venerdì 29 novembre 2019

Alessia Gazzola, “Questione di Costanza” ed. 2019


                                                                       Casa Nostra. Qui Italia
         cento sfumature di giallo


Alessia Gazzola, “Questione di Costanza”
Ed. Longanesi, pagg. 335, Euro 18,60

      Si chiama Costanza Macallé, la nuova protagonista dei romanzi di Alessia Gazzola. Età: ventinove anni. Una laurea in medicina e una specializzazione in anatomopatologia. Single, con un passato sentimentale variegato. Per dirla in parole semplici, aveva la fama che ci stava con tutti (più o meno vera). E infatti: ha una bambina di quasi tre anni, Flora, con i capelli rossi come i suoi (che adesso sono un poco ritoccati con l’henné). Flora è nata da una passione fulminante (e durata il tempo di un fulmine) per un ragazzo conosciuto in aeroporto- stavano andando entrambi a Malta. Di lui Costanza non sa nulla, neppure il cognome. Solo che studiava a Zurigo, che suonava il piano per insistenza di sua madre, che era fidanzato (ahimé, ma lo aveva saputo dopo, naturalmente).
     Quando la conosciamo Costanza sta andando a Verona da Messina, dove è nata e cresciuta- a Verona abita sua sorella e Costanza ha appena vinto un posto di ricerca presso il centro di Paleopatologia di Verona. Che Costanza non sappia neanche che cosa sia la Paleopatologia importa poco, l’assegno di ricerca la terrà a galla per un anno. E, volente o nolente, Costanza si trova subito coinvolta nel ritrovamento di uno scheletro nella chiesa di un castello nei pressi di Verona. E accanto alle ossa c’è una lunga treccia di capelli di un colore rosso reso opaco dal tempo: un pegno d’amore eterno per un uomo che è stato trapassato da una spada?

     Se, pur comprendendo le ragioni per cui la serie precedente doveva terminare, sentivamo la mancanza di Alice Allevi, se ci siamo avvicinati titubanti alla lettura di “Questione di Costanza”, dopo le prime pagine in cui ci sembrava che, sì, cambiavano le circostanze, ma la voce era sempre quella di Alessia, finiamo tutta via per innamorarci di Costanza. È vero, la vivacità e l’allegria, il piglio con cui affronta la vita, una certa propensione per cacciarsi nei pasticci (sentimentali e di lavoro), il forte attaccamento alla famiglia, sono le stesse caratteristiche di Alice. Ma sono sufficienti l’ambientazione diversa e la presenza della vocetta di Flora per rinnovare la protagonista che ha dovuto maturare in fretta per assumersi le responsabilità di madre single. 
La combinazione delle due trame, poi, quella personale e quella del mystery in un miscuglio dalle tinte rosa e giallo, già sperimentata nella serie di Alice Allevi, è perfettamente riuscita. Costanza è impegnata in una duplice ricerca- dell’identità dell’idealizzato seppur fedifrago Marco, padre della bambina, e di quella dell’antico cavaliere e della donna che lo aveva amato. Storia forse un poco banale ma sempre attuale con i quesiti che pone, la prima, e intrigante sullo sfondo del secolo XIII la seconda che si svolge tra il Sud e il Nord dell’Italia, alle corti dell’imperatore Federico II di Svevia e di Ezzelino da Romano. Una la controparte dell’altra e forse quei capelli rossi che i due principali personaggi femminili hanno in comune contribuiscono a creare un effetto straniante- se di infelicità si parla, più lieve quella di Costanza di oggi che quella di Selvaggia nel 1237, la sorte delle donne è cambiata di più di quella degli uomini (per fortuna), la malattia del fratello di Selvaggia sembra più terribile della diversità del fratello di Costanza.

     In un’alternanza delle due storie, mentre Costanza lotta per non rifare gli stessi errori e si impegna per riuscire in un lavoro che non le interessa, un uomo impara a fare il padre e il passato scolorito come il colore di quella treccia recisa torna a vivere per noi con le sue vicende di figli illegittimi (come Flora, ma è una fortuna che la parola sia caduta in disuso), di alleanze stipulate con matrimoni in cui la volontà della donna non conta nulla (sarebbe auspicabile che Costanza sposasse il padre di Flora?), in un attimo arriviamo alla fine del romanzo e ci dispiace separarci da Costanza. Per dare il tempo ad Alessia Gazzola di scrivere il seguito. Che attendiamo.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it



martedì 26 novembre 2019

Adrián Bravi, “L’idioma di Casilda Moreiro” ed. 2019


                                                                     diaspora
      love story

Adrián Bravi, “L’idioma di Casilda Moreira”
Ed. Exòrma, pagg. 187, Euro 15,50


    Un amore che è finito. Un amore che incomincia. Un professore anziano in coma. Un suo studente che affronta un viaggio. Una lingua in coma come l’anziano professore di etnolinguistica- sono rimaste due persone a parlare questa lingua. Anzi, a non parlare questa lingua, perché questi unici due, Bartolo e Casilda, non si rivolgono la parola da anni. Riuscirà lo studente che parte per rintracciarli nella pampa ai confini tra Argentina e Patagonia a farli uscire dal mutismo, a registrare questa lingua mantenendone il ricordo? Sono questi gli ingredienti dell’insolito romanzo “L’idioma di Casilda Moreira” dello scrittore di origine argentina Adrian Bravi.
     Quando, tanti anni fa, in un romanzo di Antonio Soler lessi la frase ‘la mia lingua è la mia patria’, mi restò nel cuore e nella mente- rivado a quelle parole, così essenziali, ogni volta che leggo di persone sradicate, di migranti, e penso alla lacerazione interna, quasi ad una scissione di personalità che deve provocare il vivere con due lingue. Perché noi siamo la lingua che parliamo. Siamo la lingua che le nostre madri usavano con noi. Che abbiamo usato a scuola. In cui abbiamo rivolto le prime parole di amore. È per questo che Casilda si rifiuta di parlare la lingua dei günün a küna, i tehuelches della Patagonia settentrionale, con Bartolo, il fedifrago che l’ha lasciata per seguire un’altra donna. È morto il loro amore ed è morta la lingua per dirlo. E c’è bisogno di uno studioso in punto di morte per dare la spinta al suo studente per partire. Perché è incuriosito, perché condivide con il professore la passione per le lingue, perché dentro di sé spera in un doppio miracolo, risuscitare una lingua e risuscitare il professore.

     Annibale Montefiori, un ragazzo goffo con i pesanti occhiali dalla montatura nera, parte per l’ignoto- il suo è una variante del viaggio di apprendimento o di formazione. Se la caverà benissimo, nonostante sembri così sprovveduto. Scoprirà l’amore con la figlia del locandiere di questa località fuori dal mondo che si chiama Kahualcan dove arriva nella sua ricerca di ex innamorati. E lui non è certo il tipo del fedifrago, ma chissà se questo sentimento appena sbocciato resisterà alla lontananza, quando lui, inevitabilmente, deve tornare in Italia. Annibale si innamora anche degli ampi spazi aperti, della pampa così totalmente diversa dalle dolci colline delle Marche da cui lui viene. Impara perfino ad andare a cavallo, Annibale, per seguire la ragazza, per andare con lei a parlare con Bartolo e Casilda.
Bartolo che dice qualche frase in günün a yajüch, ma dice anche che non c’è il corrispondente di quelle parole in spagnolo, che è sempre in groppa al suo kawal da cui non si separa mai, che parla solo del suo cavallo, di un luogo a sud dove crescono i nomi, del sole che sorge e tramonta. Casilda, invece, racconta di sua nonna che era nomade, che le aveva insegnato a fare i mantelli con le pelli degli animali e a dire le preghiere per fermare il vento o per far uscire il sole. “Noi”- dice Casilda- “più che parlare, cantavamo nella nostra lingua, perché è fatta più per cantare che per parlare da cristiani”.
      Lascio al lettore scoprire la fine di questo romanzo insolito, poetico e a tratti divertente, che tocca in una strana maniera le corde del nostro cuore.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook


     
      

lunedì 25 novembre 2019

Regīna Ezera, “Il pozzo” ed. 2019


                                                          vento del Nord
                                                          love story

Regīna Ezera, “Il pozzo”
Ed. Iperborea, trad. Margherita Carbonaro, pagg. 333, Euro 18,50

    Quando mi capita di leggere- innamorandomene subito- un libro come “Il pozzo” di Regīna Ezera, il mio primo pensiero è, ‘ma dove si era nascosto questo splendido libro? Perché non ne abbiamo saputo niente fino ad ora?’. Grazie dunque, prima di tutto all’impareggiabile casa editrice Iperborea che lo ha trovato per noi, che ce lo ha fatto conoscere in traduzione. “Il pozzo”, pubblicato per la prima volta nel 1972, è il romanzo più famoso (ne è stato tratto un film, La sonata del lago) della scrittrice lettone Regīna Ezera, nata a Riga nel 1930 e morta nel 2002: è stata sepolta vicino al fiume Daugava che attraversa tutta la Lettonia e che ne “Il pozzo” è diventato un lago. Anche lo pseudonimo con cui Regīna pubblica i suoi libri, Ezera, significa lago, perché la scrittrice era affascinata dall’acqua, aveva sempre voluto vivere in campagna, vicino ad un bosco e vicino all’acqua. Per questo si era presto trasferita in un paesino chiamato Brieži, nei pressi del fiume Daugava.
     E il lago è una presenza importante nel romanzo. Sono le acque del lago che separano le due abitazioni di Laura e Rūdolfs- lei abita sempre lì, insieme ai suoi due bambini, alla suocera e alla cognata, lui, medico di Riga, è qui in vacanza. Il marito di Laura, un bell’uomo impulsivo, allegro e spesso ubriaco, sconta in prigione la pena per aver ucciso un uomo- un incidente di caccia, avevano bevuto troppo. E, mentre il lago, con la sua bellezza struggente, assume un valore metaforico, la barca diventa il ‘libro galeotto’ di Laura e Rūdolfs: Rūdolfs la chiede in prestito a Laura, è così che la conosce.

     In realtà non succede niente nel romanzo. Chi è che ha scritto che l’amore più grande è quello che si è perso o non è potuto essere? Così per Laura e Rūdolfs. Un sentimento che avanza a piccoli passi- lui che va a curare la bambina che ha la febbre, la suocera che spera che lui (non importa se non è giovanissimo) si innamori della figlia Vija che ha la sfrontatezza che Laura non ha e non ha niente della sua dolce bellezza, il bambino (delizioso) che fa amicizia con il dottore, Rūdolfs che aspetta che Laura esca da una riunione alla scuola dove insegna per portarla a casa. Un abbraccio veloce. Un bacio. Gli occhi che si inseguono. Che cercano una luce alla finestra.
E intanto arrivano le lettere del marito di Laura dal carcere, segnalano una presenza assenza che pesa, perché tradire un uomo assente, che conta spasmodicamente su di te, è ancora più difficile che tradire un marito presente. Come se si potesse, poi, sfuggire allo sguardo vigile della suocera a cui importa solo di una persona al mondo- suo figlio. E piano, a fatica, come dal pozzo da cui si solleva il secchio dell’acqua con le catene che cigolano, escono fuori i segreti della famiglia, il passato burrascoso della suocera, il figlio illegittimo, la morte da eroe del marito, padre di Vija, la gelosia di una figlia poco amata verso il fratello prediletto della madre. “Perché siamo tutti infelici?...Perchè?”, sono le parole di Laura alla fine, prima di scomparire nella notte in cui perfino la luna sembra emettere una pallida luce morta e la casa del desiderio appare come un ‘rudere nero’.
     È un libro di grande fascino, per quello che dice e per quello che non dice, per la lievità della prosa così vicino alla poesia, per l’atmosfera nordica delle lunghe notti estive, per il silenzio dei boschi e il fruscio dei remi sull’acqua- parole d’amore consegnate alle piccole onde del lago.
Da leggere.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it



venerdì 22 novembre 2019

Keigo Higashino, “Newcomer” ed. 2018


                                                   Voci da mondi diversi. Giappone
cento sfumature di giallo
   in altre lingue

Keigo Higashino, “Newcomer”
Ed. Little Brown, pagg. 352, Euro 5,49 formato kindle

      Si riconosce fin dalle prime righe, un ‘mystery’ di Keigo Higashino. È un romanzo con delitto giapponese. Cioè, non è un thriller, non crea un’atmosfera di suspense ricca di paura, non comunica nessun brivido. È un romanzo sottile e raffinato che procede a passo lento, cercando di far combaciare, una dopo l’altra, le tessere di un puzzle. È come prendere in mano ogni minuscola tessera rigirandola tra le dita, chiedendosi da che parte si debba guardare e dove mai debba essere inserita. Così, episodio, dopo episodio, il romanzo “Newcomer” che lascia un poco sconcertati, all’inizio, perché sembra che non ci sia nesso tra un capitolo e l’altro. Finché non ci accorgiamo che un disegno a penna fina si è delineato sotto i nostri occhi. E lo ammiriamo.

     Il protagonista è l’ispettore Kaga, trasferito nel distretto di Nihonbashi di Tokyo- è sprecato per questo posto, dice qualcuno. E il titolo, “Newcomer”, il nuovo arrivato, si riferisce a lui, tanto per incominciare. Oltre che ad altri, come scopriremo. Alla vittima, per esempio, la quarantacinquenne Mineko Mitsui che si era trasferita da poco in un appartamento di Nihonbashi. L’aveva trovata un’amica, morta strangolata. Se l’amica non avesse spostato di mezz’ora l’appuntamento che aveva con lei, forse Mineko Mitsui non sarebbe stata uccisa. A poco a poco impariamo ad apprezzare lo stile di scrittura di Keigo Higashino e il metodo di indagine di Kaga- sono tutt’uno. Kaga entra in tutti i negozietti del quartiere e scopre un piccolo mistero da risolvere in ognuno- che cosa hanno a che fare con la donna che è morta? L’orologiaio, il venditore di cracker di riso, il negozietto di giocattoli, il caffè con la cameriera incinta- è un giro affascinante che facciamo con Kaga, dimenticandoci anche quale sia lo scopo di questi incontri, sorridendo di simpatia nei confronti di Kaga, il nuovo venuto che porta sempre un sacchettino di delizie da offrire alla persona che deve ‘interrogare’, sempre con garbo e umanità e quella curiosità che è empatia.
    Quando arriviamo alla soluzione (inaspettata), il quadro è completo. E ci piace.
Un giallo elegante. Un classico giallo ‘inglese’, verrebbe da dire.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook



martedì 19 novembre 2019

Zoya Pirzad, “Spengo io le luci” ed. 2019


                                                            Voci da mondi diversi. Iran
      storia di famiglia

Zoya Pirzad, “Spengo io le luci”
Ed. Brioschi, trad. A. Vanzan, pagg. 364, Euro 20,00

    Abadan, cittadina sul confine tra Iran e Iraq, sede di un’importantissima raffineria di petrolio che fu distrutta nei primi anni ‘80 durante la guerra con l’Iraq e poi ricostruita. Fa sempre caldo, ad Abadan, grazie alla sua posizione sul golfo Persico, contrariamente al resto dell’Iran. Il tempo della storia del romanzo di Zoya Pirzad non è definito se non da accenni che ci fanno capire che è prima della rivoluzione, che ci sono fermenti sociali e insoddisfazione per le disuguaglianze del regime dello Scià (mai menzionato). Le donne non hanno il capo coperto, non portano l’abaya, indossano abiti corti e senza maniche- oggigiorno è un sogno del passato. Senza tempo sono pure le vicende della famiglia, raccontate in prima persona da Claris- una donna giovane che racconta una vita quotidiana fatta di cure ai figli e al marito, di colazioni e merende, di cene per ospiti che si autoinvitano, di nuovi vicini di casa. Potrebbe essere una trama come tante, ma non lo è. Ci irretisce subito e, mentre Claris termina la fiaba serale alle figlie gemelle con il refrain, e dal cielo caddero tre mele: una per chi ha visto, una per chi ha raccontato, una per chi ha ascoltato, ricordiamo di aver letto le stesse parole nel bel libro della scrittrice armena Narine Abgarjan- Claris e Artush (ingegnere impiegato nella raffineria petrolifera) sono armeni, lo sono tutti i loro amici, ce lo rivelano i cognomi terminanti in ian, le usanze e i cibi (come il pane lavash), una piccola comunità che parla armeno ed è legata con un filo sottile alla madrepatria.
chiesa armena di Abadan
    Claris e Artush sono sposati da diciassette anni, hanno tre figli, un maschio adolescente e le bambine gemelle. La madre e la sorella di Claris fanno parte della famiglia, sono sempre presenti. Si scherza sulla golosità di Alis, sorella di Claris, sul suo gettare un occhio su ogni uomo libero da poter sposare. Sembra quasi di leggere Jane Austen in versione armeno-iraniana. Il nuovo vicino di casa non si chiama Darcy ma Emile Simonian. È vedovo, ha una madre autoritaria e altera, una figlia che diventa amica delle gemelle e che si rivela cattiva- proprio cattiva, spingendo amici ed amiche a compiere azioni riprovevoli. Ma Emile è affascinante, è sensibile e garbato, pieno di attenzioni, il contrario di Artush. È lo stereotipo del possibile amante vs marito? Poco importa. Claris non è la prima moglie un poco frustrata ( e non sarà l’ultima) a sentirsi attratta da un altro.
      La penna di Zoya Pirzad scorre leggera, il tono è vivace, la voce di Claris è autoironica, amiamo sentirla parlare di sé sdoppiandosi e facendosi da sola censura e autocritica, attenta alle necessità della famiglia, preoccupata dall’amore adolescenziale del figlio, dubbiosa e poi contenta per la sorella quando un improbabile pretendente olandese compare sulla scena, gelosa irrazionalmente (e lo riconosce) della bella bionda divorziata che è arrivata da Teheran.
moschea di Abadan
L’apice e il punto di svolta del romanzo è un avvenimento insolito che acquista un significato metaforico: un’invasione di cavallette che lasciano gli alberi spogli e coprono il terreno di un tappeto scuro di piccoli cadaveri. E Claris non osa dire a nessuno che non si è spaventata perché non era sola in casa. MA. Mors tua vita mea. Qualcosa finisce, qualcosa incomincia. La paura e lo sfacelo causati dalle cavallette sono la ricchezza dei poveracci che vengono a raccoglierle con grossi sacchi: le venderanno, le cavallette arrosto sono un cibo prelibato. E la fine del romanzo sarà fonte di lacrime e di sospiri di sollievo.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook


    

domenica 17 novembre 2019

Amitav Ghosh, “L’isola dei fucili” ed. 2019


                                                       Voci da mondi diversi. India
       warning novel

Amitav Ghosh, “L’isola dei fucili”
Ed. Neri Pozza, trad. Anna Nadotti e Norman Gabetti, pagg. 315, Euro 18,00

      L’eterno significato dei miti. Siano essi i nostri, quelli che conosciamo bene- Icaro che si brucia le ali avvicinandosi troppo al sole, la maga Circe, Scilla e Cariddi e tutti gli altri-, sia quelli a noi niente affatto noti. Come il mito bengali di Manasa Devi, la dea dei serpenti e di altri animali velenosi che è il perno attorno a cui ruota il nuovo romanzo di Amitav Ghosh.
     “L’isola dei fucili” inizia con due parole, quella più banale di ‘viaggio’ (prepariamoci a partire con il protagonista, l’antiquario di libri Deen Datta, in un viaggio ricco di avventure e di significati che ci porterà da Brooklyn a Calcutta, a Los Angeles e a Venezia) e quella intrigante, bundook, che significa ‘fucile’ in bengali. Ma il nome comune bundook si trasforma nel nome proprio Bonduki Sadagar che si può tradurre come ‘mercante di fucili’.
     Una storia avventurosa, quella di Bonduki Sadagar, di cui ci sono alcune versioni concordanti sulla figura dell’eroe che fugge al di là del mare per scappare da Manasa Devi, infuriata perché Bonduki Sadagar si era rifiutato di diventare suo devoto.
Dopo mille traversie, dopo essere sopravvissuto a mille calamità compreso il morso di una creatura velenosa e l’essere stato catturato dai pirati, Bonduki Sadagar promette di far costruire un tempio per Manasa Devi se lei lo aiuterà a liberarsi. E’ da questo tempietto, nascosto in una foresta di mangrovie nelle Sundarban, che prende l’avvio la storia, altrettanto avventurosa, colma di pericoli, di minacce e di segreti da decifrare, di Deen Datta, l’antiquario che ce la racconta in prima persona.
   C’è un dettaglio, all’inizio di questo racconto, che ci dà un indizio della direzione che prenderà il romanzo di Ghosh. Il tempio del mercante di fucili è ancora lì, nella foresta di mangrovie, ma per quanto tempo ancora? Perché le isole delle Sundarban sono erose costantemente dal mare, stanno scomparendo a poco a poco e, se il livello del mare si continua ad alzare, scompariranno del tutto. E che ne sarà, che ne è della gente che le abita? Stanno già migrando, dovranno migrare in massa. Deen Datta incontrerà a Venezia il ragazzo che aveva conosciuto nella sua visita al tempio, e Rafi è solo uno dei tanti lavoratori bangla sottopagati che fanno funzionare il turismo della città sull’acqua. Destinata a scomparire come le Sundarban se le teredini che stanno invadendo Venezia a causa del surriscaldamento delle acque della laguna continueranno la loro opera di distruzione mangiando dall’interno il legno delle palafitte su cui sorge la città.
foresta di mangrovie nelle Sundarban
      È impossibile cercare di riassumere “L’isola dei fucili”. Le avventure del leggendario mercante si sdoppiano in quelle dell’antiquario, le parole bengali- chiavi di interpretazione della leggenda- si trasformano acquistando un altro significato e segnando una traccia da percorrere per i personaggi, serpenti e ragni velenosi si affacciano dal passato nel presente, gli schiavi acquistati un tempo con le cipree sono sostituiti dai nuovi schiavi che arrivano con i barconi della disperazione e, siccome la seconda metà del libro si svolge principalmente in Italia, non mancano i riferimenti espliciti al razzismo di un nostro noto politico. 
    E soprattutto c’è, nel romanzo, l’allarme per i cambiamenti climatici le cui conseguenze si propagano come onde suscitate dal lancio di una pietra in uno stagno. Riscaldamento globale, tifoni, inquinamento, delfini spiaggiati, moria di pesci, speci di animali che appaiono laddove prima non c’erano cambiando del tutto l’habitat e- proprio come avviene per gli animali- masse di gente che trasmigrano per i centomila motivi che rendono impossibile continuare a vivere nelle terre dove hanno sempre vissuto. Con questi dati di fatto, quale futuro ci aspetta?

    Amitav Ghosh non è nuovo al tema che affronta ne “L’isola dei fucili”. Ne “La grande cecità” si era già posto il problema del silenzio culturale davanti al problema delle conseguenze del cambiamento climatico. Ora Ghosh spezza il silenzio, passa dal libro-saggio al romanzo, perché l’appello del romanzo, attraverso la voce dei suoi personaggi, ha una maggiore risonanza, riesce a coinvolgere più persone. E la prima metà del suo libro è travolgente, ci seduce con il fascino della leggenda esotica del Bonduki Sadagar. Più didattica e giornalistica, con tratti surreali, la seconda parte. Un libro profetico, dopo aver visto le immagini di Venezia in questi giorni.  

lo scrittore è presente oggi a BookCity
Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook

copy Gage Skidmore




giovedì 14 novembre 2019

Andrée Michaud, “L’ultima estate” ed. 2019


                                                        Voci da mondi diversi. Canada
 cento sfumature di giallo


Andrée Michaud, “L’ultima estate”
Ed. Marsilio, trad. F. Bruno, pagg. 350, Euro 18,00

      Bondrée. O Boundary. Doppio nome per questa località al confine tra il Québec e gli Stati Uniti. C’è un lago, c’è una montagna, c’è un folto bosco, a Bondréè. Luogo perfetto per le vacanze estive di americani e canadesi. C’è anche una sorta di leggenda che è una storia dell’orrore e riguarda un cacciatore, innamorato non corrisposto di una bella donna e morto suicida. Si dice che il suo spirito o il suo fantasma calpesti ancora i sentieri della foresta.
    È l’estate del 1967. Il campeggio è pieno di famiglie che si conoscono da una vita, habitué del posto. I ragazzi hanno sempre giocato insieme, ora che sono cresciuti nascono i primi flirt. Le bambine guardano con un filo di invidia le ragazze che sembrano essere diventate donne un anno per l’altro, sanno che succederà anche a loro, sperano di diventare belle e seducenti come Elizabeth dai capelli rossi (la chiamano Zaza) o come la sua amica Sissy che sembra la sua sorella gemella con i capelli biondi. Poi Zaza viene trovata morta nella foresta, una gamba straziata da una tagliola per orsi- quelle maledette tagliole che metteva il cacciatore! L’estate non è già più così splendente. Come si fa ad accettare la morte di una ragazza di diciassette anni? Si organizzano spedizioni di gruppi di uomini per setacciare il bosco ed eliminare le possibili tagliole rimaste. Poi Sissy scompare e, quando viene ritrovata, non c’è dubbio che non si sia trattato di un incidente. C’è un assassino in giro, forse è uno di loro, delle famiglie del campeggio. Forse può colpire ancora. L’ispettore Stan Michaud e il suo vice Cusack incominciano a interrogare tutti, con l’aiuto di un interprete (perché c’è chi parla solo francese in questa zona di confine).

     La scrittura di Andrée Michaud è molto evocativa, ci trasporta a Bondrée, ce ne fa ammirare la bellezza, ci fa sentire l’atmosfera di quiete e di vacanza, ci comunica la sensazione di libertà- finalmente- dagli impegni della vita lavorativa, l’ebbrezza di non dover temere i pericoli della città, per poi accentuare, invece, la fine di tutto questo, la ‘caduta’ dal paradiso terrestre, la fine della fiducia nell’altro, il sospetto, l’ansia che attanaglia i genitori, la necessità di sorvegliare le ragazzine. Perché è chiaro che l’assassino è qualcuno di malato, ossessionato da un certo tipo di figura femminile.
     In realtà il lettore sa chi è l’assassino. Per essere più precisi: non ne conosce l’identità ma sa chi è (anche se sembra un controsenso) e sa perché uccide compulsivamente. L’originalità del thriller di Andrée Michaud è nel renderci partecipi dei sentimenti che serpeggiano nella piccola comunità che convive occasionalmente e  di quelli dell’ispettore Michaud e del suo vice- il primo ossessionato dal ricordo di un’altra ragazza uccisa anni prima e il secondo che corre il rischio di essere lasciato dalla moglie che lo accusa di preferire delle ragazze morte a lei che è viva.
E poi- lungo tutto il romanzo- c’è il filone di un altro punto di vista, di come tutta questa sinistra vicenda sia vissuta da una bambina di dodici anni che adesso si comporta come un maschiaccio ma che rivolge la sua ammirazione a Zaza e a Sissy e che, proprio mentre sta per sbocciare in una giovane donna, viene traumatizzata da questa esperienza (è singolare come la scrittrice entri di soppiatto nel romanzo dando il suo cognome, Michaud, all’ispettore e il suo nome, Andrée, alla bambina).
     Il finale ci sorprende, nonostante ‘conoscessimo’ l’assassino. E ci delude un poco. Forse troppe parole sono state dette e tuttavia ci sembra manchino poi quelle che darebbero un significato più profondo all’intera vicenda.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook



    

lunedì 11 novembre 2019

INTERVISTA A BENEDICT WELLS, autore de "L'ultima estate" 2019


                                       Voci da mondi diversi. Area germanica
                                            
copy R. Eberhard
Avevo incontrato Benedict Wells quando era venuto in Italia per la pubblicazione de “La fine della solitudine”. Questa volta, però, non sono riuscita ad incontrarlo e, tuttavia, desideravo fargli delle domande sul suo romanzo giovanile (si fa per dire, Benedict Wells è tuttora giovanissimo). Ed ecco l’intervista per posta elettronica.

Questo è un romanzo molto differente da “La fine della solitudine” ma, in qualche maniera e in modo diverso, Lei anticipa alcuni dei temi di quel libro, come se la assillassero. Segue i suoi personaggi nella loro evoluzione verso la maturità e “L’ultima estate” è un doppio romanzo di formazione: come mai Robert Beck, 37 anni, non ha ancora trovato la sua strada nella vita? Ha tutto a che fare con i suoi genitori? Non è questo un modo per non accettare la sua responsabilità? Ed è questo che Rauli gli insegna, capovolgendo l’ordine naturale e diventando l’insegnante del suo insegnante? Tante domande in una, lo so…
     
   È difficile dire perché qualcuno non trovi la sua strada nella vita. Penso che sì, decisamente Robert Beck sia stato ferito quando era un bambino e, perfino peggio, non poteva parlarne con nessuno e per questo ha sviluppato un atteggiamento cinico e un carattere chiuso. E poi cercava le cose che voleva, ma forse non erano le cose di cui aveva bisogno. Ecco perché è incapace di prendere delle decisioni e si sente perso quando all’improvviso incontra Rauli. Quindi sì, per un certo periodo sembra che Rauli diventi una sorta di insegnante per lui, ma non dura molto perché anche Rauli ha i suoi segreti e i suoi demoni. Anche se nella giovinezza c’è pura semplicità e forza, dopo ce ne dimentichiamo quando tendiamo a pensare troppo su tutto.


A proposito, è strano che entrambi i suoi titolo inizino con una parola che significa che qualcosa è finito- mi chiedo che cosa significhi…
    È una coincidenza, gli altri miei libri hanno titoli molto diversi. Ma è per domande così che spesso imparo qualcosa sul mio lavoro. Quando ho scritto “L’ultima estate”, ero molto giovane, avevo 21 anni. Non avevo idea di quali fossero le mie tematiche, scrivevo dall’interno. Mi sono reso conto dopo- anche grazie alla domanda di un giornalista- che sembra che ‘la solitudine’ sia il mio argomento: lo si trova in ogni libro e naturalmente anche ne “L’ultima estate”.
Il rapporto fra Robert e Rauli è molto interessante: Rauli è una sorta di doppio di Robert?
   Direi di no. Piuttosto mi ha sempre fatto pensare al giovane Bob Dylan, un giovane genio vulnerabile che racconta storie di continuo, alcune vere e alcune no. Rauli non è affatto cinico come Beck, è puro ed aperto, sa come esprimere i suoi sentimenti. Ecco perché rappresenta una sfida per Beck che all’inizio è molto riservato.

E Rauli è una prova di quello che sosteneva nel suo altro romanzo- che il vero talento è la forza di volontà, come diceva Jules ne “La fine della solitudine”?
      
   Ho scritto di Rauli molti anni prima di scrivere “La fine della solitudine”, ma sono d’accordo. Sì, alla fine tutto il talento va sprecato perché semplicemente Rauli non lo vuole abbastanza.

Devo confessare che non mi è piaciuto il personaggio di Lara. O ,forse, è la controparte giusta per il personaggio di Robert: il loro rapporto è un incontro di due solitudini?

   Posso capire benissimo il suo punto di vista. Mi piacciono molto i personaggi femminili forti come in “La fine della solitudine”. Ma, ad essere onesti, “L’ultima estate” è soprattutto un romanzo su tre uomini molto diversi che si ritrovano a fare un viaggio delirante alla volta di Istanbul, perciò Lara non ha abbastanza tempo sul palcoscenico per avere un impatto più profondo. Ma è molto importante per Beck. Alla fine lui non le può dare quello che lei vuole, ma lei spezza la sua superficie ghiacciata. Volevo anche qualcuno che apportasse delle conseguenze nella sua vita. Lei è indipendente per conto suo e non ha intenzione di aspettarlo per sempre. Volevo una storia d’amore realistica e non di stampo cinematografico.

Il romanzo è pieno di musica- è naturale visto che nel nostro incontro precedente mi ha detto che ama molto la musica. Vorrei che mi dicesse di più sulla scelta di appuntare la nostra attenzione su Bob Dylan. Robert lo odia perché suo padre lo amava, e tuttavia è Dylan che gli appare nella sua allucinazione.
     
    Personalmente sono un grande fan di Bob Dylan, ma non avevo pianificato fin dall’inizio che avesse un ruolo così importante. Si è insinuato da solo nel romanzo. È iniziato con Beck che lo odiava perché suo padre lo amava tanto. Poi- come ho detto prima- Rauli era per me un poco come il giovane Dylan. E ascoltavo molto la sua musica mentre scrivevo il romanzo e per questo ho intitolato ogni capitolo come una canzone di Dylan. E mi piaceva l’idea che, fra tutte le persone possibili, fosse proprio Dylan che dice a Beck che cosa debba fare. C’è molta saggezza nelle canzoni di Dylan, e allora ho pensato: questo tizio mostrerà il cammino al mio protagonista.


Perché ha scelto la fine degli anni ‘90 come tempo in cui ambientare il romanzo?
   Semplicemente volevo catturare quel tempo. E non mi piace molto scrivere del futuro. Ho finito il romanzo nel 2007 e la storia inizia negli anni ‘90 ma finisce nel 2008. Sarebbe stato strano scrivere qualcosa che si svolge, diciamo a dieci anni di distanza nel futuro, perché non sai mai che cosa succederà e non puoi controllarla in quanto narratore. Il passato è tuo, il futuro è aperto.
Lei stesso entra nel romanzo come ex studente di Robert e mi ha fatto pensare ai romanzi del ‘700 quando lo scrittore faceva sentire spesso la sua voce nel libro che stava scrivendo. Qual è il suo ruolo nel romanzo?
     Volevo decostruire un poco il romanzo classico. La mia parte, poi, è anche una sfida. Beck è piuttosto un personaggio, a volte cinico e duro, e io volevo mettermi nel romanzo per fargli delle domande e vedere dietro la sua maschera. Era anche un modo per raccontare una storia in una maniera che speravo fosse interessante e insolita, specialmente la fine. O almeno, questo è quello che pensavo quando avevo 21 anni.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook
recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it



sabato 9 novembre 2019

Benedict Wells, “L’ultima estate” ed. 2019


                                          Voci da mondi diversi. Area germanica
    romanzo di formazione

Benedict Wells, “L’ultima estate”
Ed. Salani, trad. Margherita Belardetti, pagg. 408

     Indice del romanzo “L’ultima estate” dello scrittore tedesco Benedict Wells: non una divisione in capitoli ma una tracklist con un lato A e un lato B, come in un CD musicale. Ed è la musica, che ha tanto risalto ne “La fine della solitudine” che già abbiamo letto, il leit motiv del libro, con due versi di una canzone che ricorrono, che si impongono come significato dell’intera vicenda. There is no business like show-business, there was no delusion like self-delusion. Il mondo dello spettacolo che ti divora, l’auto-illusione che fa perdere il contatto con la realtà.
     1999. Robert Beck, trentasette anni, insegna tedesco e musica in un liceo di Monaco. È un insegnante per ripiego, come tanti. Sognava di diventare un astro della musica- there was no delusion like self-delusion. Era stato estromesso dalla band. A lui piace pensare che il motivo fosse un litigio, ma era stato veramente per quello? E comunque era stato il padre a spingerlo all’insegnamento, un padre severo e incapace di mostrare affetto che era stato lasciato dalla moglie, la madre di Robert. Poi succede qualcosa, a scuola. Per caso Robert sente un alunno suonare e capisce subito che è straordinariamente dotato. Il diciassettenne Rauli Kantas è immigrato dalla Lituania, il suo tedesco è pessimo, i suoi risultati scolastici lo sono altrettanto. Ma, quando suona la chitarra, Rauli si trasforma. È un genio. E Robert Beck decide che impiegherà i soldi dell’eredità di suo padre per aiutare Rauli a sfondare come musicista.

     In un certo senso anche “L’ultima estate”, come “La fine della solitudine”, è un romanzo di formazione. Di una duplice formazione, di Rauli e di Robert, nonostante l’età di quest’ultimo. E’ come se Rauli fosse il doppio di Robert, fosse il Robert che sarebbe potuto essere- se avesse avuto il suo estro. E Robert crede di essere lui ad insegnare qualcosa a Rauli, di diventare un sostituto di un padre assente e violento. In realtà è il contrario. Rauli che sfida se stesso nel pattinaggio artistico, che continua ad esercitarsi in un triplice salto nonostante le continue cadute, insegna a Robert che non si deve mollare mai, che non si deve rinunciare a qualcosa pur essendo consci dei propri limiti.
     E poi c’è il viaggio, assolutamente necessario in un romanzo di formazione. Il legame del tipo padre e figlio che si è stabilito tra Robert e Rauli, macchiato dall’ambiguità di una certa qual gelosia da parte di Robert, sbilanciato dall’assenza di una donna perché Robert è incapace di prendere la decisione di lasciare Monaco e seguire a Roma la ragazza di cui è innamorato, si arricchisce però con la presenza di un terzo personaggio, lo stravagante amico di Robert, il nero Charlie che ha problemi di droga e si mette in testa di raggiungere la madre e il fratello a Istanbul. MA Charlie ha paura di volare. Il romanzo di formazione diventa un romanzo on the road, il nuovo romanzo on the road europeo della fine degli anni ‘90, attraverso Ungheria, Romania e Bulgaria. Ricco di incontri, di momenti adrenalinici, di altri di puro terrore, di fughe e di soste, con sparatorie e accoltellamenti. E musica.

     Non voglio dire come si conclude il viaggio, come si separino le strade dei tre protagonisti, che cosa abbia imparato ognuno di loro. Di certo, quando lo scrittore stesso, che interviene nel libro in prima persona, incontra Robert Beck, lo trova cambiato- è il 2007. E da lui apprende che ne sia stato di Rauli e di Charlie. Ho sempre considerato l’estate del ‘99 come una brutta estate….Ma nel frattempo ho capito che è stato il periodo più bello della mia vita- dice Robert. È come se una parte di me fosse rimasta per sempre in quell’estate. È allora che ho sentito davvero il gusto di vivere per l’ultima volta.
     In questo romanzo insolito Benedict Wells anticipa dei temi che sembrano assillarlo- la solitudine affettiva, la difficoltà di concedersi ad un legame d’amore, l’assenza dei genitori e che cosa ne consegue, la difficoltà di dare un indirizzo alla propria vita, la necessità del coraggio di scegliere. Un bel libro traboccante di note musicali.

Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook
seguirà a breve intervista con lo scrittore
recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it

copy Richard Eberhard