lunedì 29 febbraio 2016

Boualem Sansal, “2084. La fine del mondo” ed. 2016

                                                          Voci da mondi diversi. Africa
          distopia
          FRESCO DI LETTURA


Boualem Sansal, “2084. La fine del mondo”
Ed. Neri Pozza, trad. M. Botto, pagg. 254, Euro 14,45


       “2084”: il riferimento al “1984” di George Orwell è chiaro, e lo scrittore algerino Boualem Sansal non è debitore solo del titolo, trasposto a cento anni di distanza, nel suo romanzo destinato a suscitare scalpore. L’impianto stesso del romanzo è simile a quello del capolavoro di Orwell. Siamo in Abistan e l’Abistan è l’unico stato rimasto da un oscuro passato terminato con la grande Guerra Santa, chiamata Shar. Si parla di Frontiere, ma è tutto vago, nessuno sa niente di preciso, nessuno neppure si azzarda a pensare o a immaginare qualcosa, niente viene mai messo in discussione. Perché c’è un solo capo, Abi, eletto da Dio per governare il popolo dei credenti (nessuno lo ha mai visto), l’Essere Supremo che ha donato la supremazia al suo popolo si chiama Yölah (provate a pronunciarlo, suona come Allah) e il suo opposto ha il nome di Shaitan, oppure Maligno, o Rinnegato, o Balis (i suoi seguaci sono i balisiani), una congregazione di 40 dignitari forma la Giusta Fraternità che aiuta Abi a governare e a contrastare i Makuf- i propagandisti della Grande Miscredenza.

     Orwell aveva scritto il suo romanzo nel 1948 (da qui il suo titolo), spinto dalla delusione provata nel constatare il cammino che aveva imboccato il Comunismo. A poco meno di un secolo di distanza nessuno parla più di comunismo e non sono più gli ideali politici a minacciare la democrazia ma una fede religiosa, lo constatiamo ogni giorno e avvertiamo un certo timore che cerchiamo di tenere a bada. Il romanzo di Sansal sostituisce la distopia politica di Orwell con quella religiosa. Che si presenta, pure questa, come una forma di dittatura che ha bisogno di un suo linguaggio (la lingua del Terzo Reich documentata da Victor Klemperer è l’esempio migliore)- l’Oceania di Orwell è sostituita dall’Abistan e Abi sostituisce il Grande Fratello, invece dello slogan Big Brother is watching you, c’è un Bigaye che guarda e sorveglia, invece della psicopolizia ci sono i V che leggono i pensieri e la Leg-abi (la legione di Abi) di temibili guardiani senza cervello. La lingua è importante, la codificazione del linguaggio sottrae al pensiero, impoverisce la mente, rende incapace di astrazioni.
E, invece di un Winston Smith che porta avanti la sua solitaria protesta, nel “2084” c’è Ati che incomincia a porsi domande, a mettere in dubbio l’unica verità, l’unica fede, l’unica versione della Storia- anche in Abistan, come in Oceania, i fatti vengono manipolati e alterati secondo l’opportunità.
A rischio della vita Ati riesce ad infiltrarsi nel ghetto dei Rinnegati- come quando Winston Smith si mescola con i Proles e scopre il negozio con oggetti una volta comuni ma scomparsi perché ‘borghesi’, anche Ati scopre, nel magazzino della persona che gli dà rifugio, un tesoro di cose normali ma che lui non ha mai visto, spazzate via dalla furia dell’ossessione del peccato. Nel ghetto Ati vede donne non velate, graffiti oltraggiosi contro l’Abistan, libri scritti in altre lingue: è veramente scomparso il mondo fuori dai confini dell’Abistan? Qual è il motivo vero per cui si incoraggia la popolazione a muoversi in continui pellegrinaggi? Perché sono stati eliminati i due amici di Ati? Che cosa non dovevano rivelare?

     In questo romanzo distopico pieno di ombre minacciose un esile filo di speranza viene dato dalla figura dell’uomo (Ati?) che è stato visto fuggevolmente, mentre scendeva da un elicottero su un altopiano nelle vicinanze di un valico. L’uomo era vestito in modo strano, ‘all’antica’, e sembrava stesse cercando qualcosa, ‘una pista perduta, una rovina leggendaria, un passaggio segreto, forse la strada proibita’. E’ scomparso, si ride di lui, come di un folle. Perché se cercava la mitica Frontiera, era pazzo: si sa che la Frontiera non esiste, c’è solo la sua leggenda. E per tutti quelli che vivono in Abistan è meglio non porsi domande, accontentarsi di quello che viene loro detto.



     
     


Adam Williams, “Il palazzo dei piaceri celesti” ed. 2004

                                                      Voci da mondi diversi. Cina
          la Storia nel romanzo
          intervista

Adam Williams, “Il palazzo dei piaceri celesti”
Ed. Longanesi, trad. Paola Merla, pagg. 741, Euro 19,00


Leggendo il romanzo “Il palazzo dei piaceri celesti” dello scrittore inglese Adam Williams ho provato lo stesso entusiasmo di quando lessi “Shogun” di James Clavell, trent’anni fa. Come Clavell, Williams ha la capacità di farti dimenticare la realtà quotidiana, di trasportarti in un mondo lontano, di farti vivere la vita dei suoi personaggi condividendo passioni e paure, riflessioni ed avventure. La storia è quella di tre nuclei famigliari a Shishan, nel nord della Cina, nel 1899: il dottor Airton e sua moglie dirigono un piccolo ospedale, Frank Delamere è un commerciante, felice per l’arrivo della figlia Helen Frances dall’Inghilterra, Septimus Millward è un missionario fanatico. Due linee ferroviarie, una cinese e una russa, sono in costruzione in questa fine di secolo, e la novità tecnologica non può non risvegliare
paure e superstizioni. Dapprima circolano solo voci sui Boxer, “la società dei Pugni armoniosi” che pratica le arti marziali e che ha giurato di uccidere tutti gli stranieri, poi iniziano gli atti di violenza che culminano infine nelle stragi sistematiche, una mattanza di sangue.
Si salvano soltanto la famiglia del dottor Airton e Helen Frances, grazie all’aiuto del mandarino e di Henry Manners, l’inglese coinvolto in un traffico di armi tra Cina e Giappone, l’affascinante eroe tenebroso alla Heathcliff che seduce l’incantevole e appassionata Helen Frances, la introduce all’oppio, la mette incinta e, nello stesso tempo, ruba al maggiore Lin la sua bella prostituta cinese. Per ironia del destino la salvezza è dietro le porte di quello scandaloso Palazzo dei Piaceri Terrestri, luogo di perdizione per gli occidentali, in cui è vero che si comprano tutti i piaceri, ma è anche vero che le donne e i ragazzini possono venire “obbligati” ad essere compiacenti con mezzi brutali. Due culture a confronto, in questo romanzo che, pur non essendo un “romanzo dell’Impero”, ci ricorda “Passaggio in India” di Forster, per quel tentativo di connessione (“only connect” era la citazione all’inizio del libro di Forster) tra due mondi, ognuno dei quali ha molto da dare all’altro, nel rispetto delle differenze. Abbiamo incontrato Adam Williams a Milano e abbiamo parlato con lui della Cina di allora, quando vi arrivò la sua famiglia, e della Cina moderna: è passato più di un secolo che sembra essere durato di più che in Europa e che certamente ha apportato più cambiamenti nella società cinese che in quella europea.

 Leggendo il suo romanzo si capisce subito che Lei conosce molto bene la Cina, e dall’interno. Quando è arrivata in Cina la Sua famiglia?
    Entrambi i miei bisnonni sono giunti in Cina verso il 1890. Il mio bisnonno materno era un medico missionario scozzese e quello paterno era un ingegnere inviato in Cina per costruire la prima ferrovia che andava da Pechino a Mukden. Anche suo figlio diventò un ingegnere e disegnò molti ponti ferroviari della Manciuria, e sposò la figlia del bisnonno medico. Fu un matrimonio infelice, da cui nacque mia madre. Io sono nato a Hong Kong dove mio padre lavorava e ho studiato in Inghilterra.

 Il Suo caso è l’opposto di quello degli scrittori asiatici che vivono in Occidente e devono adattarsi ai modi di vita occidentali. Una domanda banale: si sente inglese o cinese? Dove sono le sue radici? E quelle dei suoi figli?

     Per i miei figli è certamente più facile, perché hanno conosciuto solo la Cina. Mio figlio adesso studia a Oxford, ma “casa” per loro è senza dubbio Pechino. Io sono senza radici, sono cresciuto a Hong Kong, poi sono andato in Giappone, ho frequentato le scuole in Inghilterra. La Hong Kong di allora non esiste più, era una città coloniale, è diventata una metropoli. Hong Kong non era Cina, era britannica, ma la Cina era dietro le montagne e in casa mia la Cina era sempre presente. Sono cresciuto ascoltando le filastrocche che mia madre mi diceva e che lei aveva sentito dalla sua amah manciù. Eppure mi sento ancora uno straniero in Cina. C’è un detto in Cina: se passi una settimana in Cina, puoi scrivere un romanzo; se ci passi un mese, puoi scrivere un articolo su una rivista, e, se ci passi la vita, non osi scrivere più niente.

Perché ha scelto la fine dell’800 come ambientazione per il suo romanzo?
    Quella fu l’epoca della ribellione dei Boxer che si stava fomentando nel 1899, esplose nel maggio del 1900 e finì nell’agosto dello stesso anno. Fu uno scontro tra la Cina feudale e le nuove forze portate dall’Occidente. I Boxer erano contadini superstiziosi, strumentalizzati dal mandarinato in direzione xenofoba.
Erano una reazione contro le forze del cambiamento: arrivavano i treni, portavano via lavoro, arrivavano i cristiani sconvolgendo le tradizioni dei villaggi. Io vivo nella Cina di un secolo dopo e, in un certo senso, ci sono delle somiglianze: in entrambi i casi c’era un’ortodossia che è stata turbata dall’irruzione di nuove idee dell’Occidente. Mi interessava questo scontro culturale, questa reazione contro il cambiamento e poi la storia stessa della mia famiglia. Nei cinesi io amo il pragmatismo, la capacità di compromesso. Noi tendiamo ad essere più assolutisti, in Cina si guarda di più quello che interessa al gruppo.

A proposito di questo parallelo con la situazione attuale, con questa nuova “invasione” occidentale della Cina: quali sono le reazioni? Come vengono accettate le nuove mode, le nuove tecnologie, i nuovi comportamenti?
    Non c’è mai stata tanta penetrazione occidentale come adesso, perché il governo cinese ha proprio abbracciato il modernismo, preferisco chiamarlo modernismo piuttosto che occidentalizzazione, significa che vengono assimilate idee occidentali, standard occidentali. Ma ci sono ancora contraddizioni, forse non così forti come all’epoca in cui arrivò la ferrovia portando via lavoro, ma ci sono milionari che fanno fortuna con speculazioni sul mercato immobiliare, proprio come succede in America, ci sono fenomeni da cui non tutti traggono beneficio, c’è chi resta fuori, e questo crea delle tensioni. L’anno scorso, quando c’è stata l’epidemia di SARS, è balzato fuori il lato nascosto, quello meno pulito della crescita degli anni ’90. Si è visto come le campagne mancassero di assistenza medica; la crisi del momento di emergenza ha rivelato i livelli di corruzione e Internet è diventato un importante veicolo di comunicazione. La conseguenza è stata che il governo è diventato più socialmente consapevole, c’è un nuovo concetto di trasparenza. Prima dell’epidemia di SARS il concetto di trasparenza era solo finanziario, dopo è diventato un concetto che si applica al governo e alle attività del governo. Questo cambiamento è drammatico e ha effetti contradditori.
Falun Gong
Ci sono ancora elementi della vecchia cultura, c’è un movimento religioso bandito dal governo, quello dei Falun Gong, una setta buddista pacifista che ha fatto una protesta in difesa dei diritti umani e che rappresenta un poco la stessa reazione dei Boxer davanti alle nuove idee in passato.

La cultura cinese è molto antica e c’è un personaggio nel Suo libro, il dottor Airton, che ci fa pensare al Professor Fielding in “Passaggio in India” di Forster: è lui quello che apprezza la cultura cinese senza voler imporre la propria, di cultura. Il missionario Millward è l’opposto.
     Il dottor Airton è un uomo illuminato, anche se poi non è chiaro se vive secondo i precetti che predica. Il tipo del missionario Millward era certamente più comune, anche se non tutti erano così strani come lui. Molti missionari protestanti avevano una visione semplicistica del cristianesimo e non si rendevano conto di come le loro idee fossero spesso fuori luogo e addirittura avessero un’altra valenza nella società cinese. Così l’immagine del buon pastore, per esempio, o quella dell’Eucarestia. Si creavano dei fraintendimenti paurosi, anche se con le migliori intenzioni, e il risultato fu la ribellione dei Boxer. In un certo senso fu anche colpa del Vaticano: i gesuiti in Cina erano sensibili all’essenza del confucianesimo, che era basato sulla venerazione degli antenati.
Non era quindi un’adorazione di idoli, era una forma di pietas filiale e questa era una virtù cristiana. Nel XVIII secolo il Papa decise di attaccare il confucianesimo e perse le simpatie dei mandarini. Il cattolicesimo diventò la religione dei poveri e per loro era un vantaggio perché il governo doveva trattarli in maniera diversa. Se c’era una disputa terriera, ad esempio, secondo i trattati internazionali il contadino poteva ricorrere ai missionari e questi al console e poi all’imperatore. Si creavano così delle differenze.

E’ praticata la religione adesso? E quale religione?
    Ogni volta che vado in una chiesa mi stupisco di vedere quanto sia affollata. Moltissimi fedeli hanno sofferto le persecuzioni durante la Rivoluzione Culturale. Eppure sono numerosissimi e ci sono anche tanti giovani. C’è un vero e proprio revival religioso, di tutte le religioni e non solo quella cristiana, ma anche il taoismo, il buddismo, o altri culti come il Falun Gong di cui si parlava prima. La posizione ufficiale è quella di libertà di religione, ma la religione non deve contestare lo stato. La situazione più difficile è quella dei Russi ortodossi perché la loro chiesa non è riconosciuta.

 Il secolo XX è stato un secolo di grandi cambiamenti ovunque, ma mi pare che abbia portato cambiamenti ancora maggiori in Cina. Per le donne ad esempio. Nel romanzo ci sono le donne ancora con i piedi fasciati.

    Mao diceva che le donne sostengono la metà del cielo. Le donne con i piedi fasciati: la legge che li proibiva è del 1911, ma io ho visto delle vecchie signore con i piedi fasciati ancora negli anni ’80. La vita è molto cambiata, soprattutto per le donne, anche se poi ci sono differenze tra quello che si dice e quello che si fa, ci sono ancora doppi standard, c’è ancora la censura. La Cina è arrivata tardi, ma si sta muovendo molto veloce nel nuovo mondo, ci sono più telefonini che in America. Ma non è una società che si muove tutta insieme: il progresso è più sulla costa, nell’Ovest sembra ancora di essere all’età della pietra. C’è ancora un abisso tra ricchi e poveri, tra Est e Ovest del paese.

 La cultura in Cina: dopo il silenzio imposto dalla rivoluzione culturale, c’è una nuova ondata di scrittori cinesi. Com’è la situazione delle università in Cina?
    Per le università c’è certamente una richiesta che supera l’offerta dei posti. Le università sono ottime, tuttavia, e il livello di preparazione degli studenti si può giudicare dalle domande che vengono rivolte ai capi di Stato in visita, ad esempio. Però c’è ancora la censura in Cina, non tutto quello che si dice in privato si può dire apertamente, non ogni libro viene pubblicato. “Cigni selvatici” è ancora proibito, al libro di Hilary Clinton è stata tagliata la parte in cui parla della Cina. Ci sono molte traduzioni di libri stranieri ma la situazione editoriale resta difficile.

L’oppio: Helen Frances diventa oppio dipendente. L’Occidente ha sfruttato il commercio dell’oppio.

    Il commercio dell’oppio venne proibito nel 1948. Era stato un commercio molto fiorente, ci furono le famose guerre dell’oppio e i paesi coinvolti in questo commercio furono non solo la Gran Bretagna e la Francia, ma anche gli Stati Uniti: la compagnia Russell&Co. si arricchì con l’oppio, anche se gli americani non se lo vogliono sentir dire. In origine si voleva comprare il tè, ma la Cina non era interessata alle materie prime straniere e la Compagnia delle Indie Orientali acquistava il tè  pagando in argento. Vendendo l’oppio potevano riprendersi l’argento, quindi c’era un motivo economico. Era un commercio illegale su cui si fondarono delle fortune. Ma non sono solo gli stranieri a dover essere biasimati per il commercio dell’oppio, fa parte della cultura stessa cinese. Anche i signori della guerra giapponesi sono coinvolti: negli anni ’20 i giapponesi hanno usato l’oppio per indebolire i cinesi, gli eserciti hanno imposto ai contadini di coltivare oppio invece di altri generi alimentari. Comunque non si possono attribuire le colpe solo ad una parte, è stata una responsabilità comune.

recensione e intervista sono state pubblicate su www.stradanove.net








sabato 27 febbraio 2016

Andrew Nicoll, “La vita segreta e la strana morte della signorina Milne” ed. 2016

                                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
    cento sfumature di giallo
     FRESCO DI LETTURA


Andrew Nicoll, “La vita segreta e la strana morte della signorina Milne”
Ed. Sonzogno, trad. M. Magri, pagg. 351, Euro 14,88


    E’ un ‘cold case’ vero, quello della signorina Milne: nel 1912 una attempata signorina dallo stile di vita eccentrico fu trovata morta nella sua casa, non si riuscì a trovare il colpevole e il caso venne archiviato. Lo scrittore e giornalista scozzese Andrew Nicoll ha cercato una ‘sua’ soluzione- più o meno fittizia, più o meno verosimile, di certo possibile- dopo aver consultato gli archivi della polizia e i giornali dell’epoca e ha ricostruito per noi i fatti in questo romanzo, “La vita segreta e la strana morte della signorina Milne”.
     Il primo segreto della signorina Jean Milne riguardava la sua età: quanti anni aveva Jean Milne quando era morta, nell’ottobre del 1912? Di certo più di quanti ne dichiarava, anche se era difficile dirlo perché era, a dir poco, stravagante. Miss Milne amava vestirsi in maniera giovanile e- ad essere sinceri- poco appropriata ad una signorina per bene. Ma anche il suo comportamento era così: amava flirtare, la signorina Milne. Su di lei circolavano voci, la sua vita piena di ombre incuriosiva gli abitanti della piccola cittadina di Broughty Ferry perennemente in rivalità con la vicina Dundee.
E quelle voci, attutite quando era viva, si erano fatte più forti dopo la sua morte, quando ci si chiedeva chi potesse averla uccisa in maniera tanto brutale. Ma già, che cosa ci si poteva aspettare dal momento che lei, regolarmente, di tanto in tanto, chiudeva quella sua enorme casa di ventitre stanze dove viveva da sola, e se ne andava per lunghi periodi, a Londra o in giro per la Scozia, facendo amicizia con uomini che probabilmente volevano una sola cosa da lei? La strana morte era da aspettarsi, tutto sommato. Il postino aveva lanciato l’allarme, gli pareva strano che si fosse accumulata tanta posta, e poi la signorina Milne non aveva avvisato la polizia che sarebbe andata via. Erano stati costretti a forzare la porta, il corpo della signorina giaceva nell’ingresso e probabilmente era morta da quindici giorni. Un delitto così feroce che il luogotenente Trench, arrivato da Glasgow per collaborare con le indagini, dichiara subito che deve essere opera di un forestiero- è uno dei motivi ricorrenti ed umoristici del romanzo, così veritiero peraltro, il senso di superiorità prettamente britannico e insulare per cui tutto quello che è straniero è inferiore: divertentissima la scena in cui l’ispettore capo Sempill rimprovera un agente per la sua pronuncia ‘troppo francese’ quando questi parla per l’appunto in francese, trovandosi ad Anversa. Le indagini partono proprio con il piede sbagliato, quindi, già con un pregiudizio. A condurle, oltre a Trench e a Sempill (ottuso e limitato) è l’agente della polizia locale Frazer (che è anche voce narrante). Fatto sta che, dopo aver sentito le testimonianze di persone che hanno visto un signore elegante con i baffetti aggirarsi nel giardino della villa della signorina Milne, i sospetti cadono su di un uomo dalla vita avventurosa, canadese (perfetto, ci voleva lo straniero): ci deve essere un colpevole, Sempill sembra fare di tutto perché questo tizio dai parecchi nomi venga inchiodato. Farà la figura dell’idiota.

     Andrew Nicoll è bravissimo nel restituirci l’atmosfera di un’epoca lontana perché lo stile stesso del libro è ‘fuori moda’, fa pensare ai gialli di Agatha Christie, indugiando nelle descrizioni ambientali (perfette), delineando il carattere dei tre investigatori- lo scrupoloso Fraser, l’onesto Trench che non tollera l’idea di far condannare un innocente e il meschino ed egocentrico Sempill. Della grande maestra del giallo c’è anche la soluzione del tutto inaspettata (del tipo, ‘l’assassino è il maggiordomo’), quella che, con un colpo di coda, fa salire la tensione, iniettando un poco di brivido di cui sentivamo la mancanza in questo romanzo che sembra voler rispecchiare la compostezza tipica dei britannici.


     


venerdì 26 febbraio 2016

Francesca Melandri, “Eva dorme” ed. 2010

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia

         la Storia nel romanzo
         il libro dimenticato


Francesca Melandri, “Eva dorme”
Ed. Mondadori, pagg. 347, Euro 9,35


      Lo dicono i versi di John Milton, all’inizio del libro: Eva dorme- Let Eve (for I have drenched her eyes)/ here sleep below,/ while thou to foresight wak’st- nel giardino dell’Eden mentre l’arcangelo Michele fa intravvedere il futuro ad Adamo. Eva- la vera Eva del romanzo di Francesca Melandri- dorme, nel prologo, quando il postino recapita a sua madre Gerda un pacchetto indirizzato a lei e Gerda lo rispedisce al mittente, cancellando con un tratto di penna un altro possibile futuro per sua figlia. Eva riceverà quel pacchetto destinato ai suoi sedici anni molto tempo dopo, quando la vita ha già fatto il suo corso ed Eva si è messa in viaggio per andare a porgere l’ultimo saluto all’uomo che sta morendo, che aveva amato sua madre, che era stato un padre per lei, Eva, la bimba che il suo vero padre non aveva voluto riconoscere quando era nata.

     I capitoli di “Eva dorme” hanno dei numeri per titolo. Non sono i numeri della sequenza narrativa, ma, per un filone, le date degli anni in cui si svolge la storia raccontata, e, per l’altro, il numero di chilometri che le ruote del treno macina, portando Eva da Brunico a Reggio Calabria, da un estremo all’altro dell’Italia. Dal 1919 alla fine degli anni ‘70, e 1397 chilometri per ricostruire gli avvenimenti e la storia di una famiglia, gli Huber. Dallo sconvolgimento dell’annessione all’Italia alla fine della prima guerra mondiale, con l’italianizzazione forzata, all’opzione, con l’avvento di Hitler, che obbligava- come dobbiamo chiamarli? gli altoatesini? i sudtirolesi?- a scegliere se essere rimpatriati in una patria che però era tale solo perché il luogo dove si parlava tedesco, oppure restare in quella che era di fatto la terra loro e dei loro antenati, sentendosi però prigionieri, sudditi, discriminati. Dai primi attentati terroristici- piloni fatti saltare, il monumento all’alpino imbrattato di vernice rossa, ripulito, distrutto, ricollocato (soltanto il busto della figura, quello che era rimasto intatto) sul posto- a quelli più pesanti, che avevano causato la perdita di vite umane: facevano pena i giovani carabinieri che arrivavano dal sud, che non capivano neppure il perché di tutto questo odio nei loro confronti. E’ questa incomprensione da parte di tutti gli italiani, quella che balza fuori dal romanzo di Francesca Melandri. E’ l’ignoranza diffusa di una situazione storica che ha arbitrato l’attribuzione di una terra e di una lingua.

Su questo sfondo, con i bellissimi paesaggi dell’Alto Adige (per noi italiani) o Sud Tirolo (per gli abitanti del luogo), personaggi veri e fittizi, lo stimatissimo Silvius Magnago che si batté per l’autonomia, che era in buoni rapporti con Aldo Moro, e la bellissima Gerda Huber, sorella di uno Schützen che si era fatto saltare in aria preparando un attentato, aiuto cuoca che era diventata prima cuoca del ristorante in cui era arrivata come Matratze, sguattera di infimo livello che poteva servire anche come materasso. Gerda no, però. Orgogliosa e altera, anche quando si era ritrovata incinta perché le ragazze giovani sono le stesse da sempre e credono nell’amore. Rifiutata dalla famiglia- non era il 1963 quando a Mina, ‘ragazza-madre’, non era più permesso cantare in televisione?-, Gerda cresce Eva da sola. La affida ad una famiglia generosa in montagna ed Eva diventa grande aspettando la corriera che le porta la mamma per due mesi all’anno, che le porta la felicità. Gerda trova l’amore in Vito, il carabiniere straordinario (bisogna dirlo) che arriva da Reggio Calabria e che vuole formare una famiglia con madre e figlia. La legge interna dell’Arma glielo impedisce: non sia mai detto che un carabiniere sposi qualcuno che offre un esempio scandaloso.


     C’è molto di più nella trama di questo libro che è, per molti versi, illuminante, che ci dice cose che avremmo dovuto sapere, che ci racconta la storia di una regione in cui ci siamo sentiti male accolti, quando ci andavamo per ammirarne le bellezze. E lo fa con una vicenda ricca di avvenimenti, di situazioni, di personaggi che, anche se non tutti ugualmente approfonditi, ci restano nel cuore.


giovedì 25 febbraio 2016

Martin Suter, “Il talento del cuoco” ed. 2013

                                                   Voci da mondi diversi. Svizzera
          noir
          il libro ritrovato

Martin Suter, “Il talento del cuoco”
Ed. Sellerio, trad. Emanuela Cervini, pagg. 331, Euro 16,00
Titolo originale: Der Koch


      Avrebbe preferito mantenere le distanze. Non sopportava di dover entrare nella loro intimità. Già prima era infastidito dal fatto che gli svizzeri non tenessero minimamente a preservare la loro sfera intima. Si baciavano in pubblico, parlavano di cose molto personali in tram, le ragazzine si vestivano come prostitute. Giornali, televisione, cinema e musica facevano continui riferimenti al sesso.
   Avrebbe preferito non sapere, non vedere, non sentire.

        Zurigo, marzo 2008. Il giovane Maravan, indiano tamil emigrato dallo Sri Lanka per sfuggire alla guerra, lavora come sguattero in un ristorante di lusso. Eppure le sue capacità sono ben altre, come ha modo di dimostrare in una cena che prepara per Andrea, una cameriera che lavora nel suo stesso locale. Maravan ha la cucina nel sangue, nell’anima, nell’olfatto, nel gusto. Per lui cucinare i piatti della sua terra non è solo un’arte. E’ un modo di vita (potremmo dire, ‘dimmi come o cosa mangi e ti dirò chi sei’), il mezzo per mantenere idealmente il legame con la sua famiglia (soprattutto con l’amata prozia da cui ha appreso a cucinare guardandola, quando era bambino) e con la sua cultura. E comunque il risultato della cena con Andrea non è stato solo finire la serata a letto con la ragazza: per una serie di cause entrambi perdono il posto e Andrea ha l’idea di lanciarsi, come soci, in un’impresa di catering. Sarà la Love Food, le loro cene a domicilio serviranno come terapia per le coppie in crisi, perché il menu consisterà di una serie di piatti preparati con sostanze naturali afrodisiache- Andrea è stata la prima a sperimentarne l’effetto. Unica condizione posta da Maravan: le coppie dei clienti devono essere sposate.

     Che il tema del cibo in quanto metafora per l’amore e per il gusto della vita sia stato ampiamente sfruttato nella letteratura e nel cinema- ricordiamo l’ineguagliabile “Pranzo di Babette” tratto dalla novella di Karen Blixen, il selvaggiamente cruento “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” di Peter Greenaway, il più delicato “Mangiare bere uomo donna” di Ang Lee o il più popolare e recente “Chocolat”- è cosa risaputa. Però Martin Suter sovverte in più di una maniera le regole del genere, scrivendo un romanzo insolito, pervaso di umorismo (una qualità per cui gli svizzeri non sono di certo famosi), divertente, leggero eppure tremendamente serio nel problema etico che affronta.

    “Il talento del cuoco” mette due culture  a confronto, e tuttavia lo sforzo per adeguarsi è soltanto da parte degli orientali- e non è unicamente perché sono ospiti nel paese che li ha accolti, piuttosto per la perenne convinzione occidentale di essere i migliori. Capovolgendo lo stereotipo, è Andrea ad essere gay (ecco spiegato il motivo per cui è certa del successo di Love Food) lasciando Maravan a dir poco perplesso quando glielo rivela. Tuttavia, se Maravan tende a pensare che le donne indiane mai si comporterebbero così, deve rivedere le sue idee quando conosce Sandana, la bella tamil che se ne va di casa perché non vuole sposare l’uomo che la famiglia ha scelto per lei. Sandana è nata in Svizzera, non vorrebbe tornare in una patria che non conosce, si ribella ai genitori ma non assomiglia affatto alle donne occidentali. Forse è il meglio dei due mondi. E Maravan merita il meglio. E’ un gran lavoratore perché ama il suo lavoro. Poco importa se non può concedersi varianti nel ‘menù del sesso’, Maravan crea ogni portata come se fosse la prima volta, con un istinto che non lo fa mai sbagliare. Maravan non ha ambizioni di ricchezza per sé: spedisce soldi a casa perché le notizie che arrivano dallo Sri Lanka sono tremende. Imperversa la guerra tra le Tigri Tamil e l’esercito, un suo giovanissimo nipote è stato reclutato come soldato-bambino, la prozia ha bisogno di medicine costose. Se Maravan scende a patti con la sua coscienza, facendo qualcosa che va contro i suoi principi, se viene meno alla condizione che è stato proprio lui a stabilire- cibo d’amore solo per coppie sposate-, lo fa perché non ha altre soluzioni. Per comprare la salute della prozia, per strappare il nipote alle Tigri.


     Lo sfondo del bel romanzo di Suter è lo scenario mondiale della crisi economica del 2008-2009, mentre Obama vince il suo primo mandato. Come per l’effetto farfalla, decisioni prese mangiando il cibo preparato da Maravan hanno conseguenze che spaziano dalla Svizzera all’America allo Sri Lanka. E, quando Maravan viene a conoscenza di una frazione di quanto accade, di come l’andamento della guerra civile nella sua patria possa derivare da traffici di persone che gustano il suo cibo d’amore, la sua coscienza gli impone un’azione contro- coscienza. Il finale è grandioso, viene voglia di applaudire. E non abbiate timore: Suter (o Maravan) non vi lascia a bocca asciutta, le ricette del menù d’amore sono nell’appendice.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


martedì 23 febbraio 2016

Martin Suter, “Montecristo” ed. 2016


                                                          Voci da mondi diversi. Svizzera
                                                               cento sfumature di giallo
   FRESCO DI LETTURA


Martin Suter, “Montecristo”
Ed. Sellerio, trad. Marina Pugliano, pagg. 286, Euro 16,00


       Chi non conosce il protagonista del famoso romanzo di Dumas, l’Edmond Dantès che diventa conte di Montecristo? La sua è una storia di avventure, con la fuga rocambolesca dall’isola su cui è imprigionato e poi gli anni passati a preparare la vendetta contro chi era stato la causa delle sue sventure. E’ un soggetto che può essere rimaneggiato e ambientato in altri contesti- è quello che intende fare Jonas Brand, videoreporter con un sogno nel cassetto, girare un film come regista trasportando la storia del conte di Montecristo nelle carceri di Bangkock. Non ha mai trovato nessun finanziatore, però, e deve accontentarsi di fare del giornalismo di bassa lega. Finché…
     Tutti gli avvenimenti che si succedono a ritmo serrato sembrano non avere connessione l’uno con l’altro, in questo intelligente e ottimo thriller bancario dello scrittore svizzero Martin Suter. Si inizia con l’arresto in galleria del treno Intercity per Basilea su cui sta viaggiando Jonas. Qualcuno ha tirato il freno di emergenza, una persona è caduta sui binari. Un suicidio? Jonas fa delle riprese veloci con la videocamera, registra frasi ciniche, accantona l’episodio. Poco tempo dopo Jonas (un matrimonio fallito alle spalle) incontra un’affascinante ragazza dai tratti asiatici che lavora per un’agenzia che organizza eventi- colpo di fulmine per entrambi. E gli capita una cosa strana: si ritrova in mano due banconote da cento franchi svizzeri con lo stesso numero di serie. Secondo la banca che le ha emesse, sono entrambe autentiche. Come è possibile?
Da questo momento la vicenda acquista velocità, diventa nerissima anche se la città si imbianca di neve. Jonas ha mostrato le banconote solo a un paio di persone in banca e subito dopo qualcuno ‘visita’ il suo appartamento, mettendo tutto sossopra. Non basta: Jonas stesso viene aggredito per strada e la polizia pensa che lui sia un mitomane. Ancora più inquietante: l’ingenuo e fiducioso (non lo sarà più per molto) Jonas ha messo le banconote nella cassetta di sicurezza in banca e, guarda un po’, ad un successivo esame una delle due banconote risulta falsa. E adesso ipotizzate l’impensabile: se una banca deve coprire un grosso ammanco, la via più facile non è forse emettere una doppia serie di banconote con lo stesso numero? Statisticamente, quante sono le possibilità che ne capitino due uguali in mano alla stessa persona e che questa se ne accorga? A questo punto soltanto il nostro Jonas può continuare a credere che a lui- che se ne è accorto e potrebbe far esplodere la bomba- non possa succedere nulla perché, dopotutto, siamo in Svizzera, giusto? E Jonas cerca la consulenza di un giornalista economico ormai fuori dal giro.
    Questa è soltanto la prima parte di una trama che procede allacciando tutti i diversi episodi a cui ho accennato- l’uomo caduto dal treno, il film per cui spunta miracolosamente un finanziatore, le banconote, il giornalista grassone, perfino il nuovo amore di Jonas. Dall’algida Svizzera all’infuocata Bangkock, dalla città ad una fattoria sperduta nella neve, e intanto si accumulano parecchi morti, inevitabili perché il fine giustifica i mezzi, perché, come fa notare un banchiere a Jonas, “ha idea di quante vite umane costerebbe la crisi che invece verrebbe evitata?”- evitata se Jonas acconsente a distruggere la chiavetta usb che è rimasta a lui, dinamite, come l’ha chiamata nel suo file il giornalista amico di Jonas.


    I lettori come me, ingenua quanto Jonas Brand, avrebbero preferito non sapere, continuare a credere di potersi fidare del sistema bancario (nonostante le prove che abbiamo già avuto), pensare che un romanzo come “Montecristo” sia pura distopia di un mondo impossibile. E invece, con lo stesso humour nero che già abbiamo apprezzato ne “Il talento del cuoco”, Martin Suter spalanca per noi le porte blindate delle banche svizzere, ci fa entrare nella stretta cerchia dei consulenti finanziari internazionali, ci toglie qualunque illusione che, nel mondo dei soldi e del potere, il fattore umano possa essere tenuto in considerazione.

la recensione sarà pubblicata anche su www.stradanove.net


lunedì 22 febbraio 2016

Glenway Wescott, “Appartamento ad Atene” ed. 2003

                               Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
        seconda guerra mondiale
         il libro ritrovato


Glenway Wescott, “Appartamento ad Atene”
Ed. Adelphi, trad.Giulia Arboreo Mella, pagg. 246, Euro 15,50 


     L’inizio del romanzo fuga immediatamente qualunque idea possiamo avere avuto, suggestionati dal cinema, che si tratti del romanzo di una passione consumata dietro la porta di un appartamento. Una passione sì, ma diversa da quella che immagineremmo. “Tutto questo accadde a una famiglia greca, gli Helianos.”: il tono è di chi sta per raccontare una storia vera, la nuda sobrietà e l’uso del tempo passato suggeriscono che quanto accadde fu drammatico. Segue la presentazione della famiglia Helianos: prima della guerra, lui era stato socio e redattore di una casa editrice; lei era stata bellissima e ora soffre di cuore; un figlio morto in guerra, un altro maschietto di 12 anni un po’ esaltato, una bambina leggermente ritardata.
E’ il 1942, Atene è occupata, i tedeschi requisiscono gli alloggi e il capitano Kalter prenderà dimora presso gli Helianos. La famiglia è relegata in due stanze, le altre due sono riservate per il capitano. Anche il bagno è a suo uso esclusivo, loro scenderanno in cortile. Inizia così la versione privata dell’occupazione tedesca, l’imporsi dispotico e lunatico del capitano, l’abuso quotidiano di potere, il piacere perverso di umiliare i propri simili. Giorno dopo giorno aumentano le richieste del tedesco: la vecchia domestica deve essere licenziata perché puzza; gli avanzi del capitano devono essere dati a un cane; Helianos deve sfilargli gli stivali, di notte deve portargli il pitale e svuotarlo. Gli Helianos tacciono, obbediscono, gli pare di essere in vacanza quando il capitano va in Germania per un congedo. Quando torna non è più lo stesso, smagrito, triste. Soprattutto gentile. Si interessa a loro, rifiuta i loro servizi, non grida più. E’ un altro, ma c’è da fidarsi? Sarà un tranello? Forse la Germania sta perdendo? Forse prova rimorso per le efferatezze compiute dai tedeschi? Inizia una terza fase dei suoi rapporti con loro: permette a Helianos di passare la sera nel salotto- in fin dei conti è casa sua, no?
E adesso parla, il capitano Kalter, prima della morte della moglie e dei due figli, poi discorsi megalomani sulla grandezza della Germania che sta nella grandezza della sua ambizione, i tedeschi non temono il destino perché sono loro stessi il destino. Si avvicina il punto di rottura, Helianos dice una frase imprudente: è la fine, oltraggio al Führer, arresto per Helianos. Seguiranno altre tragedie, non illudiamoci, nessuno cambia mai, il capitano ha preparato una vendetta raffinata. Pubblicato per la prima volta nel 1945, il libro di Wescott ritorna su un argomento dolente degli anni di guerra, l’occupazione, trattato anche negli stessi anni dal francese Vercors in un racconto di poche pagine, “Le silence de la mer”: dove in Vercors c’è la risposta di un gelido immutato silenzio a qualunque tentativo di avvicinamento da parte dell’inquilino tedesco, Glenway Wescott costruisce un’atmosfera di tensione, è un maestro nel suggerire la minaccia presente nel quotidiano, nell’accumulare nuvole di tempesta prima che si aprano le cataratte del diluvio.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net








domenica 21 febbraio 2016

Kent Haruf, “Canto della pianura” 1 ed. 2015

                                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                       romanzo 'romanzo'
   FRESCO DI LETTURA


Kent Haruf, “Canto della pianura”
Ed. NN, trad. Fabio Cremonesi, pagg. 301, Euro 15,30


      Non potevo aspettare. Ho terminato di leggere “Benedizione” e ho incominciato subito “Canto della pianura”: un chiaro caso di sindrome di astinenza da Kent Haruf, una volta che l’ ho scoperto. Un’osservazione sui titoli dei libri di Kent Haruf, essenziali come il suo stile, come le sue storie: Plainsong, l’originale di “Canto della pianura”, è anche il canto monacale, inebriante nella sua nudità, ed è, sì, il canto della pianura da cui Haruf trae gli accordi per i suoi romanzi, illuminando di una fascino antiquato la sua cittadina fittizia di Holt (si è ispirato a Yuma, in Colorado, dove ha vissuto negli anni ‘80 del 1900), Eventide è il titolo del libro che chiude la trilogia e che deve ancora essere tradotto- ‘sera’, ma anche ‘vespro’, ricco di suggestioni che lo collegano alla musica di Plainsong e alla meditazione sull’ultimo mese di vita di Dad Lewis, su ‘quel che resta del giorno’, per dirlo con il titolo del bellissimo romanzo di Kazuo Ishiguro.

    Anche in “Canto della pianura” seguiamo diversi filoni narrativi che si intrecciano con le storie di persone che abitano a Holt- il professore di Storia americana Guthrie, i suoi figli Ike e Bob, di dieci e nove anni, la diciassettenne Victoria, per metà di sangue indiano, e gli anziani fratelli McPheron. Posso darvi alcuni indizi su quello che accade- tanto e poco. Guthrie ha una moglie che soffre di depressione e che se ne va di casa (ma il matrimonio è già finito), deve affrontare un alunno difficile che pretende di essere promosso per andare al college, ma non ha mai studiato (e i genitori, rozzi e ignoranti quanto lui, lo spalleggiano), troverà infine un nuovo amore. I due ragazzini soffrono per l’allontanamento dalla madre e fanno le prime scoperte sulla vita (le sigarette, il sesso, trovare una donna morta). Victoria viene messa fuori casa dalla madre perché è incinta e una sua insegnante chiede per lei ospitalità presso i fratelli McPheron. Questi sono due personaggi straordinari, il ‘tesoro’ del libro. Non hanno potuto studiare, si intendono di vacche, non sanno nulla di ragazze giovani e tanto meno di ragazze incinte- forse, però, la nascita di un bambino non è tanto diversa da quella di un vitello. Commuove vedere come i due uomini, non più giovani, certamente non spinti da alcun motivo egoistico, si addolciscono, si prodigano perché Victoria si trovi bene, stia bene, sia felice. Si sforzano di fare conversazione con lei, lambiccandosi il cervello per trovare un argomento (sono teneri e buffi), la accompagnano a comprare una culla (e deve essere la più bella). Eppure il mondo è buio, è più facile pensare il Male che il Bene, quello che i McPheron stanno facendo è incomprensibile ai più che si domandano perché. Si diffonderanno pettegolezzi, qualcuno arriva a chiedere se facevano i turni con la ragazza- la meschinità e la grettezza, non hanno limiti.


Tutto qui? Sì, tutto qui, c’è un finale per ognuna delle storie, il coro di voci si distende in armonia. Ma è un libro che si deve leggere per capirne la bellezza. Ho pensato ad altri scrittori della quotidianità- a Elizabeth Strout e Alice Munro, a John Williams, che non hanno bisogno dell’extra-ordinario per scrivere libri straordinari. Ho anche pensato che forse la letteratura americana è spaccata in due- da una parte gli scrittori di best seller, quelli che sfornano un libro dopo l’altro con un occhio al mercato, e dall’altra gli autori di capolavori, di gemme preziose che illuminano la mente e il cuore dei lettori. Come Kent Haruf.


sabato 20 febbraio 2016

Kent Haruf, “Benedizione” ed. 2015

                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
            romanzo 'romanzo'
             FRESCO DI LETTURA


Kent Haruf, “Benedizione”
Ed. NN, trad. Fabio Cremonesi, pagg. 277, Euro 14,45

    Come parlare di un romanzo bellissimo in cui non accade nulla? O meglio, non accade nulla di strabiliante, accade la vita, il quotidiano della vita. A Dad Lewis viene diagnosticato un tumore, la figlia prende un periodo di permesso dal lavoro per stare vicino a lui fino alla fine insieme alla madre Mary, moglie di Dad. Un nuovo pastore è arrivato nella chiesa, un suo sermone fa infuriare i cittadini, sarà costretto ad andarsene- anzi, abbandonerà il ministero. Una bambina che ha perso la mamma viene ad abitare con la nonna e sarà presa sotto l’ala protettrice di una signorina non più giovane che vive con la madre. Tutto qui, eppure, forse, è l’essenzialità stessa del romanzo di Kent Haruf che lo rende straordinario.
     Il luogo è Holt, Colorado, ma potrebbe essere qualunque cittadina nell’immensa pianura. Il tempo non è precisato, di certo dopo l’11 di settembre del 2001, visto che si parla della guerra in Afghanistan, ma, se non fosse per quello, potrebbe essere un tempo qualunque, lontano o vicino agli anni che stiamo vivendo.
Un uomo sta morendo. E’ un uomo integro, onesto, corretto. Si gira indietro e considera le azioni della sua vita- dove ha sbagliato? c’è ancora tempo per rimediare? E’ un brav’uomo, Dad Lewis, altrimenti non sarebbe curato con tanto affetto dalla moglie e dalla figlia, non sarebbe così rispettato dai due uomini che lavorano con lui nel suo negozio di ferramenta. Eppure ha fatto degli errori anche lui, che tutti chiamano Dad da quando è diventato padre. Ha anche un figlio, Dad, oltre alla figlia. Però non vede Frank da tantissimi anni, non sa neppure dove sia. Frank era un ragazzino quando il padre lo aveva visto fare dei giochi strani con un altro ragazzo. Ed era stato durissimo con lui. Più tardi, a scuola, Frank era stato preso di mira per i suoi orientamenti sessuali. Frank era andato via di casa. L’integrità deve per forza accompagnarsi a questa rigidezza? Quando Dad aveva scoperto che il suo aiutante nel negozio rubava regolarmente dagli incassi, lo aveva licenziato sui due piedi, senza accettare l’offerta della restituzione del denaro. L’uomo si era poi suicidato.
    Il reverendo Lyle ha qualcosa della correttezza estrema di Dad. Era stato mandato via da Denver per un sermone in cui prendeva le parti di un omosessuale- dopo aver letto questo penseremmo che ecco, Lyle è la controparte di Dad e invece, no, c’è dell’altro, il messaggio di Haruf non è semplicistico. Il sermone di Lyle si incentra sulle parole di Cristo che invita a porgere l’altra guancia a chi ci ha colpito: dobbiamo pensare che Cristo parli per simboli o che intenda veramente quello che dice? Perché l’America allora sta percorrendo un sentiero di guerra senza fine? La reazione dei fedeli è violenta, Lyle viene insultato, accusato di essere un simpatizzante dei terroristi, la chiesa si svuota.

    “Benedizione” non è un romanzo che offre soluzioni. In questa ‘sottotrama’, come in quella principale (ma ho dei dubbi sul fatto che quella di Dad sia la trama principale, tanto sono collegate le due storie di prese di posizione e ripensamenti), così come nella terza trama che ha per protagonista la bambina orfana di mamma che scopre il mondo con la bicicletta viola che le hanno regalato (un personaggio polarmente opposto a quello del vecchio che si accomiata, invece, dal mondo), ci sono spunti di riflessione, quesiti più o meno importanti- come comportarci nei confronti di un figlio che ci delude, della moglie, di un collega, di un vicino, di un amico, di chi non capiamo perché diverso da noi- che dovremmo porci, se già non lo abbiamo fatto. E l’essenzialità di queste storie si riflette nell’essenzialità dello stile spoglio di Kent Haruf- una sorta di versione in prosa degli haiku. Limpido e naturale. Come i dialoghi, che sono di una semplicità bellissima.

     Per uno scrittore di ‘gialli’ è facile mantenere alta la tensione della lettura. Quando in un altro genere di romanzo che non punta sul sensazionalismo le pagine non sono mai abbastanza, quando non si riesce a staccarsi dal libro, vuol dire che lo scrittore è bravissimo. Rendiamo omaggio a Kent Haruf, scrittore che purtroppo abbiamo conosciuto troppo tardi- è morto nel novembre del 2014, a 71 anni.