martedì 29 agosto 2017

Edna Mazya, “Esplosione cosmica” ed. 2008

                                     Voci da mondi diversi. Medio Oriente
        cento sfumature di giallo
        il libro dimenticato

Edna Mazya, “Esplosione cosmica”
Ed. e/o, trad. Alessandra Shomroni, pagg. 216, Euro 13,42


   Haifa, Israele. Lui, Ilan, ha 48 anni ed è professore di astrofisica. Lei, Naomi, ha venticinque anni. Con una differenza di età così…difficoltà in vista. Se poi aggiungiamo che Ilan è un tipo insicuro, ha uno stretto legame con la madre, più tardi nel libro scopriremo che a quindici anni aveva ancora problemi di enuresi notturna e che lei, oltre ad essere giovane, è anche molto bella…le difficoltà ipotetiche diventano quasi certezze.
    Infatti Naomi ha un amante. La solita storia. Ilan si insospettisce perché non la trova in casa quando avrebbe dovuto esserci, perché lei, con aria innocente, gli chiede a che ora rientri, perché gli capita di sentirla bisbigliare al telefono, di vedere il suo inconfondibile Maggiolino giallo passare per una strada dove non dovrebbe trovarsi. La segue. Li vede insieme. E’ sconvolto. Dopo un crescendo di incertezze, di schermaglie dettate dalla gelosia e di attacchi di depressione da parte di Ilan (il tutto tra il tragico e il ridicolo), Ilan decide di affrontare l’amante (un fotografo spesso in giro per il mondo) e, davanti allo scherno di questi, in un attacco di rabbia lo uccide. Ilan è un omicida dilettante, lo uccide spingendogli in gola la pipa (che peraltro è sua, di Ilan, era stata un regalo di Naomi che lui non aveva apprezzato). E però è un uomo intelligente, cancella le tracce, fa battere al morto sulla macchina da scrivere un messaggio secondo cui deve andare in Nuova Zelanda per lavoro, in qualche maniera carica il cadavere nel bagagliaio dell’auto.

   Tutta la vicenda è raccontata da Ilan stesso e il lettore ha una straniante impressione di assistere a ciò che sta accadendo nello stesso tempo dal di dentro e dal di fuori. Alcune delle scene sono decisamente un miscuglio di buffo e di grottesco- Ilan che gira in auto per Haifa senza riuscire a trovare un posto dove seppellire il cadavere, che sobbalza ad ogni incontro perché sembra che le persone più stravaganti si siano messe sul suo cammino (ladri di immondizie, una bambina pazza, un ubriacone): potrebbero mai denunciarlo in quanto testimoni? E Ilan è perfino capace di fare dell’autoironia (forse è quello che lo salva) in queste ore drammatiche. Non gli si addice proprio il ruolo di assassino. Finché chiede aiuto alla madre che ha la brillante idea di seppellire il morto nella tomba della maestra d’asilo di Ilan. E’ stata scavata da poco, la terra è fresca, non ci saranno problemi. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere, se il cielo non rovesciasse secchiate di pioggia, se Ilan non finisse con un febbrone e un inizio di polmonite, se nel delirio non straparlasse dicendo di aver ucciso suo padre…

     Riesce a farla franca, questo professore un po’ imbranato che si chiede se ucciderà uno dopo l’altro tutti gli uomini di cui la moglie sembra innamorarsi? Ha modo di spiegare ripetutamente che cosa sia un’esplosione cosmica- quando due stelle ruotano una intorno all’altra perché sono in coppia, ma hanno una massa diversa e perciò non c’è armonia tra di loro, finiranno una per autodistruggersi, distruggendo anche l’altra durante l’intero processo. Il che, pensiamoci bene, avviene spesso anche nelle relazioni umane.
Le sue disavventure non sono finite, lui passa dal desiderio di uccidersi inghiottendo una manciata di tranquillanti in un colpo solo a quello di costituirsi e raccontare tutto all’ispettore arabo che è suo amico di infanzia, spia Naomi e non riesce a capire se lei sappia o sospetti qualcosa, gioca al gatto e il topo con lei e l’ispettore Anton quando sa che una lettera anonima è arrivata alla polizia. Il noir si fa più che mai sarcastico. E il finale è del tutto inaspettato- non sarà giusto ma la bilancia della sofferenza è pari, non avrebbe senso imperversare oltre.



 


sabato 26 agosto 2017

Philip Kerr, “Il Criminale Pallido” ed.2002

                                   Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

    cento sfumature di giallo

Philip Kerr, “Il Criminale Pallido”
Ed. TEA, pagg. 356, € 7,75


La casa editrice TEA ci ripropone “Il criminale pallido”, il secondo libro della famosa trilogia di Berlino dello scrittore britannico Philip Kerr. Il protagonista principale è il mitico Bernie Gunther, già commissario della Polizia Criminale e poi investigatore privato, di mezza età, cinico, umano, lucidissimo nell’analizzare la situazione politica in Germania. E’ il 1938, Hitler è al potere da cinque anni e si prepara ad annettere i Sudeti. Inutile sperare in un intervento della Gran Bretagna. Ci sono già stati pogrom antiebraici in tutta la Germania, la situazione è un poco migliore, più liberale, a Berlino. La direttrice di una importante casa editrice si rivolge a Gunther perché qualcuno la sta ricattando con delle lettere scritte da suo figlio ad un altro uomo. Situazione delicata, gli omosessuali finiscono in un campo di concentramento con il triangolo rosa.
Mentre Gunther indaga su chi possa essere venuto in possesso delle lettere, viene richiamato in Alexanderplatz, dalla Polizia Criminale, per un caso molto più importante e pericoloso per i possibili risvolti politici. Sono già scomparse cinque ragazzine, ritrovate poi morte, e il numero aumenterà nei due mesi in cui Gunther segue il caso. Si assomigliano tutte, sono bionde, occhi azzurri, il tipo ariano. Tutte uccise nella stessa orrenda maniera, che fa pensare ad un omicidio rituale. Chi può avere interesse a fomentare un’ondata di razzismo e scatenare un pogrom a Berlino?
   Un ottimo giallo che segue lo schema tradizionale ambientandolo però in una realtà storica ben precisa, quella della Germania nazista. L’effetto è straordinario, perché il male del mondo del crimine è continuamente ravvicinato ad un altro male istituzionalizzato, la violenza del cittadino impallidisce davanti alla violenza dei rappresentanti del potere.
Il personaggio di Gunther, poi, attira tutte le nostre simpatie, per la sua integrità, perché rappresenta un mondo in cui la bontà e la giustizia hanno ancora valore,  perché non si lascia intimidire dalla tracotanza di chi lo circonda e che potrebbe mettere a tacere la sua protesta fatta di battute sempre pronte, di humour pungente, spietato, a volte cinico e a volte macabro. La finzione si mescola alla storia vera nel finale che culmina nella “Notte dei Cristalli” del 9  novembre, quando si spengono le luci sulla Germania della musica e dei filosofi e si accendono i riflettori della propaganda nazista.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


venerdì 25 agosto 2017

Zhang Ailing, “La storia del giogo d’oro” ed. 2002

                                                 Voci di mondi diversi. Cina
             il libro ritrovato


Zhang Ailing, “La storia del giogo d’oro”
Ed. BUR, trad. Alessandra Lavagnino, pagg.139, Euro 8,60

     E’ la scrittrice stessa, quella che vediamo nella foto in copertina del romanzo “La storia del giogo d’oro”. Bella, con quel taglio di capelli all’occidentale e l’abito di foggia cinese. Intrigante, con lo sguardo a seguire qualcosa che non è dritto davanti a lei. Un piglio deciso nel mento leggermente sollevato e il braccio piegato sul fianco. Una lontana possibilità di sorriso sulle labbra. L’interessante postfazione della sinologa Alessandra Lavagnino ci informa che Zhang (il cognome che precede il nome, all’uso cinese) Ailing (adattamento cinese del nome inglese Eileen con cui la chiama la madre) è nata a Shanghai nel 1920 in una famiglia importante. La madre, una donna moderna che aveva studiato storia dell’arte e lingue in Europa, aveva divorziato dal marito oppiomane e donnaiolo e aveva insistito perché la figlia frequentasse una scuola prestigiosa piuttosto che studiare a casa con un precettore. Sono particolari importanti per capire la combinazione di tradizione cinese e modernità occidentale che ci colpisce nella scrittrice.
“La storia del giogo d’oro”, un piccolo capolavoro, è del 1943 e le procura fama immediata- nel 1952 Zhang Ailing si trasferirà negli Stati Uniti, verrà completamente dimenticata nella Cina di Mao per essere riscoperta negli anni ‘80 (la sua morte è nel 1995).


     C’è una donna al centro de “La storia del giogo d’oro”, in una vicenda ambientata nella brillante Shanghai del primo Novecento. L’hanno fatta sposare al secondo Padrone di una ricca famiglia che l’ha praticamente “acquistata” per questo secondo Figlio ammalato da sempre, quasi un invalido. Lei è diventata la seconda Padrona, ha avuto due figli, ma quanta fiele ha in corpo! Bella e ambiziosa, rabbiosa per trovarsi legata ad un uomo che non è più in grado di soddisfarla, concupita dal terzo Padrone (che forse piace anche a lei), disprezzata più o meno apertamente dagli altri membri della famiglia perché i suoi hanno un negozio di olio di sesamo (persino le serve bisbigliano spettegolando sul suo conto), conta solo sulla morte del marito per ritrovarsi ricca. Che almeno sia d’oro il giogo che si deve sopportare. 
E invece non è così grande la fortuna che eredita, in parte scialacquata dal terzo Fratello. In una società in cui il nome conta così poco che viene cambiato secondo l’età nell’arco della vita, in cui si è chiamati con il posto che si occupa all’interno di una casa o di una famiglia (la Padrona anziana, la prima Cognata o la seconda Sorella), lei ritorna ad essere Qiqiao, la figlia di quelli che hanno il negozio. Più rabbiosa e cattiva che mai, persino con i suoi propri figli.
Come si vede in due scene sconvolgenti, quella in cui si fa preparare la pipa dell’oppio dal figlio e inizia pure lui al vizio, e quella in cui ordina che vengano fasciati i piedi della figlia tredicenne. Per furore, rabbia, invidia. Per avere una compagna di sofferenze. Per rallentare e fermare la vita di una possibile rivale femminile: Qiqiao sa benissimo che la pratica (ormai in disuso, nel 1902 ci fu un decreto imperiale che invitava a sospenderla) sarebbe stata ancora più dolorosa per una bambina di quell’età. Non finirà qui la crudeltà di Qiqiao, diventerà ancora più sottilmente malvagia a mano a mano che l’oro del giogo si perde nelle volute dell’oppio. E la schiavitù dorata nelle stanze chiuse diventa quella legata ad un lettino, a una pipa, ad una lampada da oppio.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


mercoledì 23 agosto 2017

Ann Patchett, “Il bene comune” ed. 2017

                                         Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
          romanzo 'romanzo'
          FRESCO DI LETTURA

Ann Patchett, “Il bene comune”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. Baiocchi e Tagliavini, pagg. 332, Euro 14,28

    Los Angeles, primi anni ‘60. Una festa di battesimo per Franny che ha già quasi un anno, figlia di Fix Keating, poliziotto, e Beverly, bellissima, bionda, luminosa. Non invitato, con una bottiglia di gin in mano, si presenta Bert Cousins, avvocato- quando ha saputo della festa da un collega, gli è parsa l’idea migliore per fuggire dai suoi tre marmocchi urlanti e dalla moglie incinta. Con la complicità del gin e della confusione, Bert bacia Beverly. Le conseguenze sono la storia contenuta nel romanzo “Il bene comune” di Ann Patchett, la storia di due famiglie con un totale di sei figli che seguiamo per cinquant’anni, inchiodati alla lettura, stregati, incapaci di interromperla.
     Bert e Beverly non si separano subito dai rispettivi coniugi, fa a tempo a nascere Albie, che diventerà un bambino pestifero, un adolescente difficile da gestire (darà fuoco alla scuola), un ragazzo che farà il fattorino per guadagnarsi da vivere. E poi decidono di trasferirsi in Virginia. Ogni estate i quattro bambini Cousins prendono l’aereo per passare le vacanze con il padre, la matrigna e le due sorelle acquisite, Franny e  Caroline. Bert sfrutta ogni pretesto per prolungare le ore di lavoro, Beverly si occupa il meno possibile della piccola tribù, i bambini- due maschi e quattro femminucce- si coalizzano nell’odio verso i genitori, si dividono in ‘grandi’ e ‘piccoli’ (Fran e Albie), quando vogliono sbarazzarsi di Albie che è un intralcio per i loro giochi gli danno da succhiare i Tic Tac- le pastiglie rosa che il primogenito Cal porta sempre con sé, è il Benadryl che deve prendere in caso di emergenza, se dovesse essere punto da un’ape. Albie si addormenta e i cinque possono nasconderlo tra la biancheria da lavare. C’è un avvenimento chiave che capita durante un’estate che nessuno dimenticherà mai e che cambierà la vita di tutti, che porterà addirittura al divorzio tra Bert e Beverly, anche se sei anni più tardi.

    Il tempo fa dei salti in avanti e all’indietro, nel romanzo di Ann Patchett- nessun problema a seguire la trama, però, così come non facciamo fatica a ricordare tutti i personaggi. Quello centrale è Franny, la bambina più bella che Bert Cousins avesse mai visto quando l’aveva presa in braccio alla sua festa di battesimo. E Franny, appassionata lettrice che ha interrotto gli studi di Legge e fa la cameriera in un bar, deliziosa con la sua treccia bionda sulla schiena, incontra per caso Leo Posen, un famoso scrittore che potrebbe essere suo padre, che non ha più scritto niente da quindici anni, che beve decisamente troppo. Va da sé che Franny se ne innamori, che gli parli di sé e della sua famiglia allargata, di litigi, di risa, di pianti, di rancori e di silenzi. E che Leo Posen trovi l’ispirazione per un romanzo, “Il bene comune”, per l’appunto. Ma è lecito appropriarsi della vita degli altri, anche se la si trasforma in qualche dettaglio?
   Ann Patchett è straordinaria nell’approfondire le dinamiche dei rapporti di coppia, di famiglia, tra fratelli. Rapporti che non restano uguali, fissi nel tempo ma cambiano con il cambiare dei personaggi che maturano sotto i colpi della vita. Caroline e Franny, che erano antagoniste e non si potevano sopportare nell’infanzia, diventano amiche da adulte, quando si dividono la cura dei genitori, anche questi criticati e mal sopportati dai bambini e poi compresi e accuditi con il passare impietoso degli anni. “Come fanno i figli unici?”, dice una di loro. Perché, nonostante tutto, nonostante Franny non riesca a ricordare bene chi sia chi, nella famiglia del terzo marito della madre Beverly, è il valore del ‘Commonwealth’ che prevale (e lasciatemi passare il termine inglese del titolo, con il suo sotto-significato politico), tutti per uno e uno per tutti, insomma.

   Un romanzo bellissimo, impossibile da dimenticare, ricco di frasi che si vorrebbero citare, di personaggi di cui si vorrebbe continuare a parlare, come il padre di Franny, il poliziotto con cui scompariranno tutte le storie, una volta che sarà morto.

 Assolutamente imperdibile.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net


per contattarmi: picconem@yahoo.com

lunedì 21 agosto 2017

Sarah Dunant, “I Borgia. Danzando con la Fortuna” ed. 2017

                                 Voci da mondi diversi. Gran Bretagana e Irlanda
       romanzo storico
       FRESCO DI LETTURA

Sarah Dunant, “I Borgia. Danzando con la Fortuna
Ed. Neri Pozza, trad. Maddalena Togliani, pagg. 454, Euro 18,00

     Chi non è uno storico, chi (come me) ricorda la storia appresa al liceo, dei Borgia sa solo che venivano dalla Spagna, che erano corrotti, che papa Alessandro Borgia vendeva le cariche ecclesiastiche, che finanziava i soldati del figlio Cesare, il duca Valentino, aiutandolo a diventare il sovrano di uno Stato potente che osteggiasse l’ingerenza di Francia e Spagna in Italia, che Lucrezia, anche lei, come Cesare, figlia illegittima di papa Alessandro, condivideva i forti appetiti sessuali del padre e del fratello e sapeva essere crudele quanto loro.
    Il romanzo “I Borgia” di Sarah Dunant offre a tutti noi, che storici non siamo, la splendida opportunità di sapere di più- sulla famiglia Borgia e sul tempo in cui vissero, sulle divisioni interne nella nostra penisola, sui grandi personaggi (Macchiavelli, Leonardo, Pietro Bembo) che fecero rifulgere il Rinascimento in Italia.
papa Borgia
L’attenzione della scrittrice è sugli anni 1502-1503: quando il libro inizia è l’inverno del 1501-1502 e Lucrezia è in viaggio verso Ferrara dove andrà sposa ad Alfonso, futuro duca d’Este. Non viaggia a cuor leggero, Lucrezia. Questo è il suo terzo matrimonio, ci ha pensato suo fratello Cesare a sbarazzarsi del suo primo marito (che lei non amava) e del secondo, un altro Alfonso, figlio illegittimo del re di Napoli, che invece lei amava molto (era geloso, Cesare?) e da cui aveva avuto un bambino. Alfonso d’Aragona era un ostacolo per le mire di Cesare Borgia. Gli serviva unire la casata dei Borgia con quella degli Este, Ferrara era in una posizione strategica, a metà strada tra il Nord, nell’orbita francese, e il Sud dove regnavano gli spagnoli. Lucrezia è giovane, è bella, si impedisce di pensare all’amato Alfonso- è una Borgia, sa perfettamente qual è il suo dovere e dove vada la sua lealtà. E ama moltissimo il padre e il fratello. Il nuovo marito? Sarà quel che sarà, le donne hanno molte arti per conquistare un uomo. Anche quella di dissimulare.
Lucrezia Borgia
   I capitoli in cui Lucrezia domina la scena si alternano a quelli in cui è Cesare, o Niccolò Macchiavelli (inviato speciale di Firenze, ‘l’occhio esterno’ che vede e fa rapporto), o papa Alessandro, ormai vecchio ma sempre gagliardo visto che la sua ultima amante darà fra poco alla luce un altro suo figlio, ad essere al centro dell’azione; l’ambiente femminile di corte, i balli, la descrizione degli ambienti, dei tessuti degli abiti, le dicerie che circondano Lucrezia, i passi esitanti con cui lei e l’ombroso Alfonso si avvicinano all’amore, il dolore per una gravidanza terminata male, la malattia e il ritorno del sorriso alleggeriscono l’atmosfera, aprono uno squarcio di luce dopo la cupezza e la violenza che circondano Cesare, uomo senza scrupoli morali, un tempo bellissimo ed ora costretto a portare una maschera sul viso per nascondere i segni lasciati dalla sifilide, la nuova peste chiamata ‘il mal francese’ che i dottori si sforzano di curare (sugli uomini, però, perché non si sa ancora che il contagio possa estendersi alle donne: può essere questa la causa degli aborti di Lucrezia?). Ferrara, Urbino (appena conquistata da Cesare- ma come? non erano amici i duchi di Urbino che avevano appena dato ospitalità a Lucrezia?), Firenze, la Roma del Papa. La trama del libro è fittissima, non lascia un attimo di quiete, ci coinvolge e ci fa vivere in un tempo lontano 500 anni da noi, perché Sarah Dunant ha orecchio per il respiro della Storia, ha occhio per il colore, delle pietre di un palazzo indorato dal sole e delle stoffe dei ricchi abiti delle donne.
Cesare Borgia
  Soprattutto, Sarah Dunant trasforma i personaggi ‘piatti’ dei libri di Storia in uomini e donne viventi: mai avremmo creduto di provare simpatia per papa Alessandro Borgia (eppure il suo amore per i figli ci fa perfino dimenticare che lui, quei figli, non avrebbe neppure dovuto averli) o per Lucrezia, figlia della sua famiglia e della sua epoca. Quanto al duca Valentino, è di certo uno dei grandi assassini della Storia, ma non è quella Storia che ha fatto di lui un assassino?


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domenica 20 agosto 2017

Sarah Dunant, "La nascita di Venere" ed. 2005

                                 Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
       romanzo storico
       il libro ritrovato

INTERVISTA A SARAH DUNANT, autrice de “La nascita di Venere”

Firenze rinascimentale: la cupola del Brunelleschi domina una città incredula davanti a questo prodigio architettonico, l’illuminata corte medicea ha favorito una straordinaria fioritura d’opere d’arte, l’ideale neoplatonico di bellezza e bontà diffonde un canone estetico in cui la sensualità si affina nella spiritualità. Nel 1492 muore Lorenzo il Magnifico e l’ordine della città è improvvisamente sconvolto- l’esercito francese preme ai confini, mentre il frate domenicano Girolamo Savonarola tuona dal pulpito contro i vizi, la corruzione, gli scritti pagani e l’arte che distoglie dalla religione. E’ in questa atmosfera che si svolge il romanzo “La nascita di Venere” della scrittrice inglese Sarah Dunant (Ed. Tropea, pagg. 380, Euro 18,50), un intreccio di storia, arte e passioni che inizia dalla fine, quando, alla morte di Suor Lucrezia, le monache del convento le tolgono l’abito e scorgono il tatuaggio di un serpente che si snoda dalla spalla allungandosi con una testa d’uomo verso il sesso.
Il racconto della vita di Suor Lucrezia, al secolo Alessandra Cecchi, è il suo testamento, lasciato alla memoria della figlia divenuta pittrice, come lei avrebbe voluto essere. Non aveva ancora quindici anni, Alessandra, quando suo padre era tornato dall’estero con un giovane pittore fiammingo. Era l’anno in cui era morto il Magnifico, in cui si era sposata sua sorella, in cui anche lei, Alessandra, era stata data in sposa ad un uomo molto più anziano, colto, di una raffinatezza un po’ ambigua, che le avrebbe assicurato una libertà di movimenti che non avrebbe mai potuto avere come ragazza nubile. La vita quotidiana, gli usi e costumi di Firenze nel ‘400 vengono descritti nelle pagine del diario-testamento di Alessandra: la famiglia, in cui i figli maschi godono di tutte le libertà e si danno a gozzoviglie e libertinaggio, gli arredi delle case, la sontuosità delle stoffe e il corredo nuziale della sorella, le squadre di Angeli del Savonarola che terrorizzano i cittadini. Alessandra è intelligente, di una bellezza insolita (ma c’è un segreto dietro la sua nascita e lo scopriremo alla fine), in grado di citare Dante a memoria, di discutere di Aristotele e di Platone, di parlare in latino, di ammirare affreschi e quadri con una sottigliezza interpretativa che rivela come lei stessa si dedichi all’arte. Da una parte il rapporto con il marito (e una traumatizzante scoperta la prima notte di nozze) che si trasforma in un legame di affinità elettiva non immune dalla gelosia, dall’altra quello con il pittore fiammingo, una passione giovanile, violenta e senza parole, che si rivela nei tratti delle donne dipinte da lui, che darà il suo frutto nella figlia di lei. La vita di Alessandra finirà nel convento che avrebbe voluto evitare sposandosi, ma dove potrà anche, finalmente, dipingere. Stilos ha intervistato Sarah Dunant nella sua casa fiorentina, a due passi da Santa Croce.


I suoi libri precedenti erano thriller, che cosa l’ha spinta a cambiare genere, a scrivere un romanzo che parla di arte e di storia?
    Quello che è bello, nello scrivere dei thriller, è che si prende il lettore per il collo e lo si trascina fino alla fine: è un genere perfetto per raccontare una storia, per obbligare il lettore a continuare a leggere. C’è però un prezzo da pagare, per lo scrittore: la trama diventa tutto e si perde la sottigliezza e la complessità dei personaggi. Mentre scrivevo thriller, mi sentivo attratta dalle idee dietro le parole e avvertivo la tensione tra la trama e le idee e alla fine ho sentito che non potevo più scrivere questo tipo di storie. L’ultimo dei miei libri era ambientato nella Firenze contemporanea, ma ero in crisi con la scrittura e sono venuta a Firenze. Ho sempre amato la storia, ho studiato storia all’università, e sentivo come una sfida il cercare di ricreare come sarebbe stato vivere nel Rinascimento. Deve essere stato un po’ come negli anni ‘60 del ‘900, anni di grandi cambiamenti, e io volevo scrivere un libro che desse la sensazione di vivere in questo “coraggioso nuovo mondo”. E però c’era una lezione che avevo imparato scrivendo thriller, cioè il piacere di invogliare il lettore a girare la pagina, a proseguire nella lettura.

 Lei ha una casa a Londra e una a Firenze: quando ha scelto di fare di Firenze la sua seconda dimora? E come divide il suo tempo tra le due città- l’una o l’altra secondo il suo umore?

      Ho comperato questo appartamento a Firenze cinque anni fa e all’inizio dividevo il mio tempo tra qui e Londra. Adesso sto scrivendo un romanzo ambientato a Venezia e non è proprio possibile scrivere a Firenze un libro che parla di Venezia, sono due atmosfere contraddittorie. Ed è per questo che passo meno tempo a Firenze. So che è banale dirlo, ma io amo Firenze, perché è una città con una fantastica combinazione di giovinezza e vecchiaia, è imbevuta di storia e tuttavia ha una vita moderna molto vitale, non si ha l’impressione di vivere in un museo o in una città turistica. Amo soprattutto l’inverno a Firenze e, quando torno a Londra dopo essere stata qui, mi sento piena di energia, come se avessi spalancato le finestre della mia anima. Quando vieni a vivere in una città nuova da adulto, hai la possibilità di reinventarti, perché nessuno sa chi sei. In Inghilterra lavoravo in programmi culturali alla televisione e alla radio e quello che mi piaceva a Firenze era la possibilità di essere anonima e iniziare una nuova vita.

Il titolo del romanzo si riferisce ad un quadro di Botticelli, che cosa ha a che fare Botticelli con la storia del libro?
      Penso che per la gente di oggi la “Nascita di Venere” di Botticelli sia il quadro più famoso del primo Rinascimento, e, tuttavia, la maggior parte dei fiorentini dell’epoca non lo aveva visto. Era stato commissionato da un Medici ed era finito subito in una villa fuori Firenze. Uno dei personaggi del libro l’ha visto e può descriverlo. Quello che c’è di straordinario nel quadro è la presenza di corpo e spirito- non mi riesce di pensare ad altri quadri, prima di questo, in cui ci sia una donna nuda che non sia una figura biblica. E così è veramente importante per la storia dell’arte e per la storia della donna, per questa rappresentazione del corpo femminile con un’aurea di spiritualità oltre che di fisicità.


Il periodo storico che ha scelto come sfondo per “La nascita di Venere” è un periodo buio di tirannide religiosa: la sua scelta è stata motivata dalle analogie con il nostro tempo?
     Non all’inizio. All’inizio ho scelto questo periodo perché sono una romanziera e volevo una bella storia sulla nascita dell’arte e della libertà e il tentativo di soffocarla. Ho iniziato il libro prima dell’11 settembre, poi, mentre scrivevo del periodo di Savonarola a Firenze, ho incominciato a ricevere e-mail che mi parlavano della condizione delle donne in Afghanistan- come non potessero uscire di casa e dovessero indossare il velo- e degli omosessuali che venivano perseguiti e della musica proibita. E la storia del Savonarola che raccontavo diventava la stessa del tempo presente. Da allora abbiamo avuto molte versioni dello scontro tra il fondamentalismo e il liberalismo, e non solo del fondamentalismo islamico e quello cristiano, ma anche della cristianità liberale e di quella fondamentalista. Sarei stata sciocca ad ignorare un parallelo così potente con la situazione dei nostri giorni. Non l’ho cercato intenzionalmente, è stata l’analogia di presente e passato che ha cercato me.


Un numero sempre maggiore di scrittrici rivolgono l’attenzione ad artiste del passato: è una moda o è una maniera di rendere loro finalmente giustizia? E il fatto che Alessandra non diventi una grande pittrice sta ad indicare tutte le donne che avrebbero potuto diventare pittrici o musiciste o scrittrici se solo avessero potuto imparare, se fossero state incoraggiate?
       Non possiamo riscrivere la storia, ci furono pochissime grandi artiste. Quando iniziai “La nascita di Venere” sapevo che c’era una cosa che non potevo fare, e cioè non potevo fare di Alessandra un tesoro perduto del Rinascimento. La realtà è che la struttura sociale non permetteva alla donna di essere un’artista. Per diventare un’artista nel ‘400 non era sufficiente volerlo, c’era anche un duro lavoro, un apprendistato da fare: solo una ragazza che avesse un padre pittore poteva farlo, come la figlia di Paolo Uccello. Quando, alla fine, Alessandra ha una cappella da dipingere, era importante per me che lei capisse di non essere una grande artista, ma soltanto una voce del coro, perché dovevo essere fedele alla Storia.

Il romanzo è una storia d’amore, o meglio di diversi possibili tipi di amore.
      Sì, l’ho fatto intenzionalmente. Alla mia età, penso che non esista l’amore perfetto e volevo scrivere un libro che dicesse, “guardate quanti tipi di amore ci possono essere”. C’è l’amore madre-figlia, quello tra due anime creative, l’amore sessuale, l’amore intellettuale. Penso che l’uomo perfetto debba avere un po’ del marito di Alessandra, un po’ del pittore e un po’ della madre. Per quello che riguarda l’amore omosessuale- e il termine da usare per l’epoca è sodomia- avevo letto i sermoni di Savonarola e di S. Bernardino da Siena che sono pieni di riferimenti alla sodomia: per loro è il peccato più orrendo. Se ne parlavano tanto, vuol dire che era molto comune. E ho trovato poi un libro molto interessante, la tesi di un dottorando americano che aveva consultato i registri delle polizia notturna di quei tempi. I vicoli della città si riempivano di notte di coppie peccaminose, c’era molta prostituzione- ma quella in fin dei conti era accettata. Ma c’erano anche molti omosessuali che venivano arrestati, mentre si chiudeva un occhio se appartenevano a famiglie nobili.

Uno dei personaggi principali è il pittore fiammingo: perché “doveva” essere fiammingo?
      Prima di tutto perché il Rinascimento fiammingo è molto diverso da quello mediterraneo. I fiamminghi avevano una spiritualità profonda e mi interessava questo aspetto. E non volevo che fosse un pittore famoso, volevo che fosse anonimo e volevo immaginare che cosa volesse dire venire in Italia da un paese del Nord: il pittore è il personaggio più vicino a me. Per me l’Italia è il colore, non avevo mai visto il colore così, è la luce che è diversa, il clima…E poi era l’unica maniera per far funzionare la trama, per portarlo in casa con Alessandra e rendere possibile il loro incontro.

Il serpente tatuato sul corpo di Suor Lucrezia ha un viso maschile: a parte il significato che questo riveste per la storia, è voluto il rovesciamento della solita connessione, per cui tentazione e peccato sono associate alla donna?
      Certamente sì. Avevo visto molti quadri con Eva nel Giardino dell’Eden e il serpente tentatore con un viso di donna: i pittori uomini dovevano raffigurarlo così. Dopo Freud sappiamo tutti quale potente immagine sessuale sia racchiusa nel serpente. La faccia maschile del serpente è un momento silenzioso di femminismo- per chi sa coglierlo.

la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos


a breve troverete la recensione de "I Borgia" che ho appena terminato di leggere.


                                                                                     

sabato 19 agosto 2017

Andrei Kurkov, “Picnic sul ghiaccio” ed. 2017

                                                    Voci da mondi diversi. Russia
             satira
            FRESCO DI LETTURA


Andrei Kurkov, “Picnic sul ghiaccio”
Ed. Keller, trad. Rosa Mauro, pagg. 256, Euro 17,00

  Inizi del secondo millennio. L’Unione Sovietica si è appena dissolta nello stupore e nella confusione generale.
  Siamo a Kiev. Il quarantenne Viktor sembra aver accumulato catastrofi: la fidanzata lo ha lasciato, lui è un aspirante scrittore senza lavoro, in più si è accollato (per disperazione?) la compagnia di un pinguino affidatogli dallo zoo cittadino che ormai non ha i mezzi per nutrire tutti gli animali. All’improvviso un colpo di fortuna. Il direttore di un giornale gli affida il compito di redigere dei ‘coccodrilli’, di preparare i necrologi per persone che sono ancora vive e vegete, scegliendole a caso tra i vip frequentemente nominati sulle pagine dei giornali. La paga è ottima, Viktor si mette all’opera e all’inizio il lavoro gli piace e lo incuriosisce. Sfoga le sue velleità letterarie scrivendo dei pezzi succosi, ricchi di dettagli, sconfinando anche in riflessioni filosofiche-metafisiche. Poi qualcosa cambia. Alla libera scelta dei soggetti dei ‘coccodrilli’ si sostituisce l’indicazione più precisa fornita dal direttore che fa recapitare a Viktor dei dossier esaustivi su persone ai vertici in ambienti e occupazioni diverse. Qualcos’altro ancora, che dapprima non insospettisce Viktor: muore (suicidio?) la persona per cui aveva scritto il suo primo necrologio. Viktor dovrebbe essere contento, no? Anche se i pezzi non portano la sua firma (meglio così, aveva detto il direttore), non desiderava forse di essere letto? E poi capita a tutti di morire. Tuttavia, ad un certo punto, i morti che hanno il necrologio già pronto aumentano in maniera vertiginosa.

    Non ho ancora detto nulla di Misha, il pinguino triste che non si trova a suo agio nel clima (quello vero e non metaforico) di Kiev. Misha diventa, in un certo senso, l’alter ego di Viktor che si mette in contatto con il pinguinologo che lavorava allo zoo e si prendeva cura di lui, per saperne di più, dei pinguini, per poter rendere più felice Misha. Il vecchio pinguinologo è un relitto del passato- lui, la sua casa con i mobili antiquati, le fotografie appese al muro che devono risalire agli anni ‘70, sono la memoria di un tempo che non esiste più e che suscita qualche rimpianto. E questa non è l’unica nuova presenza nella vita solitaria di Viktor. Come conseguenza indiretta dei ‘coccodrilli’, una bambina, Sonja, viene affidata a tempo indeterminato a Viktor, e poi arriverà l’amicizia con un poliziotto e il quasi-amore per la baby-sitter di Sonja. Adesso potrebbero anche essere l’immagine di una famigliola felice, anche se così scombinata- Viktor, una ragazza giovane, una bambina e un pinguino.

    E’ leggero, gustoso, affilato, divertente, il romanzo di Andrei Kurkov. Non saprei se definirlo noir o satira politica ma, con uno stile in equilibrio tra realtà e grottesco, con qualcosa di surreale, Andrei Kurkov dipinge il quadro di una situazione così nuova per un ex stato dell’ex Unione Sovietica che il protagonista ingenuo quanto uno sconcertato pinguino lontano dalla sua Antartide non riesce a capire e tanto meno ad immaginare. Quando i morti aumentano, quando, misteriosamente e ripetutamente, qualcuno riesce ad entrare di notte a casa sua per lasciargli messaggi, quando il direttore gli consiglia di allontanarsi da Kiev per qualche giorno (e Viktor, Sonja e pinguino trovano rifugio nella dacia del poliziotto), quando la presenza di Misha è richiesta (a suon di dollari in contanti) a dei funerali, Viktor chiude occhi ed orecchi, acconsente, accetta, va avanti come se niente fosse continuando nelle sue piccole azioni di bontà- prendersi cura del pinguinologo ammalato di tumore, badare alla bambina e a Misha. Finché tutto diventa impossibile, nel finale che non vi rivelo ma che fa dire a Viktor, “sono io il pinguino!”. Perché? Che cosa è successo, ancora?
    Leggete “Picnic sul ghiaccio”. Vi divertirete, masticando amaro.


per contattarmi: picconem@yahoo.com

    

venerdì 18 agosto 2017

Jan-Philipp Sendker, “Gli accordi del cuore” ed. 2013

                                                      Voci da mondi diversi. Area germanica
      la Storia nel romanzo
      il libro ritrovato

Jan-Philipp Sendker, “Gli accordi del cuore”
Ed. Neri Pozza, trad. Riccardo Cravero, pagg.350, Euro 17,00
Titolo originale: Herzenstimmen

     Mio padre conosceva le persone dal modo in cui il loro cuore batteva. Aveva scoperto che ogni cuore risuona in modo diverso e che dalle tonalità del cuore, proprio come dalle voci, si può capire molto di una persona. Quando si innamorò di una ragazza fu perché non aveva mai sentito prima un suono più bello del battito del suo cuore.


         New York. Julia, avvocato trentottenne in uno studio di prestigio, è incapace di pronunciare anche solo una parola durante una riunione, proprio nel momento in cui toccherebbe a lei parlare. Resta paralizzata con l’eco di una voce nell’orecchio: una donna le fa delle domande disturbanti, le chiede, imperiosa e assillante, chi sia, che cosa stia facendo, perché sia sola, perché non abbia figli. Julia teme di stare impazzendo. Nello sconcerto generale si alza e abbandona la riunione.
      E’ un inizio inquietante, quello del nuovo romanzo di Jan-Philipp Sendker, il seguito dell’acclamato “L’arte di ascoltare i battiti del cuore”. Inquietante per il lettore razionale che non è pronto a scavalcare la barricata tra due maniere diverse di guardare la realtà. Perché lo scrittore tedesco Sendker- e chi conosce gli altri suoi libri, inclusi quelli di genere vagamente ‘giallo’, lo sa bene- ha vissuto a lungo in Oriente, le sue trame sono permeate di un’altra cultura e i suoi personaggi sono lì per ricordarci che la folle rincorsa al successo e al denaro del mondo occidentale non è l’unico modo di vivere. E Julia, figlia di madre americana e di padre birmano, un legame sentimentale fallito alle spalle, un aborto causato dalla scarsa prudenza, decide che- se la sua non è schizofrenia o insorgente follia- solo ritornando a Kalaw, dove abita il fratellastro che non vede da una decina d’anni e da cui ha appena ricevuto una lettera, può forse capire che cosa le stia succedendo, che cosa voglia da lei la donna sconosciuta che le parla senza ormai darle pace.

      Il viaggio di Julia in Birmania- come possiamo immaginare- è un percorso per una migliore comprensione di sé, un viaggio che porterà Julia a dare una risposta, travagliata e sofferta, alle domande su chi ella sia e su che cosa voglia dalla vita. E lungo il percorso, guidata dal fratellastro U Ba (una sorta di novello Virgilio che le spiega un mondo diverso), Julia incontrerà delle persone che- a frammenti poi ricuciti- le racconteranno la storia della donna la cui anima è entrata in quella di Julia.
Dal punto di vista narrativo questo è un pretesto ben congegnato per inserire un secondo romanzo dentro il primo romanzo, un secondo libro che contiene una storia drammatica dentro la drammatica storia di guerre e violenze della Birmania. E’ dapprima la storia di una donna e di un uomo molto innamorati che non riuscivano ad avere figli, di come poi la donna riuscì a mettere al mondo due maschietti a un anno di distanza l’uno dall’altro. Di un primogenito molto amato e di un secondogenito trascurato, delle difficoltà di una piccola famiglia dopo la morte accidentale del marito e padre, dell’arrivo dei soldati, infine, che portavano via tutti i ragazzi e uomini dei villaggi. E della tremenda scelta che la madre aveva dovuto fare (ci è venuta in mente la prova simile a questa nel bellissimo romanzo di William Styron, “La scelta di Sophie”, da cui è stato tratto il film con Meryl Streep). Che cosa avrebbe potuto fare quella povera madre? Qualunque dei due figli avesse deciso di salvare, sarebbe ugualmente stata responsabile della condanna dell’altro. Si era dannata, la donna. E aveva dannato entrambi i figli, quello riscattato e quello mandato a morte quasi certa.

      Eppure non finisce tutto così. Quello che Julia impara, quello che noi impariamo nel nostro mondo in cui facciamo sconti di comprensione per chi si comporta in maniera criminale, è che- qualunque siano le carte che ci vengono messe in mano- ognuno di noi è responsabile della propria vita, ognuno può manovrare il timone e cambiare la rotta. Ne è la prova il bel personaggio di Thar Thar che raggiungiamo con Julia nel singolare monastero in cui ospita bambini che hanno dei problemi. E preparatevi a sentire una terza storia, contenuta nella seconda e che si srotola da questa.

     Si vorrebbe leggere ancora, una volta terminato il libro di Sendker che, oltre ad averci intrattenuto, ci ha portato a riflettere su quanto sia vera l’importanza delle parole scritte da E.M.Forster all’introduzione del suo “Passaggio in India”: soltanto connettere, la prosa con la passione,  l’Occidente con l’Oriente.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


giovedì 17 agosto 2017

Jan-Philipp Sendker, “Gli scherzi del Dragone” ed. 2011

                                            Voci da mondi diversi. Area germanica
  cento sfumature di giallo
  il libro ritrovato

Jan-Philipp Sendker, “Gli scherzi del Dragone”
Ed. Neri Pozza, trad. Francesco Porzio, pagg. 376, Euro 18,00
Titolo originale: Drachenspiele

    Christine non aveva pensato che suo fratello potesse avere un aspetto così vecchio. Sfinito. Stanco. Stanco della vita, pensò. Avrebbe potuto essere il fratello di sua madre. Li separavano poco più di dieci anni. Anni cinesi, però. Lui aveva vissuto anni cinesi, lei anni di Hong Kong. Non era lo stesso. Sul grande planisfero terrestre erano stati vicini, lontani solo una punta di spillo l’uno dall’altra, Hong Kong-Sichuan, Hong Kong-Shanghai, meno di tre ore di volo, u  giorno e una notte in treno, tuttavia le loro età andavano misurate con metri diversi. Gli anni cinesi lasciano tracce profonde. Gli anni cinesi divorano. Logorano e consumano.

     Il monologo silenzioso di una donna quasi paralizzata che non riesce a far uscire le parole dal guscio della sua testa che va assomigliando sempre più a uno scheletro. Il marito la accudisce con tutto il suo amore. Vivono in un villaggio a tre ore da Shanghai dove la vita è così miseranda che la gente non fa caso al fatto che ci siano altre donne che hanno avuto un ictus (questa è stata la diagnosi dei medici) negli stessi giorni in cui l’ha avuto Min Fang. E neppure si è posta domande sullo strano comportamento dei gatti, che sono morti dopo quello che pareva un attacco di follia. Invece, quando Paul Leibovitz vede Min Fang, quando sente raccontare dei gatti, quando fa una breve passeggiata sulla riva di un lago dove Min Fang andava a pescare, si insospettisce.

      “Gli scherzi del Dragone” è il secondo romanzo della trilogia dello scrittore tedesco Jan-Philipp Sendker che ha come protagonista il personaggio singolare di Paul Leibovitz. Ha cinquantatre anni, vive da trent’anni a Hong Kong, parla benissimo sia il cantonese sia il mandarino. Ha alle spalle una tragedia: il suo bambino è morto di leucemia. Divorziato, ha incontrato da poco (nel romanzo precedente) Christine Wu con cui ha stretto un legame d’amore intenso. Christine è arrivata a Hong Kong quando era una bambina, in fuga con la madre dalla Cina di Mao. Mentre infuriava la Rivoluzione Culturale suo padre si era suicidato, lanciandosi da una finestra per sottrarsi alle Guardie Rosse che avevano fatto irruzione in casa, scoprendo i libri di Confucio nascosti sotto le assi del pavimento. Christine aveva anche un fratello, Da Long, che era stato mandato nei campi per essere rieducato. Non ne avevano saputo più nulla, probabilmente era morto. E invece no: dopo quasi quarant’anni Da Long si è fatto vivo, scrivendo una lettera alla sorella. Potrebbe andare a trovarlo la sua mei-mei, la sorellina?
    Ed è così che Paul e Christine partono- è la prima volta che Christine rimette piede in Cina. Il tempo è passato, le cose sono cambiate. Sono davvero cambiate le cose? E’ cambiato lo stile di vita, è cambiato il volto delle città. Forse c’è ancora più corruzione di un tempo, un maggior divario tra ricchi e poveri, e poi, si può contare su uno stato di diritto? Una volta gli avvocati neppure esistevano ma ora, che libertà hanno gli avvocati? Se osano, per ingenuità, per idealismo (o per stupidità) accettare di portare avanti delle cause che toccano gli interessi dei ‘grandi’ (riguardanti imprese in cui è cointeressato il governo o espropri di terre per grandiose riedificazioni) è certo che saranno ridotti a fare i passacarte. O gli archivisti. Quando Paul sospetta che Min Fang sia stata avvelenata dal mercurio contenuto nelle acque del lago in cui pescava, quando ne è certo, dopo aver fatto fare delle analisi, quando è chiaro che è la fabbrica sulla riva del lago che scarica i veleni nelle acque, la situazione si fa minacciosa. Pericolosa. Non c’è avvocato che se la senta di portare avanti la loro denuncia. Al più consigliano di metterla in internet. Con conseguenze che lascio scoprire al lettore.


    C’è la profezia di un astrologo cinese che riaffiora puntuale a scandire la trama. Aveva detto a Paul: Darai vita. Prenderai vita. Perderai vita. Paul aveva pensato che fossero parole prive di fondamento. Ma si avverano, una dopo l’altra. E l’enigma del significato delle tre profezie aggiunge una dimensione privata alla trama di indagine. “Gli scherzi del Dragone” è un bel romanzo, una vicenda di colpe e di tradimenti in un tempo in cui era difficile resistere al vento della Storia, una storia dello sforzo per recuperare l’integrità e la dignità personale, di un amore che oltrepassa la barriera del corpo. Ed è pure un grido di allarme, la denuncia di una totale mancanza di scrupoli nei confronti del benessere e della salute del popolo, nel silenzio generale.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it