domenica 30 aprile 2017

Katie Kitamura, “Una separazione” ed. 2017

                                 Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
     cento sfumature di giallo
      FRESCO DI LETTURA

Katie Kitamura, “Una separazione”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. C. Prinetti, pagg. 189, Euro 14,03

     “Cominciò tutto con una telefonata di Isabella.” Una narratrice senza nome incomincia a raccontarci quella che è la storia di un matrimonio, di una separazione, di un viaggio, di una morte violenta. E vedremo come il viaggio, che si carica spesso di altri significati nei romanzi, anche nel libro di Katie Kitamura diventa qualcosa di più del viaggio dall’Inghilterra ad un’isola della Grecia e per più di un solo personaggio. Il primo a partire era stato Christopher, marito della narratrice, poi, dopo la telefonata della suocera Isabella, lo aveva seguito lei, la moglie (moglie separata ma sempre moglie), e infine Isabella e il marito avevano raggiunto la narratrice sull’isola. Ognuno di loro avrebbe fatto anche un viaggio di conoscenza all’interno di sé, per capire meglio i legami che li univano.
     La telefonata di Isabella contiene una domanda e una richiesta imperiosa- dov’è suo figlio Christopher? Da giorni non risponde al cellulare. Sua nuora deve trovarlo. Isabella non sa di sapere molto di più della nuora- il figlio le ha detto che sarebbero andati in Grecia- e però è all’oscuro del fatto che Christopher e la moglie si siano separati, che lei non abiti più nella loro casa, che abbia già trovato un nuovo compagno e che quindi non sia partita con lui. La protagonista non pensa sia il caso di mettere le cose in chiaro adesso, dopotutto Christopher le aveva chiesto di non dire nulla a nessuno riguardo al loro futuro divorzio. E, passivamente (ma lei è una donna passiva, non è un caso che faccia la traduttrice), parte per la Grecia alla ricerca del marito sulla traccia che le ha indicato la suocera.

     Christopher, scrittore e giornalista, è il personaggio assente-presente in tutto il romanzo. Lo impariamo a conoscere attraverso i ricordi, i pensieri, le parole della ex-moglie e della madre. Un uomo affascinante con il difetto di non aver mai saputo ‘tenere l’uccello nei pantaloni’: sono le parole amare e taglienti della madre di cui si stupisce perfino l’ex-moglie per quanto corrispondano alla verità. E infatti, non appena la moglie vede la ragazza della reception dell’albergo dove anche Christopher aveva preso una stanza, sospetta, anzi ha la certezza che sarà poi confermata, che lui abbia flirtato con lei, che abbiano avuto una breve avventura insieme. Comunque Christopher è scomparso, sono giorni che non si fa vedere in albergo. Lo ritroveranno morto in una località isolata e da questo momento la narrativa si tinge di giallo con un’inchiesta che ha qualcosa di kafkiano nella sua irresolutezza. Il colpevole non sarà mai trovato- lo sa la ex-moglie, lo sanno i genitori di Christopher, lo sappiamo  noi lettori anche se ci sembra di vedere più di un indizio.

     La separazione tenuta nascosta acquista una nuova dimensione e diventa definitiva nella morte e, tuttavia, c’è anche un cambiamento nell’io narrante, una variazione che avevamo leggermente intuito quando aveva fatto suo lo scopo del viaggio dell’ex marito in Grecia- scrivere un libro sul lutto-, era andata a parlare con una prefica e l’aveva sentita intonare il lamento con cui la donna faceva suo il dolore di altri. La morte che ha sancito la separazione tra di lei e Christopher li ha anche, paradossalmente, uniti per sempre. Per tutti lei è la vedova, la maschera che deve portare diventa il suo vero volto, il fatto che Isabella sia ora più affettuosa nei suoi confronti, che pensi sia più che giusto che erediti tutto, che veda in lei la persona che ha amato suo figlio tanto quanto lo ha amato lei che è la madre, la trasforma in quella che gli altri vedono e pensano. E’ come la prefica che carica su di sé il lutto di altri.

     E’ un romanzo intrigante e insolito, “La separazione” della scrittrice californiana Katie Kitamura, tra romanzo psicologico e romanzo poliziesco, che si affida ad una narratrice della cui obiettività non ci possiamo fidare.


sabato 29 aprile 2017

Sarah Waters, “Turno di notte” ed. 2006

                                       Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
       seconda guerra mondiale
       il libro dimenticato

Sarah Waters, “Turno di notte”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. G. Dell’Acqua, pagg. 416, Euro 11,05

       Londra. 1947. 1944. 1941. Una città e tre date. Si srotola all’indietro la storia dei personaggi del romanzo “Turno di notte” di Sarah Waters. Li incontriamo tutti, uno dopo l’altro, da soli o in coppia, due anni dopo la fine della guerra- Kay, che ostenta il taglio di capelli cortissimi e i pantaloni, incurante di sembrare un uomo; Helen, che soffre nel non poter vivere apertamente la sua relazione con Julia ed è tremendamente gelosa delle altre donne che Julia conosce; Viv, che porta avanti una stanca storia d’amore con un uomo sposato; Duncan, il fratello di Viv, che vive con un uomo più anziano che chiama ‘zio’ e incontra per caso un ragazzo che era con lui in prigione.
    Non è mai facile, iniziare a leggere una storia dalla fine. Però è stuzzicante. Dobbiamo cercare di capire quello che ancora non sappiamo, fare supposizioni che forse saranno smentite. Perché Kay si aggira da sola per la città? Che legame c’è- o c’era- tra Kay, Helen e Julia? E Viv, perché sobbalza nell’intravvedere Kay tra la folla, fa in modo di incontrarla di nuovo e le fa scivolare un anello in mano? Perché Duncan è stato in prigione? Dell’altro ragazzo viene detto che era un obiettore di coscienza, ma Duncan? E perché si autopunisce?

    Troveremo risposte parziali alle domande nella parte ‘1944’- l’apice della narrazione- e sapremo finalmente tutto, gli antefatti di tutto, nella parte ‘1941’.
Come nei romanzi di Sarah Waters che abbiamo già letto, ci rendiamo subito conto che la scrittrice dedica una particolare attenzione alle coppie ‘gay’, all’amore lesbico soprattutto. In “Turno di notte” c’è, tuttavia, un’ambientazione speciale- la guerra, che, in qualche maniera, riesce a rendere più importante questo legame tra donne e, nello stesso tempo, a farci sembrare irrilevante qualunque critica o scherno. Quando la vita potrebbe esserci tolta un momento per l’altro, che importanza ha se l’oggetto del nostro amore è del nostro stesso sesso? In un mondo che va in fiamme, l’amore, qualunque esso sia, è la cosa più preziosa da salvare dalle rovine. Non è un caso che Kay sia un’ausiliaria del turno di notte. ‘Turno di notte’- verrebbe di pensare a tutt’altro, leggendo queste parole staccate da ogni contesto. E, invece, il volontariato di Kay richiede coraggio, sangue freddo, forza fisica. Kay fa il turno di notte a guidare l’ambulanza che si reca immediatamente sul posto dove sono cadute le bombe, dove palazzi sono stati ridotti in macerie, dove si è fortunati se si riesce a salvare qualcuno, dove spesso si trovano corpi smembrati, madri istupidite dallo shock cercano i figli, bambini vagano tra rovine pericolanti cercando la mamma.


    Sarah Waters ha scelto con cura le storie che ci racconta dei suoi personaggi, le sue protagoniste ricalcano gli stessi sentimenti delle coppie etero- l’innamoramento, i giorni gloriosi della scoperta dell’altra, i regali e la gioia degli incontri, e poi la gelosia e la possessività (in anni diversi, la gelosia di Kay nei confronti di Helen è uguale a quella di Helen per Julia), il disamore. Sono rapporti che non ci disturbano affatto, ci turba di più la meschinità e il senso di sordido che ci trasmette l’anziano secondino della prigione, ci rattrista di più la gioventù sprecata di Viv che, forse, solo alla fine, riesce a dare un taglio alla lunga relazione senza speranza con un uomo che si è preso tutti i vantaggi della situazione.


giovedì 27 aprile 2017

Mitsuyo Kakuta, “La ragazza dell’altra riva” ed. 2017


                                                  Voci da mondi diversi. Asia
             romanzo di formazione
             FRESCO DI LETTURA

Mitsuyo Kakuta, “La ragazza dell’altra riva”
Ed. Neri Pozza, trad. Gianluca Coci, pagg. 330, Euro 18,00

     Due giovani donne, Sayoko e Aoi. Non si conoscono. Quando si incontreranno, scopriranno di avere entrambe 35 annie di aver frequentato la stessa università- forse, allora, si saranno incrociate nei corridoi, o in mensa. Hanno avuto due vite diverse, sono molto diverse. Oppure no? le accomuna la solitudine interiore a cui una reagisce chiudendosi in se stessa e l’altra con una serie di iniziative brillanti solo in apparenza. Sayoko è sposata e ha una bimba di tre anni. Ha lasciato il lavoro subito dopo il matrimonio, pensa che per essere una brava mamma lei debba restare a casa e badare personalmente ad Akari. E tuttavia le pare che il mondo le si stia chiudendo intorno. Quando porta Akari a giocare al parco, Sayoko ha provato a intrattenersi con le altre mamme, non ci riesce ed Akari gioca sempre da sola- l’incapacità di relazionarsi della madre si riflette nella figlia. Forse la soluzione è di trovare un lavoro e iscrivere Akari all’asilo. Sayoko risponde ad un’inserzione: è così che conosce Aoi che dirige una piccola agenzia che un tempo si occupava di organizzare viaggi turistici all’estero. C’è meno gente che viaggia adesso e Aoi ha trasformato gli obiettivi dell’agenzia in un’offerta di servizi di sorveglianza delle case i cui proprietari si assentano per periodi più o meno lunghi. Almeno, questo è quello che Aoi dice a Sayoko.

    Sayoko si lascia conquistare da Aoi, dalla sua affabilità e disponibilità. Forse vede in lei quella che lei stessa sarebbe potuta diventare se non si fosse sposata, le piace l’impressione di amicizia che Aoi le dà, intravvede la possibilità di cambiare se stessa e la sua vita. E accetta il lavoro che è tutt’ altro da quello che si aspettava e a cui poteva ambire. Non dovrà semplicemente dare aria a un appartamento chiuso, dare una spolverata, innaffiare le piante. Farà la donna delle pulizie. E pulizie pesanti in case di una sporcizia incredibile e nauseabonda. Perché lo fa? vale la pena acquistare un poco di indipendenza a prezzo dei pianti di Akari, dei malumori del marito, delle critiche della suocera?
   Quanto ad Aoi, in apparenza così spensierata e ottimista, la storia del suo passato ci viene raccontata in un filone che scorre parallelo al presente in cui Sayoko impara a ritagliare del tempo per sé e sembra allontanarsi un poco dal marito.  Il passato di Aoi ci parla di isolamento, bullismo, un’amicizia troppo stretta con una compagna di scuola, di un avvenimento tragico.

    Sono parecchi i messaggi contenuti ne “La ragazza dell’altra riva”, romanzo che Mitsuyo Kakuta ha pubblicato in Giappone nel 2004, ben prima de “La cicala dell’ottavo giorno” che ha vinto il premio Chuo Koron. In un certo senso “La ragazza dell’altra riva” è un doppio romanzo di formazione che mette in guardia contro i pericoli dei soprusi scolastici e che esamina la condizione della donna, lacerata tra il desiderio di trovare una sua dimensione nel mondo del lavoro e il timore di non essere una buona madre se affida i propri figli in mani estranee. I sentimenti e i sensi di colpa sono gli stessi, e lo riconosciamo con leggero stupore, nel lontano Giappone e in Italia. Le obiezioni dei mariti sono le stesse e i comportamenti delle suocere pure. E’ interessante che Mitsuyo Kakuta abbia scelto un lavoro così poco gratificante e niente affatto intellettuale per la sua protagonista che si affaccia di nuovo al mondo. Il significato è fin troppo chiaro- non importa che cosa si faccia, basta farlo bene, basta uscire dalle quattro mura domestiche che tengono prigioniere. Ci convince di meno il personaggio di Aoi che resta sempre egocentrica e immatura.

Il romanzo di Mitsuyo Kakuta si legge facilmente, ma è lontano dalle sottigliezze, dalla tensione e dalla profondità de “La cicala dell’ottavo giorno”. 


Sotto l'etichetta Voci da mondi diversi. Asia si trovano la recensione de "La cicala dell'ottavo giorno" e l'intervista con Mitsuyo Kakuta nel novembre del 2014.

mercoledì 26 aprile 2017

Steven Millhauser, “Martin Dressler” ed. 2004

                                     Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                          il libro ritrovato


Steven Millhauser, “Martin Dressler”
 Ed. Fanucci, trad. Susanna Basso, pagg. 269, Euro 15,00

Quando il Grande Cosmo raggiunse la vetta del trentesimo piano, quando il suo scheletro d’acciaio cominciò a sparire sotto lo scudo di pietra bugnata, su giornali e riviste comparvero i primi annunci pubblicitari che mostravano l’edificio con il telo sollevato ad altezze diverse; e intorno alla struttura seminascosta si leggevano scritte del tipo IL GRANDE COSMO: CULTURA E COMMERCIO PER UNA VITA COMODA.

    E’ proprio del genio la capacità di sognare, di immaginare in grande, al di là dei confini umani. E ha qualcosa del genio il protagonista del romanzo di Steven Millhauser, “Martin Dressler”, vincitore del Premio Pulitzer 1997. Un nome per titolo, secondo la tradizione del grande romanzo inglese, a significare che questa è una storia vera- o possiamo credere che lo sia. Un sognatore, Martin Dressler, che impersona il meglio del sogno americano, quello del self-made man spinto non solo dal desiderio di ricchezza, ma da un’ambizione personale di dare il meglio di sé procurando il meglio per gli altri. Martin Dressler è figlio di un tabaccaio e- ancora ragazzino- incomincia col suggerire un miglioramento alla piccola rivendita di sigari nell’atrio dell’albergo Vanderlyn. Perché ha occhio, ha intuito per tutto quello che potrebbe riuscire gradito a dei possibili clienti. A quattordici anni viene assunto come fattorino dell’albergo, poi passa alla reception, diventa segretario del direttore e infine il grande salto: con l’aiuto di un cliente del Vanderlyn rileva dei locali e si lancia nell’impresa della ristorazione. Martin ha ventun’anni quando apre il primo di una catena di ristoranti: l’idea è quella di un ambiente confortevole, prezzi ragionevoli, buon cibo. Offrendo lo stesso modello di ristorante in varie zone della città, si dà l’idea di sicurezza, non ci sono incognite su quello che verrà servito al cliente. Questo è il principio su cui si baseranno i vari McDonald’s- ma l’anno in cui apre il ristorante di Martin è il 1894, in una New York che pulsa di vita, sembra un cantiere a cielo aperto, non ha ancora il famoso skyline di grattacieli ma ha inaugurato da poco il ponte di Brooklyn.
In dieci anni Martin sale sempre più in alto- letteralmente. Dopo i ristoranti, gli alberghi. Il Dressler, diciotto piani, il Nuovo Dressler, ventiquattro piani e sei sotto il livello della strada, il Grande Cosmo, trenta piani e tredici sotterranei. Ogni albergo qualcosa di più, qualcosa di grandioso e di visionario. Un albergo come un mondo a sé, che offra negozi e svaghi, e piacere per gli occhi nella ricerca del dettaglio. Che l’ospite trovi tutto quello di cui ha voglia e bisogno e che non senta più il desiderio di uscire. Ma il Grande Cosmo, inaugurato nel 1905, è anche il grande fiasco: perché è troppo, troppo di tutto, troppo eclettismo negli stili, troppo grandioso, troppo enorme, troppo stravagante, troppo poco albergo, troppo ambizioso nel voler essere una metropoli nella metropoli. Martin è grandioso anche nella caduta- cede tutto per mantenere in vita il sogno in cui ha creduto. Si ritroverà a terra, ricomincerà da capo, forse aprirà un negozio di sigari- doveva essere punito per aver volato troppo in alto? 
Millhauser è straordinario nell’erigere edifici fantastici con le parole, risolvendo problemi ingegneristici e architettonici, rendendo il tutto perfettamente credibile e facendo apparire più grande lo scompenso tra la mente e il cuore del suo personaggio, teso nell’inseguimento del suo progetto di vita e incapace di capire i suoi sentimenti.

la recensione è stata pubblicata su www.alice.it




martedì 25 aprile 2017

Catherine Banner, “La casa sull’isola” ed. 2017

                                Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
      Casa Nostra. Qui Italia
        saga
       FRESCO DI LETTURA


Catherine Banner, “La casa sull’isola”
Ed. TRE60, trad. Maria Laura Di Rocco, pagg. 432, Euro 14,28

     Ancora una volta mi trovo a scrivere- quanto più bello il titolo originale di questo libro di Catherine Banner! Invece di “La casa sull’isola”, The House at the Edge of Night, che fa pensare a scogliere su un mare nero con spruzzi bianchi di spuma come il cielo di notte trapunto di stelle.
Inizia in un tempo lontano- a fine ‘800- il romanzo di Catherine Banner, quando un bambino viene depositato sulla soglia del brefotrofio di Firenze. Quel bambino, Amedeo Esposito, si farà strada nella vita, studierà medicina, accetterà un incarico di medico condotto sull’isola di Castellamare, di fronte a Siracusa, e diventerà il capostipite della famiglia di cui seguiremo le vicende per quattro generazioni. C’è un che di piccante nel ‘vero’ inizio delle vicende- nella stessa notte in cui sua moglie mette al mondo il loro primo figlio, Amedeo viene chiamato al capezzale della moglie del conte che è signore dell’isola per aiutarla a partorire. Nascono due maschi, le voci girano, si dice che siano entrambi figli di Amedeo, che lui abbia amoreggiato con la contessa nelle grotte in riva al mare, quelle da cui ogni tanto esce rumore di pianti. Vero? falso? E comunque è stato un errore, Amedeo non riconoscerà mai quel bambino che non gli assomiglia per nulla.

     Potremmo essere diffidenti verso questo libro- è un’ennesima saga con spezie di folklore mediterraneo? Ebbene, sì, è una saga, è speziata di folklore e, come tutti i libri di questo genere, dà assuefazione, ci fa affezionare ai personaggi, ci fa parteggiare per l’uno o per l’altro, ci fa restare in ansia per quello che potrà accadere, ma Catherine Banner ha una penna felice, le pagine volano sotto i nostri occhi, i personaggi prendono vita, le loro storie ci divertono o ci rattristano, la grande Storia scorre sullo sfondo e i cambiamenti epocali arrivano- in ritardo, attutiti, ma arrivano anche a Castellamare.

    Amedeo non è l’unico ad essere stato consegnato dal mare all’isola. Molti anni dopo- è l’anno dello sbarco degli Alleati in Sicilia- un inglese ferito viene ‘spiaggiato’ e soccorso e curato. Troverà alloggio nella Casa ai Margini della Notte, si innamorerà della figlia di Amedeo…ma succederanno tante altre cose prima di un finale felice di questa storia. E tutte le altre cose sono ministorie che coinvolgono gli altri abitanti dell’isola oltre agli Esposito, e non c’è rischio di dimenticarsi di nessuno, di confondere nessuno, perché Catherine Banner sfrutta l’usanza della narrativa popolare di attribuire ad ognuno soprannomi in aggiunta al vero nome e il risultato è un quadro dalle tinte forti, pieno di vita. Ci sembra di conoscere, uno per uno, i personaggi, così come ci sembra di sentire il profumo delle bougainvillee o dell’aria che sa di sale. Amedeo, a cui era stato proibito di esercitare dopo lo scandalo dei due bambini nati nella stessa notte, vede lo storico bar che ha rilevato insieme alla Casa ai Margini della Notte prosperare e passare attraverso periodi di crisi, vede i figli partire per la guerra, insieme alla figlia introduce novità come la radio e più tardi la televisione, guarda con sospetto la nuova banca di cui tutti parlano e intanto sant’Agata sfila ogni anno portata in processione lungo tutta la costa dell’isola, facendo miracoli che sono tali solo per chi crede ciecamente in lei.


    Ha qualcosa di miracoloso, in effetti, la capacità di stregarci di Catherine Banner con le storie degli abitanti di Castellamare a cui si aggiungono- libro dentro il libro- le storie popolari tramandate a voce e raccolte da Amedeo in un quadernetto rosso, un’eredità da lasciare a figli e nipoti di valore pari alla Casa ai Margini della Notte, anche questa un personaggio vivo quanto gli altri, che conosce gli alti e i bassi della ruota della Storia.


sabato 22 aprile 2017

Intervista a Wulf Dorn, autore de “Gli eredi” ed. 2017

                                             Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                 cento sfumature di giallo
                                                  FRESCO DI LETTURA

Intervista a Wulf Dorn, autore de “Gli eredi”

Tempo di Libri a Milano nella prima edizione del ‘nuovo’ salone del libro milanese. Tempo di autori. Tempo di primavera (molto fredda, in realtà). Dopo sei anni incontro di nuovo Wulf Dorn, i suoi capelli sono più bianchi (anche i miei), però lui è sempre affabile e gentile, come lo ricordavo. Dice anche che si ricorda di me (impossibile) e che si ricorda che eravamo in un altro albergo a fare l’intervista (questo è, invece, un ricordo corretto). Parliamo ancora in inglese, anche se c’è l’interprete e lui potrebbe parlare in tedesco.

     Questo suo romanzo è diverso da quelli precedenti. Ha ancora a che fare con la mente e con il subconscio, ma appartiene ad un genere che chiamerei ‘warning genre’, genere di avvertimento. Ci obbliga a guardare avanti, al futuro dell’umanità. Che cosa l’ha spinto a scriverlo? Un avvenimento particolare o la somma di tanti avvenimenti?

    La seconda cosa. Giorno dopo giorno siamo sommersi da notizie- guerre, inquinamento, attentati-, mi sentivo sempre più confuso e ansioso riguardo al futuro. Mi sono chiesto dove stessimo andando, ci sono sempre più guerre e più movimenti radicali ovunque nel mondo, e mi sono reso conto di quello che stavamo facendo ai bambini. Sono stato un sostenitore dell’Unicef e mi continuavo a chiedere- dove ci porterà tutto questo? Come saremo tra 50 anni? Mi piace la parola che ha coniato per questo genere di libro, “warning novel”. Sì, questo è il mio avvertimento a tutti noi: se non cambiamo la nostra maniera di vivere e di pensare, le cose diventeranno sempre peggio. E poi sono diventato zio, ho tre nipotini, e mi spaventa vedere in che mondo sono nati e pensare a quale futuro avranno.

Questo romanzo contiene un messaggio forte: pensa che la letteratura possa influenzare i pensieri delle persone, pensa che gli intellettuali abbiano un ruolo di responsabilità nella nostra società?

    Scrivo libri per intrattenere i lettori. Però, quando si sceglie una problematica importante, sicuramente può avere un certo qual effetto sui lettori. Non direi che è il dovere degli intellettuali far pensare, ma dobbiamo essere consapevoli che quello che facciamo può servire da molla per i pensieri dei lettori. Mi farebbe piacere se il mio romanzo servisse a far pensare alla situazione mondiale. Non ho un messaggio concreto tranne che dovremmo tutti pensare a quello che sta succedendo. Ecco, questo è quello che voglio: innescare una certa maniera di pensare.

Nel nostro incontro precedente, anni fa, mi ha detto che non usa mai quanto le viene detto dalle persone che incontra nel suo lavoro e che però le serve per capire meglio gli altri. In questo romanzo, a parte gli avvenimenti che derivano da notizie dei giornali, si parla anche molto di una specie di capacità di introspezione speciale, di premonizione, che hanno le donne incinte. Pensa che le donne che aspettano un bambino abbiano una sensibilità speciale?

    Essendo un uomo non ho un’esperienza diretta, ma molte donne incinte mi hanno detto di sentirsi più consapevoli dell’ambiente, più inclini a riflettere che cosa si voglia per il futuro perché non si è più responsabili solo di se stesse ma di qualcun altro. C’è qualcosa, c’è una maggiore sensibilità, ci sono cambiamenti fisici ma anche della mente. Per questo la donna incinta nel mio romanzo era una metafora per il mondo.

Non possiamo dire troppo del romanzo per non rovinare il piacere della lettura. Lei ha usato il paradosso in questo romanzo. Le era necessario usare il paradosso per sottolineare l’orrore e il pericolo contenuti negli intermezzi?
    Il paradosso mi serviva per creare qualcosa che restasse nella mente del lettore. Il mio scopo era scrivere qualcosa che alla fine si fisserà nella mente dei lettori, li costringerà a pensare a quello che sta succedendo. E’ una storia strana mescolata alla realtà ed è importante che alla fine il lettore sia sorpreso, che non se lo aspettasse. Volevo accendere una miccia, volevo stuzzicare i pensieri dei lettori.

La facilità con cui ci si può procurare un’arma è allarmante. Ci sono poi i videogames in cui le armi sono usate, come se la guerra fosse un gioco. Pensa che i videogames siano pericolosi?
    E’ una lunga discussione, se i videogiochi siano pericolosi o no. Viviamo in un mondo con notizie quotidiane di violenze, di guerre, di bombe, di paesi che si minacciano a vicenda. Ora è il momento della Corea e nei giorni scorsi io pensavo all’atmosfera negli anni ‘80, alla paura di una guerra nucleare, al film “The day after” e a quanto mi avesse scosso.
Vivendo in questo mondo, i computer games sono una forma di catarsi per i giovani che sono confusi da queste notizie, gli servono per tenere sotto controllo la loro violenza. Tuttavia non sono innocui come appaiono, se ne hai bisogno per conciliare la vita quotidiana, allora diventano pericolosi. Per i bambini, poi, può essere causa di confusione, la linea di demarcazione fra la vita reale e quella virtuale è sempre più sottile. La vita virtuale è diventata parte della nostra vita reale ed è pericoloso per i bambini che non sanno distinguere e non si rendono conto che sparare ad una persona significa eliminarla. Bisognerebbe riuscire a provare ai bambini che ci sono altre soluzioni oltre alla guerra. Un mio amico ha una teoria. Lui è un appassionato di frisbee. Dovunque vada, lui ha con sé il suo frisbee e propone a chi incontra di giocare: la gente si diverte. Dice che se i politici si incontrassero e giocassero a frisbee, ne nascerebbe una conversazione interessante, il gioco li rilasserebbe. Proverebbero ad usare la loro intelligenza per la conversazione e non per la guerra.

E’ utopistico pensare che si possa fermare il commercio delle armi perché è un mercato troppo grosso?

    Sarebbe bello poter dire, ‘potete venderle ma noi non le compreremo’. Sì, ha ragione, è una utopia, però abbiamo bisogno della possibilità di far diventare reali queste cose senza pensare che sia impossibile. Dopotutto, pensiamo a Jules Verne e a quanto siano sembrate impossibili le invenzioni dei suoi romanzi- e invece adesso ci prepariamo ad andare su Marte!

recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.net


venerdì 21 aprile 2017

Wulf Dorn, “Gli eredi” ed. 2017

                                              Voci da mondi diversi. Area germanica
           cento sfumature di giallo
            FRESCO DI LETTURA

Wulf Dorn, “Gli eredi”
Ed. Corbaccio, trad. Alessandra Petrelli, pagg. 308, Euro 17,60

         Hanno sempre qualcosa di inquietante, i romanzi dello scrittore tedesco Wulf Dorn. Qualcosa che sembra uscire da un incubo nero. Qualcosa che è a metà strada tra sogno, realtà, para-realtà. Che ci fa paura perché siamo disarmati di fronte ad un Male che ci sfugge, che non riusciamo ad afferrare. I suoi libri sono stati etichettati come ‘psico-thriller’, eppure quest’ultimo appena pubblicato, “Gli eredi” (Die Kinder, “I bambini” in originale) è diverso, mi sembra appartenere ad un nuovo genere altrettanto inquietante che potremmo chiamare romanzi di avvertimento’ perché contengono un monito, perché ci mettono in guardia contro il futuro verso cui stiamo andando, tanto più colpevoli di quello che sta accadendo attorno a noi perché sappiamo ma non vogliamo sapere.
      Patrick Landers, medico pediatra, sta guidando su una strada di montagna. E’ nervoso e in ansia. La sua ex-moglie avrebbe dovuto dargli notizie e invece sono tre giorni che non si fa viva. Piove a dirotto. Ad una curva della strada vede un’auto ferma, con il cofano sfasciato. Un incidente. Si ferma. Si avvicina. Riconosce la donna al volante. E’ Laura, la sorella di sua moglie. E’ ferita. Patrick telefona per chiamare soccorso. Apre il bagagliaio dell’auto di Laura e rimane impietrito dall’orrore. Le uniche parole che Laura gli dice, prima di svenire, sono, “non andare lì”.

     Un criminologo e uno psicologo ascolteranno il racconto di Laura, sotto shock per quello che ha visto, per quello che è successo, per quello che non riesce a spiegare se non con l’intuito. E i due che ascoltano non sanno che pensare. E’ tutto troppo incredibile, non ha senso- è la psicosi di una donna incinta? Dopotutto Laura sostiene che è il bambino che aspetta (è incinta di sole dieci settimane) che l’ha spinta a fare o a non fare alcune cose. Ci sono 164 abitanti di un paese sul lago (quello della casa dove Laura, la sorella e la nipotina Mia erano andate per una breve vacanza) che sono scomparsi. Che fine hanno fatto? anche Patrick Landers è scomparso. Anche una poliziotta inviata sul posto è scomparsa. Quale è stato il ruolo di Laura? Il suo è stato un incidente d’auto o voleva suicidarsi? Ci può essere una spiegazione razionale che getterebbe la colpa sul malgoverno, oppure bisogna credere a quello che Laura sostiene? Sarebbe una spiegazione che coinvolge ombre nella notte e sguardi minacciosi di occhi di ghiaccio, che parla di infanzia a cui è stata tolta la speranza, che collega con un filo sottile la narrativa principale con una seconda narrativa fatta di frammenti, come di articoli di giornale, di avvenimenti che hanno luogo in paesi lontani- Cambogia, Ghana, Ucraina, Iraq- e che ci comunicano una sensazione di disagio che si trasforma in orrore dolente quando ci rendiamo conto di che cosa quei racconti vogliono dirci.
E il significato si fa ancora più chiaro nel caso dell’ultimo intermezzo, diverso dagli altri perché Lucy Walker, la bimba protagonista che riceve in regalo dal padre un fucile rosa, abita in Arizona e non in un paese del terzo mondo. Nella prefazione Wulf Dorn dice che la realtà è più agghiacciante di qualunque invenzione e che le storie degli intermezzi sono tutte vere.

    Incalzante come ogni buon ‘page-turner’, teso sul filo dell’orrore, avvolto nella nebbia del mistero (come la nebbia che aleggia sul lago accanto al villaggio), il romanzo di Wulf Dorn tende a sensibilizzare un vasto pubblico di lettori su quello che è non solo un problema ma un oltraggio all’innocenza.

la recensione e l'intervista saranno pubblicate su www.stradanove.net


giovedì 20 aprile 2017

INTERVISTA A WULF DORN, autore di "Il superstite" 2011

                                       voci da mondi diversi. Area germanica
                                    cento sfumature di giallo
           


INTERVISTA A WULF DORN

       Di media altezza, sottile, capelli rossicci, aria giovane: Wulf Dorn non assomiglia affatto a tanti dei turisti tedeschi un poco panciuti che si aggirano nelle città d’arte italiane. Ha una garbatezza e una cordialità fine che mettono immediatamente a proprio agio- mi domando se sono qualità connesse con il suo lavoro di psichiatra. Forse sì. Parla in un ottimo inglese e usiamo questa lingua nell’intervista- si scusa e passa al tedesco solo quando vuole essere sicuro di non venire frainteso, per rispondere alla mia ultima domanda.

Un medico che scrive un romanzo- è più che comune che non un ingegnere, o un economista, o un chimico che scrivano romanzi. Perché, secondo Lei? Oppure, con una domanda più personale, quando ha avuto inizio la Sua passione per la scrittura?
       Non so se sia più comune trovare un medico che scrive un romanzo, non ci ho mai pensato, ma ci possono essere delle spiegazioni: gli ingegneri, ad esempio, lavorano con cose più concrete, hanno a che fare con regole precise e fisse. Nella branchia della salute mentale si tratta di cose più astratte, meno tangibili, ed è possibile, così, che la fantasia venga stimolata.
Ho iniziato a scrivere molto presto- prima di iniziare la vita professionale, la scrittura era il mio hobby. A dodici anni scrivevo racconti dell’orrore, influenzato da Edgar Allan Poe e da Lovecraft. Ho nel cassetto ben cinque romanzi mai pubblicati- sono stati un esercizio per me. Erano romanzi dell’orrore. Il passo verso la scrittura professionista è stato quando ho incominciato a scrivere di quello che conoscevo, quello che era vicino all’animo umano- certo, il thriller è vicino al romanzo horror, ma è un tipo di orrore più realistico.

Il suo lavoro occupa molto spazio nei suoi romanzi: quanto ha influenzato la sua decisione di scrivere un certo tipo di romanzi?

     Ho sempre avuto un grande interesse per le persone. In quello che scrivo sono i personaggi e le loro vite ad avere un ruolo importante nelle storie raccontate. Mi domando costantemente perché un personaggio si comporti in una certa maniera e quali aspetti psichiatrici io possa impiegare. Il lavoro mi è di grande aiuto: imparo molto sulla psiche umana lavorando con i pazienti, anche se, per rispetto del segreto professionale, non scrivo mai nulla che abbia a che fare con dei casi reali. Certamente, però, i casi di cui scrivo potrebbero essere veri- faccio anche delle ricerche. E poi il mio lavoro mi ha aiutato a dare uno sfondo realistico ai romanzi- la clinica, il lavoro quotidiano nella clinica…

Mi ha appena detto che non scrive mai nulla dei casi veri che le si presentano. Ma penso che forse può unire caratteristiche di casi diversi che le si presentano, ispirarsi a pazienti diversi che ha incontrato…
     La prima cosa che faccio, quando inizio a scrivere un romanzo, è pensare al personaggio da mettere nella storia, come svilupparlo. Quando sviluppo l’idea del personaggio, è come un iceberg di cui si vede solo una punta: nelle mie idee, nei miei appunti, ci sono tante cose che servono da sfondo, da base nascosta, che mi serve per sapere come il personaggio si comporterebbe. A volte discuto con dei colleghi sui miei casi fittizi, se presentano aspetti disturbanti, oppure leggo e mi documento per sapere se quello che scrivo sia possibile.  Il più bel complimento l’ho ricevuto dal mio capo, professore di psichiatria da anni, che mi  ha detto di aver letto il mio romanzo e aver trovato che ‘funzionava’. Quando ha iniziato a parlare, dicendomi di aver letto il mio libro, mi sono venuti i brividi, per la paura del suo giudizio che avrebbe coinvolto entrambe le mie professioni.

Leggendo il suo romanzo viene in mente il detto che ‘non tutti i matti sono fuori dal manicomio’. E’ così, secondo la sua esperienza?
    Sì, certamente sì. Basta sedersi fuori da un caffè e osservare la gente. Ognuno ha un lato oscuro: vedi la gente che ride e sai che è solo una parte di loro, che tutti hanno un lato buio. La maggior parte delle persone sa come nasconderlo, ma non tutti ne sono capaci o ne hanno la forza. Non tutti riescono ad ergere un muro di difesa e allora il lato oscuro esce fuori. E’ il lato della personalità di cui vanno in cerca gli scrittori di thriller.


L’ipnosi entra nel suo romanzo, come pure nel romanzo “L’ipnotista” della coppia di scrittori svedesi che si firmano con lo pseudonimo di Lars Kepler. E’ una terapia diffusa comunemente? Si è dibattuto sulla sua legalità in Germania? Non sono certa che sia legale in Italia e di sicuro non è molto praticata da noi…
     Vorrei mettere in chiaro prime di tutto che l’ipnosi non ha niente a che fare con la possibilità di rompere la libera volontà delle persone, facendole agire come non agirebbero di per sé. E’ un clichè sull’ipnosi, quello di persone che fanno cose perché sono influenzate dall’ipnotista. Bisogna dimenticare quello che film e letteratura ti fanno credere sull’ipnosi.
L’ipnosi aiuta a scavare nelle regioni della psiche che sono nascoste, aiuta le persone che hanno avuto un trauma e hanno rimosso, che cercano uno scudo di difesa e bisogna cercare una chiave per entrare in questa loro parte nascosta. L’ipnosi è uno strumento utile per recuperare e rielaborare vecchi fatti di vita. In questo senso in Germania l’uso dell’ipnosi non è mai stato in discussione. Lo è stato il suo uso più spettacolare, quello che si vede alle feste o in televisione, quando ti fanno fare cose strane e poi non ricordi nulla. Ci sono stati casi di persone che, per un risveglio troppo brusco dallo stato di ipnosi, sono morte. Ma nel vero senso della medicina l’ipnosi è una buona terapia che funziona e dà risultati positivi. Io stesso ho sperimentato l’ipnosi con un collega: è stato stupefacente ricordare cose che avevo dimenticato, cose della mia primissima infanzia, rivedere dettagli, come l’intera stanza dei miei genitori, che erano scomparsi dalla mia memoria. E’ stata un’esperienza molto bella.

Nel mio romanzo si vede anche che l’ipnosi può essere una terapia pericolosa: è vero, combinata con delle medicine può essere molto pericolosa con orribili conseguenze, perché spegne la volontà dell’individuo. Ma normalmente non vengono usati medicinali nella terapia dell’ipnosi.

l'intervista e la recensione sono state pubblicate su www.wuz.it


mercoledì 19 aprile 2017

Wulf Dorn, “Il superstite” ed. 2011

                                              Voci da mondi diversi. Area germanica
           cento sfumature di giallo
            il libro ritorvato

Wulf Dorn, “Il superstite”
Ed. Corbaccio, trad. Alessandra Petrelli, pagg. 434, Euro 18,60
Titolo originale: Kalte Stille

    Jan aveva percorso soltanto pochi metri, quando si fermò di scatto. Dov’era Sven? Per un secondo aveva creduto di non averlo visto a causa della fitta nevicata, ma la panchina era vuota.
C’era solo il dittafono. Era già coperto da un sottile strato di neve, come tutta la panchina, tanto che si poteva credere che lì non fosse mai stato nessuno. Forse anche Sven era andato a fare pipì? Ma in quel caso di sicuro avrebbe seguito Jan.
  
       Fahlenberg, Germania, gennaio 1985. La diciottenne Alexandra fugge dalla clinica psichiatrica dove era ricoverata per forti disturbi mentali. E’ livida dal freddo, indossa una maglietta. L’espressione del viso mostra terrore. Jan Forstner, dodici anni, seduto sulla panchina vicino al lago la vede arrivare, vede che si inoltra sulla superficie di ghiaccio, sa che la lastra è sottile, cerca di fermarla, convincerla a tornare indietro carponi. Troppo tardi. Si apre una ragnatela nel ghiaccio, la ragazza cade nell’acqua gelida, Jan le lancia il guinzaglio del cane perché vi si afferri. Inutile. Alexandra muore.
Questo è solo il primo tragico avvenimento che dà inizio ad una catena che sembra essere senza fine, che si allunga fino a ventitre anni dopo, quando Jan ritorna a Fahlenberg, medico psichiatra come suo padre che nel 1985 lavorava alla Waldklinik e aveva in cura Alexandra. La famiglia Forstner era stata distrutta dalla morte della ragazza. Letteralmente. Perché subito dopo, in circostanze strane (e agghiaccianti, in senso letterale e non), era scomparso Sven, il fratellino di sei anni di Jan; suo padre aveva ricevuto una telefonata, si era precipitato fuori, aveva messo in moto l’auto. Nessuno sapeva dove stesse andando- di certo la telefonata aveva a che fare con la scomparsa di Sven. Guidava troppo veloce, era morto in un incidente. Non era finita qui…

    Nel 2008 il primario della clinica, che era stato amico di suo padre, offre a Jan un posto di lavoro, ad una condizione: che Jan si metta in terapia con il dottor Rauh, visto che è stato sospeso dalla professione per disturbi comportamentali. E’ perfettamente comprensibile che Jan abbia un’ossessione- quella di capire che cosa sia successo quella notte di gennaio del 1985-, e che sia tormentato dal senso di colpa: se lui non avesse avuto l’idea balzana di andare di notte nel parco per cercare di captare su registratore la voce della morta Alexandra, Sven non lo avrebbe seguito, nulla sarebbe successo.
Quello che accade a Jan nel presente induce a pensare che sia destinato ad essere sfiorato dall’ala della morte. Nell’atmosfera inquietante della clinica psichiatrica, dove ogni paziente soffre di disturbi mentali collegati a qualche tipo di trauma, si sussegue una serie di incidenti mortali, mentre in alcuni capitoli un personaggio senza nome cerca compulsivamente una compagnia femminile da cui richiede prestazioni piuttosto innocenti ma tese a far rivivere un determinato ricordo dai contorni sfumati per il lettore. C’è un crescendo di tensione a mano a mano che la ricerca di Jan, deciso a scavare nel passato, e non solo sotto l’influenza dell’ipnosi, procede coinvolgendo altre persone- il padre di Alexandra, l’archivista…Un pericolo oscuro si fa sempre più minaccioso, fino alla conclusione catartica.
     Wulf Dorn è, forse prima di tutto, uno psichiatra e gli si addice il genere che ha scelto, che potremmo definire del ‘thriller psichiatrico’. Perché l’originalità dei suoi romanzi (di questo e del precedente, “La psichiatra”) è nello svolgimento di un’indagine senza coinvolgere commissari di polizia. C’è sempre una doppia indagine nei romanzi di Dorn, quella alla ricerca di un colpevole e quella- più importante ancora- all’interno di menti malate alla ricerca delle motivazioni che spingono al delitto. E’ chiaro che le due indagini finiscono per intrecciarsi indissolubilmente, la seconda più interessante della prima, anche per le conoscenze specifiche dello scrittore. Che tuttavia abusa in maniera un poco eccessiva, ne “Il superstite”, di comportamenti limite di casi disturbati, quasi che tutti gli psicopatici o i ‘fuori di testa’ fossero calamitati verso la Waldklinik. E però Wulf Dorn sa trascinare il lettore, seminando indizi, fuorviandolo, capovolgendo i sospetti. Lasciandolo con il fermo proposito di non ricorrere mai all’aiuto di uno psichiatra.

la recensione e l'intervista sono state pubblicate su www.wuz.it


    


martedì 18 aprile 2017

Sara Blædel, “Le bambine dimenticate” ed. 2017

                                                                       vento del Nord
       cento sfumature di giallo
       FRESCO DI LETTURA

Sara Blædel, “Le bambine dimenticate”
Ed. Fazi, trad. A. Storti, pagg. 285, Euro 12,75


       Danimarca. Non Copenhagen con la sua Sirenetta e il parco di Tivoli. Una Danimarca di boschi e abitazioni isolate- è in uno di questi boschi che viene ritrovato il cadavere di una donna. Sembra che sia morta in maniera accidentale, in seguito ad una caduta. Ma tutto è strano, di questa donna. Ad iniziare da una vistosa cicatrice che le deturpa un lato intero del viso. E poi indossa un grezzo camicione e la pelle dei piedi rivela che non doveva essere abituata a calzare scarpe. Possibile che nessuno abbia denunciato la sua scomparsa? Era forse una vagabonda? Louise Rick, a capo del Servizio Investigato Speciale, è incaricata delle indagini. Accanto a lei Eik Nordstrøm. Ecco un’altra coppia di investigatori che- ormai lo sappiamo- devono diversificarsi dalle altre coppie che hanno fatto seguito a Sherlock Holmes e Watson e devono essere, possibilmente, di carattere molto differente fra di loro. E Louise ed Eik di certo lo sono. Louise è single e nasconde delusioni e forse anche qualcosa di più tragico nel suo passato (lo sapremo, anche se una parte della verità Louise verrà a conoscerla insieme a noi che leggiamo). E’ ruvida e diffidente verso gli uomini. Quando lo incontra per la prima volta all’apertura del caso, Eik sta smaltendo una sbronza- non è certo un inizio promettente. Anzi, tutt’altro. A Louise non piace affatto questo collega che è sempre vestito di nero (compera uno stock di magliette e jeans tutti uguali), fuma come una ciminiera e beve troppo. Eppure impara ad apprezzarlo, sia sul lavoro- ne ammira la puntigliosità e precisione- sia per il lato umano che rivela.

     L’identità della donna è rivelata da una vecchia infermiera che, trent’anni prima, lavorava nell’ospedale psichiatrico infantile di Eliselund. La donna si chiamava Lisemette. No, non è esatto. Lei si chiamava Lise e la sua gemella Mette- erano identiche e inseparabili. Ma allora, dove è adesso Mette? Sorge un altro problema: c’è un certificato di morte per le gemelle, firmato dal dottore dell’ospedale. Sarebbero morte all’età di diciassette anni. Misterioso e inquietante.
    Si infittisce il mistero e la narrativa del romanzo di Sara Blædel diventa sempre più inquietante- un filone segue i nuovi terribili episodi che si susseguono (si tratta sempre di violenze sulle donne), un altro ci conduce nell’ospedale psichiatrico (si apre un retroscena di maltrattamenti, di severità inaudita, di terapie mediche estreme), un altro ancora scava in un passato che tocca da vicino anche Louise Rick che è costretta a ricordare, a farsi domande.

    E’ un bel romanzo di genere, “Le bambine dimenticate”, con questo titolo che anticipa molto del dramma contenuto nel libro. I genitori dei bambini ricoverati nell’ospedale erano sollecitati a ‘dimenticare’ i figli, perché i bambini si agitavano di più dopo la visita dei padri e delle madri. A volte padri e madri erano ben contenti di chiudere quel capitolo della loro vita, ma non era questo il caso del padre di Lisemette che era stato costretto alla soluzione del ricovero per poter lavorare, visto che era rimasto vedovo e le bambine lo assorbivano interamente. E la storia contenuta nel libro ha molte altre sfaccettature di disturbi mentali con le conseguenze che si riflettono prevedibilmente sulle famiglie.
     Mentre la ricerca del maniaco (perché, a questo punto, è chiaro che c’è un maniaco con impulsi sessuali ingovernabili) si fa sempre più urgente, mentre lo spazio sembra restringersi nella vastità oscura dei boschi (come se questo fosse un giallo del tipo della ‘camera chiusa’), Sara Blædel riesce ad alleggerire la cupa tristezza delle vicende che si sono svolte dentro e fuori l’ospedale con le storie d’amore di Louise e della sua amica giornalista.
     Intrigante e insolito: attendiamo la pubblicazione di altri romanzi della scrittrice.