e non fosse dovuta tornare indietro a prenderlo, lei e il suo amico non avrebbero perso il solito tram che prendeva per tornare a casa e non sarebbero saliti sull’autobus.

Frida si svegliò in ospedale, viva per miracolo. Per tutta la vita avrebbe sentito le conseguenze di quell’incidente- operazioni a non finire, dolori alla schiena, amputazione delle dita di un piede, aborti strazianti.


     Se l’incidente segna una fine e un inizio nella vita di Frida- incominciò a dipingere da letto, con uno specchio fissato al baldacchino-, l’incontro con Diego Rivera, di vent’anni più vecchio di lei, segna un altro inizio, all’insegna dell’amore.

Diego era già famoso, era il genio che, con i suoi grandiosi murales aveva restituito al popolo messicano la sua storia e la sua dignità. E aveva la fama di essere un donnaiolo, anche se era sposato e aveva due figlie, anche se non era certo un adone, con quel suo corpaccione e la faccia da rospo. Eppure Frida lo trovò irresistibile e se ne innamorò, nonostante l’avessero messa in guardia contro di lui.

                                         murale di Diego Rivera    

     Il romanzo di Caroline Bernard, “La passione di Frida” è una biografia romanzata che si legge come una grande storia d’amore. È una storia coloratissima, perché il susseguirsi degli alti e bassi del rapporto tra Diego e Frida è segnato dai quadri di Frida che sono la sua migliore autobiografia. La scrittura di Caroline Bernard ha una straordinaria vividezza, le sue descrizioni ci fanno ‘vedere’ il quadro che Frida dipinge in “quel” momento e ci aiutano a capirlo meglio, ad interpretare gli oggetti che Frida era solita mettere nei suoi quadri, o i simboli con cui esprime i suoi sentimenti. Come nel quadro delle due Frida, dipinto in un periodo di separazione e di crisi, in cui una Frida (quella da cui Diego si è allontanato) è vestita con un abito bianco e il suo cuore spezzato è in mostra, mentre l’altra Frida indossa una delle sue gonnellone colorate, una camicetta molto messicana con nastri gialli, il cuore è intero e ha in mano un piccolo ritratto di Diego.

    Frida stessa è un quadro. Una donna che non possiamo non ammirare per la sua forza vitale- un’altra si sarebbe ritirata nell’ombra, avrebbe cercato di passare inosservata, perché, dopotutto, era una storpia. Non Frida. Frida, con le folte sopracciglia a volo d’uccello, i fiori nei capelli, le pesanti collane azteche, i colori brillanti dei suoi abiti, gli scarponcini fatti su misura, con perline e un campanellino che annunziava la sua zoppia, voleva essere guardata. E Diego era catturato da lei anche se non poteva fare a meno di tradirla.

       Una storia d’amore, la loro, tra alti e bassi, con un divorzio e un secondo matrimonio, con diversivi anche da parte di Frida e poi, sempre, lo sforzo di Frida per non lasciarsi annullare da questo amore, per non ridursi ad essere la signora Rivera. Lei era Frida Kahlo, una grande pittrice che espose i suoi quadri in una galleria di New York e perfino a Parigi.

      Se il libro di Caroline Bernard può essere accusato di sentimentalismo, di parlare troppo di amore, dobbiamo riconoscere che è difficile evitarlo quando i protagonisti della vicenda sono due personaggi che sono diventati leggenda.

    C’è molto da apprezzare, però, ne “La passione di Frida”. C’è soprattutto la forte personalità di lui e di lei che riusciamo a percepire perché appare nelle loro opere,  nella scelta degli abiti e dei gioielli di Frida, nella straordinaria Casa Azul a Coyoacán dove vissero e che ora è diventata un museo.

    Alla Fabbrica del Vapore, a Milano, ci sarà fino a marzo una mostra su Frida Kahlo. Il libro di Caroline Bernard può essere un’ottima preparazione prima di visitarla.

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mercoledì 28 ottobre 2020

Stella Prudont, “Dedejme” ed. 2020

                                                                  Voci da mondi diversi. Russia


Stella Prudont, “Dedejme”

Ed. Brioschi, trad. Elisabetta Spediacci, pagg. 184, Euro 16,00

      “Perché ci chiamano ‘ebrei delle montagne’?”, chiede un personaggio all’inizio di “Dedejme”. “Esistono anche gli ebrei dei boschi e del deserto?”. “Tanto tempo fa gli ebrei furono costretti a fuggire da Israele”, incomincia così la spiegazione che prosegue raccontando come alcuni di quegli ebrei andarono ad ovest e parlano yiddish e altri andarono ad est, in Iran. Poi, 1500 anni fa, gli ebrei iraniani furono fatti schiavi e mandati nel Caucaso orientale a costruire una fortezza. “Dato che li trattavano malissimo, molti scapparono e si nascosero in cima ai monti.”

     È un libretto singolare, questo “Dedejme” di Stella Prudont, nata a Stavropol, in Russia. Succede poco o niente, in “Dedejme”- è uno spaccato di una famiglia di “ebrei delle montagne”. Pochissimi sono i riferimenti esterni- sappiamo che corre l’anno 1993 perché si dice che Eltsin è al potere da due anni, che da quando c’è “quell’ubriacone” non si è visto nulla di buono, che Dovid, figlio maggiore della famiglia, è un imprenditore a Mosca e che è molto ricco. Tanti, invece, sono i racconti di quello che avviene o è avvenuto tra le mura domestiche dove è la donna a regnare sovrana, la mamma, “dedejme per l’appunto. Il secondogenito Boris dice che perfino a scuola insegnano che la cosa più importante è la madre, che la madre viene subito dopo Dio. “Se il paradiso esiste, dedejme, giace ai tuoi piedi.”

    Channa è il nome della madre- i figli arrivano a litigare contendendosi il privilegio di chiamare con il suo nome una loro figlia. Quando era morta sua madre, Channa era distrutta dal dolore e quando, il giorno dopo, era nata la prima figlia di suo figlio Dovid, Channa l’aveva reclamata per allevarla lei. Si sarebbe chiamata Šeker, come sua madre, ne avrebbe preso il posto. Gli ordini di una madre non si discutono, la bimba era stata consegnata a Channa, la vera madre non aveva avuto voce in capitolo.

    Adesso- si festeggia il compleanno del capofamiglia- Šeker è un’adolescente infelice. Aspetta l’arrivo del suo vero padre con il batticuore con cui si aspetterebbe un innamorato, non ha il coraggio di chiedere se la sua vera madre verrà, per timore di una delusione, e allora chiede se verrà la tanto invidiata sorellina- è impossibile che la bimba venga da sola, se c’è lei, ci sarà di certo anche la mamma.

     I ruoli di mamma e nonna non sono ben definiti, così come non lo sono quelli di zia e nipote. La zia più giovane si è vista soppiantare dalla nipotina Šeker nell’affetto che sarebbe dovuto spettare a lei.


    Agli uomini si deve rispetto, i figli maschi sono privilegiati, ma il vero potere, in famiglia, è delle donne. Sono come le Parche dei miti antichi, reggono i fili del destino della famiglia. Sono le donne che tessono le trame dei matrimoni, che vagliano le fotografie degli aspiranti mariti o mogli, che conducono le trattative, che decidono quale sia il coniuge migliore per i figli. E a volte sbagliano. Ne è un esempio la vicenda della figlia minore di Channa- che clamoroso errore era stata la scelta del primo marito a cui ne era seguito un altro, dopo il divorzio dal primo. Una donna non può restare da sola, se, come Erke, è già stata sposata, si deve accontentare. E Channa, la terribile e volitiva Channa, così infelice nella sua vita matrimoniale da aver perso la voglia di vestirsi, decide lei anche della sorte della bambina della figlia Erke, mandata in un orfanotrofio in Russia e poi richiamata a casa dopo le seconde nozze della madre, povera bambina spaesata e bisognosa d’affetto.


     Sono lontane dal nostro mondo, le donne di “Dedejme”. Non una di loro è felice. Non sono felici come mogli e non lo sono neppure come madri. E viene spontaneo chiedersi a che cosa gli giovino le belle parole della canzone, “Oh mamma, amata mamma,/ sei la felicità, la gioia e la pace.” Sono solo parole e il loro destino è quello di subire.

    Una ricca postfazione di Valerij Dymsyc ci aiuta a saperne di più sugli “ebrei delle montagne” che furono per lo più risparmiati dalla furia nazista perché considerati di ‘etnia tata di fede giudaica”.

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domenica 25 ottobre 2020

Fahrad Bitani, “L’ultimo lenzuolo bianco” ed. 2020

                                                   Voci da mondi diversi. Afghanistan

         romanzo di formazione

 
Fahrad Bitani, “L’ultimo lenzuolo bianco”

Ed. Neri Pozza, pagg. 206, Euro 17,00

 

   Quando Fahrad, in Italia dove il padre ha un incarico diplomatico, vede sventolare le bandiere bianche fuori dalle ambasciate, sussulta di paura- i talebani sono arrivati anche in Italia? Perché quello è il loro vessillo. Il padre lo tranquillizza- in questo mondo, lontano dall’Afghanistan divorato dalle guerre, il bianco è un colore di pace.

     La reazione di Fahrad ci dice tanto dell’Afghanistan in cui ci porta con il suo libro che non ha pregi letterari, ma ha il valore di una testimonianza.

     “Non sono uno scrittore”, esordisce Fahrad Bitani, “io sono un militare e mio padre è un generale afghano. Ho studiato Scienze Strategiche all’Accademia militare di Modena. E nel mio paese ho fatto la guerra, come fanno tutti i soldati.”

    In queste poche righe c’è il riassunto essenziale de “L’ultimo lenzuolo bianco”, ma Fahrad ha 33 anni quando scrive e c’è altro che gli preme raccontare- perché si sappia.

    Alcune date sono punti di svolta nella sua narrazione, affastellata di immagini spesso scioccanti. Nato nel 1986, Fahrad deve credere a quello che gli dicono i suoi genitori, che c’è stato veramente un “prima” con re Zahir Shah che aveva instaurato una monarchia costituzionale, quando le donne non portavano il burqa, a Kabul c’era un’università di prestigio e pure un collegio femminile: era un Islam dai costumi liberi.

Zahir Shah

     Poi il colpo di Stato nel 1973 e l’inizio delle lotte interne fra le varie etnie. Il padre di Fahrad è generale dell’esercito dell’ultimo presidente della Repubblica Democratica afghana, Najibullah Ahmadzai. Si respira ancora: il presidente assicura la pluralità dei partiti, la libertà di espressione, un sistema giudiziario indipendente.

    1992. addio alla Repubblica Democratica, Rabbani diventa presidente del Nuovo Stato Islamico. Il padre di Fahrad è arrestato dai mujaheddin. Esce di prigione perché rinnega il passato e diventa combattente. Quattro anni da incubo. Quando arrivano i talebani, nel  1996, sembrano una liberazione e invece non è cambiato niente. Il padre di Fahrad finisce di nuovo in carcere, da dove riuscirà a fuggire.

     Il racconto di questi anni- fino al ritorno dei mujaheddin, sostenuti dagli americani, nel 2003, e l’approdo in Italia nel 2004- è fitto di avvenimenti e di descrizioni di una situazione spaventosa. È la brutalità che permea l’aria che fa spavento. La brutalità che diventa spettacolo. L’orrore delle mani mozzate per furto, delle donne che si accasciano sotto il lancio delle pietre perché condannate come adultere, la violenza che diventa un divertimento esemplare, qualcosa a cui si desidera prendere parte attivamente in prima persona.


    Il potere del mullah Omar- il comandante supremo dei talebani- si basa sull’ignoranza della popolazione: quando manca l’educazione scolastica, quando l’unico libro consentito è il Corano, un popolo è facile preda delle dittature. Quando le donne non valgono nulla, quando lo stupro è uno spettacolo a cui si assiste con indifferenza, i figli possono essere facilmente manipolati.

     I bambini afghani non hanno un’infanzia normale. Tutti i bambini, ovunque, hanno giocato alla guerra, ma c’è più realismo nel gioco dei bambini afghani, in quell’ambizione di uccidere un infedele. E Fahrad Bitani ci parla con orrore e disgusto del “bachabazi” che significa “divertimento sul bambino”, l’abitudine diffusa, di un uomo adulto, di avere un ragazzino per divertimento. È un segno di potere, un vanto raccontarlo.


Neppure il popolare gioco di far volare gli aquiloni, reso famoso dal bestseller “Il cacciatore di aquiloni”, riesce ad ingannarci. Anzi, il gioco, che si chiude in maniera drammatica, ci toglie ogni speranza. L’innocenza infantile è morta in Afghanistan.

    Questo romanzo-testimonianza è anche, però, un romanzo di formazione, il percorso individuale di un giovane che non resta insensibile davanti alle esperienze di un mondo diverso dal suo. Il ragazzo viziato che arriva in Italia pensando che i soldi e il potere lo mettano al di sopra della legge, cambia, lentamente. Resta un musulmano, ma riesce a vedere “oltre la nebbia del fondamentalismo”, e dice basta all’indottrinamento- vuole cercare la verità. Questo è il nuovo Fahrad Bitani (contro cui è stata emessa una fatwa).

     “L’ultimo lenzuolo bianco” è un libro duro da leggere, ma è una voce “dall’interno” dell’Afghanistan che dobbiamo ascoltare. 

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giovedì 22 ottobre 2020

Daniela Raimondi, “La casa sull’argine” ed.2020

                                                                       Casa Nostra. Qui Italia

                    saga

Daniela Raimondi, “La casa sull’argine”

Ed. Nord, pagg. 400, Euro 20,00

 

    “È per colpa di una zingara se la famiglia si è imbastardita”. Un incipit che inchioda l'attenzione. Il nome di un paese, Stellata, tra Lombardia, Emilia e Veneto, che fa balenare lo scintillio delle stelle. Un trisavolo, Giacomo Casadio (tutti con un certo fascino, i nomi dei personaggi di questo romanzo), con occhi azzurri, carnagione e capelli chiari. Una zingara, Viollca, il suo esatto opposto, scura con occhi e carattere di fuoco- un'attrazione fatale.

    Ecco tutti gli elementi giusti per impostare un romanzo che ci tiene avvinti per 400 pagine con la storia dei Casadio, generazione dopo generazione, per due secoli di guerre, di pace, di cambiamenti, di difficoltà, di progressi per una famiglia e per l'Italia.

   Quello spunto iniziale, di unire un uomo sognatore con una donna concreta e pratica, serve da linea-guida per tutto il romanzo, perché i discendenti erediteranno i geni dell'uno o dell'altra: i sognatori dagli occhi cerulei saranno sempre visti con sospetto- si sa che sono inconcludenti o, peggio ancora, si lasciano trascinare da utopie che possono risultare pericolose; i mori dagli occhi di carbone saranno quelli che avranno un sesto senso, premonizioni strane, sogni anticipatori, come avessero una memoria genetica dell'antenata zingara che faceva i tarocchi.


    Fanno sempre tanti figli, i Casadio, come tutti a quell’epoca. Quando Neve, andata sposa giovanissima perché incinta, stremata dalle maternità con ricorrenza annuale, deciderà che è ora di dire basta, non avrà soluzione che chiudere a chiave la porta della camera da letto. E il marito cercherà soddisfazione altrove.

   La narrazione procede a salti di anni e di generazioni, indugiando a tutte le tappe più importanti della nostra Storia, dalle spedizioni di Garibaldi alla prima e alla seconda guerra mondiale, alla terribile piena del Po del 1951.

C’è una puntata in una piantagione di caffè in Brasile, quando una Casadio accetta un matrimonio alla cieca per allontanarsi da un uomo che ama ma che non può sposare e, agli inizi degli anni che porteranno ad un maggiore benessere economico, due Casadio si allontanano dalla casa sull'argine per cercare lavoro a Viggiù. Leggiamo le cronache di dettagli e novità che fanno parte dei nostri ricordi, canzoni dell'epoca, la prima lavatrice e le due cugine, una bionda e una mora, prenderanno strade diverse. Sono gli anni di piombo, la mora, che ha ereditato il sangue focoso degli zingari e gli occhi azzurri dei sognatori, si unirà alla lotta armata- le conseguenze saranno drammatiche.  


    La casa sull'argine che dà il titolo al libro è il cuore della famiglia. Eppure, stranamente, non ha una vita propria come avviene così spesso nei romanzi inglesi, si anima solo alla fine, come se raccogliesse le forze per un ultimo saluto, per un ultimo respiro, quando viene svuotata di tutti i mobili per essere venduta. A Norma Casadio resta in mano, di tutte quelle persone, di tutte quelle vite, una scatola da scarpe piena di santini- una bella usanza andata persa, le immaginette con la foto del defunto ad eterna memoria.

   Se la voce della casa sentinella sul fiume è debole, non lo è affatto quella del Po che, invece, si fa sentire possente in tutto il romanzo. Scorre maestoso, tranquillo, minaccioso, sempre presente nel bene nel male, come un'antica divinità.


   Forse c'è un po' troppo nel romanzo di Daniela Raimondi, perché non è certamente facile tratteggiare un ritratto dell'Italia e condensare la storia di una famiglia nell'arco di duecento anni in un numero ragionevole di pagine, senza perdersi, senza appesantire il racconto. La scrittura, però, è così scorrevole che ci trascina, proprio l’onda del fiume, e, se confondiamo i vari personaggi, ci resta però bene in mente il ricordo dei Casadio dal duplice carattere. 



martedì 20 ottobre 2020

Jennifer Nansubuga Makumbi, “Kintu” ed. 2020

                                                              Voci da mondi diversi. Africa

          romanzo epico

Jennifer Nansubuga Makumbi, “Kintu”

Ed. 66thand2nd, trad. E. Benghi, pagg. 457, Euro 20,00   

     5 gennaio 2004. Bwaise, agglomerato di case vicino a Kampala, capitale dell'Uganda. All'alba, quattro membri del Local Council prelevano Kamu Kintu dalla sua abitazione, presumibilmente per un qualche interrogatorio di routine. Ma, lungo la strada per portarlo alla centrale, inizia a serpeggiare la voce che abbiano arrestato un ladro e la gentaglia inizia a picchiarlo. Finché muore sotto i colpi.

   Questa scena non è, come appare, l'inizio del romanzo epico di Jennifer Nansubuga Makumbi, piuttosto la fine. Perché tutto incomincia con una maledizione tre secoli prima, quando Kintu (un nome che grossomodo corrisponde al nostro Adamo, il primo uomo) uccide, senza volerlo, uno dei suoi figli. Gli aveva dato uno schiaffo perché lo aveva sorpreso a bere dalla sua zucca contenente l'acqua, cosa proibitissima perché Kintu era il Ppookino, il governatore della sua gente, i Ganda. Il ragazzo era caduto e doveva aver picchiato la testa. Peggio ancora, il ragazzo non era stato sepolto adeguatamente e Kintu non aveva avuto il coraggio di rivelare quello che era accaduto alla madre. Dovremmo dire “alle madri”, e poi in realtà nessuna delle due donne gemelle, entrambe mogli di Kintu, era la vera madre, perché il ragazzo era un tutsi ed era stato adottato.


    Il romanzo di Jennifer Nansubuga Makumbi è diviso in sei capitoli e questo, con la storia di un ‘peccato originale’ (compiuto da un uomo, badate bene, e non da una donna) è forse il più affascinante, perché ci parla di una società maschilista in cui la virilità di un uomo è provata dal numero dei figli e di conseguenza la donna sterile può anche essere molto amata dal marito ma non ha alcun valore. Eppure c'è una duplice valenza nell’esaltazione della virilità- si inneggia alla nascita di ogni figlio maschio, si esulta per la benedizione della venuta al mondo di una coppia di gemelli (uno dei fili portanti della narrazione: i gemelli sono così importanti da far cambiare il nome dei loro genitori proprio in quanto padri e madri di gemelli), i figli sono una ricchezza, un bene in comune fra tutte le mogli, e poi si ridicolizza, si sorride, si ride apertamente della fatica dell’uomo (di Kintu) a soddisfare tutte le mogli, della sua stanchezza nel non potersi sottrarre ad un nuovo matrimonio.

   Ogni capitolo inizia con un riferimento a quel discendente che è morto e che aspetta di essere riconosciuto nella camera mortuaria, e poi ci porta in un altro tempo, ci introduce ogni volta un nuovo personaggio- tutti, in qualche modo, colpiti dalla maledizione. Incontriamo Suubi Kintu, la ragazzina che va a servire in una casa di gente benestante e riesce ad inserirsi fra di loro come una figlia (è inseguita dallo spirito di una gemella morta alla nascita), Kanani Kintu e la moglie, fanatici religiosi di un gruppo evangelico, che hanno due figli gemelli, maschio e femmina, ‘troppo’ uniti tra di loro, Isaac Newton Kintu, nato da uno stupro, che vive con l'incubo di avere contratto l’AIDS ed essere colpevole della morte della moglie, Miisi Kintu che ha studiato in Inghilterra e ritorna in una Uganda che risente della dittatura e della guerriglia degli anni ‘80 in cui sono morti i suoi figli.

    Sono storie solo in apparenza tutte slegate ma, a meglio guardare, c’è sempre qualcosa che le unisce- un richiamo alla leggenda della maledizione di famiglia, l'ereditarietà della gemellarità o, più banalmente, della febbre da fieno. Finché un raduno di famiglia viene organizzato alla fine, forse una certa pace viene restituita ai vivi e ai morti che si sono sempre aggirati tra i vivi.


    È un romanzo ambizioso, “Kintu”. Storia di una famiglia attraverso diverse generazioni, di un clan tribale, di una nazione, il Buganda che è diventato Uganda passando da un’epoca coloniale, che ha lasciato dietro di sé una profonda impronta- una lingua (l'inglese) e una religione-, all’indipendenza e ai disordini con i presidenti Obote e Idi Amin. Ma non è la politica con la grande Storia ad essere in primo piano. La Storia viene letta attraverso le persone, attraverso quella trasformazione che si opera nei personaggi di epoche diverse che finiscono per appartenere un poco ad entrambi i mondi- quello tribale degli stregoni e degli spiriti e quello razionale e scientifico.

    Il cambiamento più significativo, la conclusione di questo lungo percorso di formazione di una famiglia, è espresso alla fine nelle parole di Miisi, quando nomina sua erede la figlia: “Io sono il primo Ganda che nomina una donna sua erede. Passerò alla storia.”

     Vale la pena di correre il rischio di fare confusione tra i molti Kintu, perché questo è un romanzo grandioso, una reinterpretazione tutta africana di “Cent'anni di solitudine” in un linguaggio lirico, fantasioso, realista. Affascinante.


           

 

domenica 18 ottobre 2020

Uwe Timm, “La scoperta della currywurst” ed. 2020

                                                    Voci da mondi diversi. Area germanica

Seconda guerra mondiale

Uwe Timm, “La scoperta della currywurst”

Ed. Sellerio, trad. Matteo Galli, pagg. 238, Euro 14,00   

      La parola madeleine suscita in noi, ormai, un'onda di ricordi come in un riflesso pavloviano. Ci siamo abituati ad immaginare quel gusto fruttato della pasta che si sbriciola in bocca con un sorso di tè e a lasciarci portare via con la mente. La madeleine, passi. Ma la currywurst… solo i tedeschi possono sognare il passato pensando a una currywurst. Che cosa è poi? Immaginiamo un qualche tipo di salsiccia molto teutonica con una salsa esotica al curry e ci sembra un abbinamento improbabile. Dobbiamo aspettare la fine del romanzo di Uwe Timm per averne la ricetta, per sapere come è stata scoperta.

     Il narratore- lo scrittore?- inizia col dirci che ha dovuto discutere sul luogo dov'è si è servita una currywurst per la prima volta. Assolutamente non a Berlino, come rivendicavano alcuni, ma ad Amburgo. C'era un chiosco dove la signora Lena Brücker offriva il caffè di ghiande e la currywurst alla fine della guerra. Il narratore-scrittore cerca la signora Brücker. È ancora viva, è in una casa di riposo e va a trovarla per chiederle della currywurst.

    Inizia così un racconto straordinario in cui la grande Storia è vista dal basso, con una scarsa coscienza politica, con un marcato disinteresse per quello che sta accadendo a meno che non riguardi da vicino le persone coinvolte.

   È l’aprile del 1945. Chiunque non si lasci accecare sa benissimo che la guerra è persa, che la propaganda può blaterare di nuove armi ed offensive contro il nemico ma in realtà gli inglesi sono all'Elba e l'Armata rossa è vicina. Alla fine del mese Hitler si sarebbe ucciso insieme ad Eva Braun e Lena Brücker, un marito di cui non sa niente da sei anni e due figli grandi, offre rifugio ad un giovane ufficiale della Marina incontrato per caso durante un bombardamento. Il giovane Hermann Bremer avrebbe dovuto raggiungere un'unità di terra il giorno seguente e invece rimase ventisette giorni in casa di Lena. Nascosto, con la paura di essere scoperto e finire davanti alla corte marziale come disertore. Ma, avrebbe avuto senso andare a farsi ammazzare?

    Lena Brücker,  cieca come Omero, racconta e intanto lavora a maglia un golfino che ha un paesaggio ricamato sul davanti. Conta i punti e racconta. Fa passare un filo di un colore e ne raccoglie un altro di un colore diverso e, sul davanti del maglione, si delineano montagne, alberi, un sole giallo. Non possiamo non pensare che è la stessa cosa che Lena sta facendo con il suo racconto, tirandone le fila dopo aver fatto divagazioni, dopo essere stata rimessa in carreggiata dal narratore che vuole sapere della currywurst.


   Prima, però, Lena ci racconta della sua insperata storia d'amore, dei suoi sotterfugi per non rivelare a Bremer che la guerra è finita, della vita quotidiana che è una lotta continua in una città disseminata di macerie, per procurarsi il cibo, per sfruttare qualsiasi cosa che sia in apparenza commestibile. Nessuno ha il coraggio, neppure ora che si è agli sgoccioli, di opporsi apertamente al nazismo e però Lena racconta (provandone soddisfazione e cogliendo tutto il ridicolo ad anni di distanza) di come il cuoco della mensa in cui lei lavorava aggiungesse qualcosa ai piatti cucinati per ‘certi’ ufficiali che immancabilmente si sentivano male e dovevano precipitarsi nei bagni- una sottile e appropriata vendetta-lezione.

    E poi racconta del giorno in cui tutto era cambiato, nulla le importava più, neppure di riuscire a trattenere Bremer. Quando aveva visto le fotografie dei campi di concentramento, delle montagne di cadaveri, degli scheletri viventi. E ricordava come l'ufficiale inglese della mensa, che era sempre stato gentile con lei, aveva distolto lo sguardo quando l'aveva incontrata. Come aveva potuto, Lena, non vedere? come aveva potuto non domandarsi dove stessero portando tutta quella gente sui camion?


    E si arriva poi alla currywurst, scoperta per caso come tante altre ricette diventate famose. Un colpo di estro, un’aggiunta di ingredienti quando ne mancano altri.

    Lena Brücker ha esaurito il suo compito, finendo il suo racconto. Ha finito anche il maglione, ha consegnato il suo pezzo di Storia che non potrà più essere dimenticato.

    Ci sono tanti modi di imparare la Storia. Inseguendo il profumo della currywurst è uno dei migliori.

                                                       


giovedì 15 ottobre 2020

INTERVISTA A QIU XIAOLONG, autore di "Processo a Shanghai" 2020

 

    Ci incontravamo ogni volta che veniva pubblicato un suo libro, Mr. Qiu Xiaolong ed io, quando veniva a Milano per la presentazione. È stato impossibile in questo annus horribilis, e sappiamo tutti il perché. Lo scrittore ha risposto alle mie domande per posta elettronica e lo ringrazio per la generosità con cui lo ha fatto, perché le domande erano davvero tante ed esigevano risposte approfondite.

Sono tanti anni che Lei è lontano dalla Cina- dai fatti di piazza Tienanmen, se non sbaglio, circa trent’anni fa. Quali sono i Suoi sentimenti nei confronti della Cina, adesso? Di che cosa sente di più la mancanza?

     È vero, è da tanto che sono lontano dalla Cina. Sono partito verso la fine del 1988 e nell’anno seguente, il 1989, ci fu il giro di vite di piazza Tienanmen che cambiò tante cose per me. Per evitare persecuzioni da parte delle autorità cinesi per il mio sostegno agli studenti di piazza Tienanmen, non avevo scelta che di restare negli Stati Uniti e poi di iniziare a scrivere in inglese, dato che, in quel momento, i miei libri in cinese erano vietati. Sono passati trent’anni. Dopo il 2000, grazie alle ricerche che dovevo fare per scrivere dell’ispettore Chen, sono tornato spesso in Cina.


E, proprio come accade all’ispettore Chen, sono cambiati i miei sentimenti nei confronti della Cina. Per esempio, ne “La misteriosa morte della compagna Guan”, il primo romanzo della serie, Chen- si era nei primi tempi della riforma sotto Deng- era idealista nonostante certe battute di arresto. Dopo, però, Chen è diventato sempre più pessimista mentre il governo del Partito Comunista Cinese rendeva via via più chiaro che, nonostante tutti i discorsi vuoti sulle riforme, il partito non si sarebbe mosso dalla posizione del voler mantenere immutato il governo autoritario del PCC- a qualunque costo. Così, negli ultimi libri della serie, Chen è del tutto disilluso riguardo al sistema del Partito, ma ha anche imparato che deve separare il PCC dal popolo cinese per cui vuole ancora fare del suo meglio come poliziotto. Penso che si possa dire la stessa cosa di me.


    Quanto a quello di cui sento più la mancanza, della Cina- purtroppo la Cina è cambiata così drasticamente che oggi non so neppure più che cosa mi sia tanto mancato della Cina in passato.

E quali sono i Suoi sentimenti verso il Suo paese d’adozione? Le piace lo stile di vita americano?

      Come tanti altri, ho sentimenti contrastanti verso molte cose del mio paese d’adozione. In quanto scrittore, di certo godo qui della libertà di scrivere di qualunque cosa io voglia, senza dovermi preoccupare della censura. Il modo di vivere americano è, forse, un’espressione troppo generica. Con un esempio specifico, posso dire che non mi piace affatto il fast food e tuttavia scopro che ci sto facendo sempre più l’abitudine.

Suppongo ci siano vantaggi e svantaggi nello scrivere del proprio paese da lontano. Non Le sembra mai di perdere il contatto con il Suo paese? D’altra parte Lei è più libero di scrivere dei problemi della Cina. Si sente sicuro quando ritorna in Cina? Se dovesse succedere qualcosa- spero veramente che non succeda mai niente- non credo che il Suo passaporto americano La proteggerebbe, considerando i metodi che Lei descrive così chiaramente. Che ne pensa?

     Sì, ci sono vantaggi e svantaggi nello scrivere della Cina da lontano. In un certo senso, tuttavia, la distanza può anche offrirti una prospettiva diversa. Come in una poesia della dinastia Song, “Non puoi avere una vera immagine delle montagne/ finché non ti trovi fuori dalle montagne.” E questo è vero soprattutto in un paese come la Cina. Tornando spesso in Cina, ho finito per considerare la mia prospettiva nello scrivere della Cina come una combinazione di ‘interno’ ed ‘esterno’. Dopo tutto, ho vissuto tanti anni in Cina, ma ne ho vissuto altrettanti negli Stati Uniti. Di conseguenza la mia prospettiva non può non essere influenzata e formata dalla mia esperienza di vita in entrambi i paesi. Ironicamente, un giornalista cinese una volta mi ha detto che in realtà mi trovo in una posizione unica per scrivere del lato spiacevole della Cina, perché, nell’era di internet, gli scrittori cinesi in Cina non hanno libero accesso alle informazioni su problemi come la sistematica corruzione o i crimini politici: i siti web non allineati politicamente con le autorità del PCC sono bloccati e vietati. Chi usa, per avere informazioni non approvate dal governo, una VPN (Rete Virtuale Privata), può essere condannato ad anni di prigione.

     Quanto al rischio che corro, ritornando in Cina, per aver scritto sui problemi della Cina- certo che sono preoccupato. Con il deteriorarsi della situazione con Xi al potere, sono consapevole che il passaporto americano possa non essermi di protezione. Penso anche, però, che, come ha detto il mio amico giornalista, sono in una posizione unica per scrivere della Cina e sono disposto a correre il rischio di continuare a scrivere.                          

 Solleva tante questioni nel Suo romanzo e, in qualche modo, sono tutte connesse con la giustizia e la libertà. Nell’insieme, il Suo romanzo sembra avere a che fare con l’apparenza e la realtà- Orwell direbbe che è una questione di ‘double speak’, linguaggio doppio. Incominciamo con la prigione dorata che è il sistema dello shuanggui. Nel 2017 il Presidente Xi aveva detto che lo shuanggui sarebbe stato sostituito dallo liuzhi. È stato così? C’è differenza tra i due sistemi?

    Ha ragione. Lo sfondo dell’ultimo romanzo con l’ispettore Chen, “Processo a Shanghai”, è la giustizia e la libertà in Cina- e finisce per essere tanto importante quanto la vicenda dell’investigazione che è in primo piano. E ha ancora ragione quando dice che è essenzialmente una faccenda di “double speak” in Cina, per dirlo come Orwell. La frattura fra apparenza e realtà sotto il governo del PCC sta raggiungendo un livello totalmente assurdo. Prendiamo l’esempio del sistema dello shuanggui che Lei cita. In cinese, il primo carattere shuang significa due o doppio, il secondo carattere gui significa ‘designato specificatamente’, di modo che un funzionario del Partito che violasse la disciplina del Partito sarebbe trattenuto in un luogo specificatamente designato (in genere un albergo) per uno specifico periodo di tempo (di varia durata). Spesso lo shuanggui è una copertura perché non vengano fuori i dettagli sporchi della corruzione del PCC. Una tale pratica mostra di per sé che la legge non si applica al PCC, oppure che il PCC è al di sopra della legge. Nonostante le parole ufficiali sul governare secondo la legge, lo shuanggui è una pratica al di sopra della legge- portata avanti senza passare attraverso nessuna procedura giudiziaria e senza alcuna trasparenza. Ecco perché i cinesi stanno adottando una nuova ‘voce passiva’ nella lingua. Normalmente “la gente scompare”, ma, nella nuova espressione, “la gente è fatta scomparire”.

     Quanto al Liuzhi citato da Xi, è semplicemente un cambiamento di vocabolo. Liuzhi e shuanggui significano una sola cosa e sono la stessa cosa. Quello che è peggio è che il sistema dello shuanggui, in origine una pratica interna solo al PCC, adesso viene applicato a chiunque, anche ai giornalisti stranieri.

 Chen è uno studioso, ma il suo interesse per la storia del Giudice Dee è una sorta di schermo che gli permette di nascondere quello che gli importa di più, il caso Min?

     

Chen si vede ancora prima di tutto come un investigatore. Non era sua intenzione diventare un poliziotto ma, dopo aver lavorato così tanto e così a lungo come poliziotto, ormai l’esserlo fa parte di lui. Tuttavia, in “Processo a Shanghai”, è anche un poliziotto molto disilluso che lavora nel sistema che mette gli interessi del Partito al di sopra della legge. Così pensa di iniziare una nuova carriera. Questo giustifica in parte il suo interesse per la storia del Giudice Dee, ma- e questo è più importante- gli serve come copertura per la sua indagine. Intanto lui (e io con lui) ha pensato seriamente alla radice dei problemi: la mancanza di un potere giudiziario indipendente nella storia e nella cultura cinesi.

Per migliaia di anni, i giudici- come il Giudice Dee- erano funzionari con potere esecutivo. Per esempio, il cinese zhixian (sindaco di una città o di una contea) è sempre stato tradotto in inglese come ‘magistrato’, ma è sbagliato. Uno zhixian fungeva da magistrato di tanto in tanto, ma nello stesso tempo esercitava il potere esecutivo. Il Giudice Dee visse sotto la dinastia Tang, ma la situazione è rimasta uguale fino ad oggi. Soltanto i funzionari di alto livello del Partito hanno tutti e tre i poteri insieme- giudiziario, legislativo ed esecutivo.

Devo credere a Chen Cao quando dice che non ha letto “1984”? o c’è un motivo per dirlo? Il Grande Fratello tiene sotto controllo tutti ovunque in Cina. È vero il drone in una delle ultime scene? Sembra fantascienza e fa paura.


    C’è stato e c’è ancora, in Cina, un certo numero di libri ‘politicamente sensibili’- incluso “1984”- sia che siano ufficialmente vietati o no. Questi libri mettono in allerta il Grande Fratello. Di conseguenza Chen deve dire che non ha letto “1984”.

   Verso la fine di “Processo a Shanghai”, la scena del drone, che gira su Chen quando è in montagna, è vera, tranne che è successo a me a Shanghai. Con le videocamere di sorveglianza, gli scanner di riconoscimento facciale installati ovunque, insieme al sistema dei Big Data, la Cina è- letteralmente- una società di sorveglianza. E, durante il mio soggiorno a Shanghai lo scorso anno, sono stato costantemente consapevole di essere seguito, riconosciuto e analizzato dall’onnipresente rete di sorveglianza.

  


Mi trovavo in visita ad un’amica australiana ed eravamo seduti sul balcone del suo appartamento, stavamo chiacchierando con alcuni altri ospiti. Secondo la padrona di casa, sopra, sotto e ai lati del balcone erano installate delle telecamere. Supposi che la sua osservazione fosse un indizio, che era meglio che facessimo attenzione a che cosa dicevamo, là fuori. Poi, all’improvviso, venne verso di noi un piccolo drone, ronzando e spostandosi intorno al balcone. Per circa un’ora il drone continuò a girare in cerchio su di noi come una mosca insistente su un’invisibile macchia di sangue, con quel ronzio incomprensibile, finché ci alzammo per rientrare nella stanza. “E’ venuto per causa mia?”, non ho potuto fare a meno di domandarmi. Mentre il mio ispettore Chen continua sempre più a guardare nell’abisso della politica cinese, l’abisso mi riconosce. Con il mio arrivo catturato nelle videocamere di sorveglianza, con l’analisi della tecnologia di riconoscimento facciale che riesce anche a fare una stima dell’età, appartenenza etnica e genere, e a dire l’identità del ‘sospetto’, venne subito emanato un allarme. Ed ecco che era arrivato il rinforzo del drone.

L’onnipresente sistema di sorveglianza si rivela essere più duro ancora che in “1984”.

Chen Cao è un esperto sia di antica cultura cinese sia di letteratura occidentale. Sono materie entrambe studiate a scuola oggi? Voglio dire, la Rivoluzione Culturale aveva spazzato via tutto quello che era ‘vecchio’, per non dire di quello che era ‘straniero’. E adesso? Si studiano di nuovo? È stato colmato il vuoto?

   Buona domanda. Durante la Rivoluzione Culturale dal 1966 al 1967, tutto quello che era considerato ‘vecchio’ o ‘straniero’ doveva essere spazzato via. È stato veramente ironico che Confucio, condannato e denunciato in quel periodo, sia ritornato in auge negli anni post-Rivoluzione Culturale. Basta che Lei pensi ai molti Istituti Confucio in Italia. Se poi si studii Confucio, questa è un’altra storia. Si sono riprese a studiare nelle scuole le letterature straniere, anche se la censura è sempre molto stretta. Per esempio, ho provato a tradurre in cinese Il Cantico dei cantici- parecchi editori hanno dapprima mostrato interesse, ma nessuno ha poi osato pubblicarlo, per lo sfondo religioso del poema. La stessa cosa si può dire per la traduzione in cinese (non fatta da me) dei romanzi con l’ispettore Chen. Ci sono talmente tanti tagli e cambiamenti dettati dalla censura che non vi riconosco i ‘miei’ libri.

   Quindi si può dire che si può di nuovo leggere in Cina quello che è ‘vecchio’ e  ‘straniero’, ma soltanto per le parti approvate o utili alle autorità del PCC.

 

Una domanda per soddisfare la mia curiosità. Chen dice spesso che si sente vecchio e fuori moda. Ma non dovrebbe avere neppure cinquant’anni. Possiamo sperare che Jin lo aiuterà a sentirsi più giovane?

      Ho cercato di essere vago riguardo al periodo temporale di questi romanzi, perché voglio tornare in Cina per fare ricerche. Potrei avere dei guai se le autorità del PCC fossero consapevoli che scrivo libri su quello che sta succedendo in Cina in questo momento. Perciò non è un’eccessiva licenza poetica dire così poco dell’età di Chen. Dice di sentirsi vecchio e fuori moda perché la maggior parte della generazione cinese più giovane pensa e si comporta in maniera diversa- più materialista e pragmatica, meno idealista- con la scomparsa del sistema di valori tradizionale. Infatti viene preso in giro da qualche collega come ‘antiquato’. Jin sarà presente nel prossimo libro e speriamo che riesca a farlo sentire un poco più giovane.

La mia ultima domanda potrebbe metterla in imbarazzo e si senta libero di non rispondere. La pandemia da corona virus è stata uno shock per il nostro mondo e naturalmente, ce l’abbiamo con la Cina da dove tutto è iniziato. Secondo Lei, la Cina è responsabile soltanto di non aver messo in guardia immediatamente l’intero mondo contro quello che stava succedendo?

    Capisco benissimo perché la gente sia risentita nei confronti del Partito Comunista Cinese dopo che la pandemia da coronavirus ha avuto inizio a Wuhan e poi è dilagata in tutto il mondo. Il governo del PCC è responsabile non solo di non aver immediatamente avvertito il mondo, ma anche dei tentativi ripetuti di insabbiare tutto all’inizio.


Un nome molto conosciuto oggi in Cina è quello del dottor Li Wenliang che, in un post su WeChat, scrisse che si stava diffondendo in Cina un virus simile a quello della SARS, avvisando gli amici di fare attenzione. A causa di questo post fu convocato alla centrale di polizia, rimproverato, obbligato a firmare un attestato in cui si dichiarava colpevole di aver diffuso online false notizie. Tragicamente, lo stesso dottor Li fu in seguito contagiato dal virus e morì. Poco prima della sua morte Li mostrò ad altri la sua dichiarazione di colpevolezza, rivelando così i frenetici tentativi del governo di nascondere il tutto. È un esempio che dice tutto su che cosa sia stato capace di fare il PCC per mantenere l’apparenza di “va tutto bene nel mondo” per il loro governo autoritario. Infatti anche l’epidemia della SARS scoppiò in Cina e anche allora il PCC fu coinvolto nel tentativo di insabbiamento.

   Detto questo, voglio aggiungere che bisogna distinguere tra il PCC e il popolo cinese, che ha sofferto molto come la gente degli altri paesi.

intervista e recensione saranno pubblicate su www.stradanove.it