martedì 29 aprile 2014

Irène Némirovsky

                                                 un autore                            

Nata a Kiev nel 1903 e morta ad Auschwitz nel 1942, Irène Némirovsky deve la sua fama alla dedizione della figlia Denise che ha recuperato i suoi scritti in un baule e ne ha curato la pubblicazione. Il suo romanzo più bello resta "Suite francese", io ripropongo anche la lettura di altri tre, "Il ballo", "David Golder" e "Jezabel"

Irène Némirovsky, "Il ballo"

                                             
                                                                                                        audiolibro 

    Irène Némirovsky, "Il ballo"
    emons audiolibri, legge Sonia Bergamasco, durata 1 ora e       29 minuti, versione integrale, Euro 9,90
  

Resto nel dubbio se io possa dire che oggi ho 'letto' o riletto "Il ballo" di Irène Némirovsky. Perché, in realtà, complice un fortissimo raffreddore che mi rendeva difficoltosa la lettura, ho messo nel lettore il cd del romanzo della Némirovsky e...sorpresa! Mi è parso ancora più bello della prima volta che l'ho letto (rigorosamente in edizione cartacea), assolutamente delizioso. Perché sembra di essere a teatro, le parole acquistano un significato più profondo, ne scaturisce una musica- va da sé che l'attrice Sonia Bergamasco è una bravissima lettrice. Per chi avesse dei dubbi: un audiolibro è un ottimo compagno, uno splendido surrogato del libro da tenere in mano, una soluzione per chi ha problemi di vista o, più semplicemente, è occupato a fare qualcosa che però gli permette di seguire la lettura che qualcun altro fa per lui.
Per la recensione de "Il ballo" vi rimando al prossimo post.

Irène Némirovsky, "Il ballo"

                                                                                                       il libro ritrovato
                             


Irène Némirovsky, “Il ballo”
Ed. Adelphi, trad. Margherita Belardetti, pagg. 83, Euro 7,00

   A volte ci sono dei libri che, appena pubblicati, sfuggono alla nostra attenzione, poi un libro successivo dello stesso autore risveglia la nostra curiosità, riprendiamo in mano quello che avevamo tralasciato e scopriamo un tesoro. Così è per “Il ballo” della scrittrice francese Irène Némirovsky, pubblicato per la prima volta nel 2005 e arrivato adesso alla sesta edizione, sull’onda dell’interesse suscitato dal bellissimo “Suite francese”.
    “Il ballo” è un racconto lungo, che concentra in meno di cento pagine il ritratto di due personaggi, un frammento di vita, la descrizione di un ambiente. Nella scena di apertura la signora Kampf entra nella stanza dove la figlia sta studiando e quattro dettagli ci aiutano ad inquadrare la persona: la signora Kampf si sbatte alle spalle la porta in maniera così violenta da far tremare il lampadario di cristallo, si piazza davanti alla figlia a braccia conserte, la sgrida perché non si è alzata (“Hai il didietro incollato alla sedia?”), chiama ad alta voce l’istitutrice inglese solo con l’appellativo “Miss”. E’ subito chiaro che la signora Kampf può anche essere ricca ma non è certamente raffinata. Ci viene detto dopo che, in un tempo neppure troppo lontano, il signor Kampf era prima solo un usciere di banca, poi impiegato e si era infine arricchito con delle fortunatissime speculazioni in borsa. La figlia Antoinette ha quattordici anni, l’età ingrata in cui si è goffe e si sogna l’amore e sembra irraggiungibile.


    Un ballo: la signora Kampf vuole dare un ballo, inviterà duecento persone, gente che conosce a malapena, ma che importa, è gente con soldi e non interessa come li abbiano fatti (come lei e il signor Kampf del resto). Quello che importa è che vedano lo splendore della casa, dei mobili e dei soprammobili, dei gioielli. L’orchestra che suonerà e i camerieri in livrea. I piatti di ostriche e le altre prelibatezze. Verrà invitata anche l’insegnante di musica di Antoinette, perché è lei che spargerà le voci della loro grandezza fra i parenti della signora Kampf che avevano tanto disprezzato l’ebreuccio che aveva sposato. E no, Antoinette non prenderà parte al ballo, anzi, dormirà nel ripostiglio.

     Queste sono le premesse, al lettore scoprire il resto di questo racconto raffinatamente delizioso in cui non succede- letteralmente- nulla e però vengono esplorati i sentimenti di ambizione (è comicamente patetica la signora Kampf che si dispera ad ogni rintocco della pendola), di gelosia (quanti anni più di Antoinette può avere la signorina inglese che si incontra con l’innamorato dopo aver accompagnato la ragazza a lezione?), di risentimento (Antoinette rimpiange i tempi in cui, prima di arricchirsi, sua madre era affettuosa con lei). E la vendetta finale giunge quasi come una sorpresa a chi l’ha preparata con un gesto veloce. Al lettore anche immaginare il seguito- solo un paio di flash nel futuro ci riportano mozziconi di frasi di Antoinette, “Oh, ero una ragazzina terribile, sai?”.

la scrittrice Irène Némirovsky                

Irène Némirovsky, "Suite francese"- 2005

                                                                                                        il libro ritrovato         


Irène Némirovsky, “Suite francese”
Ed. Adelphi, trad. Laura Frausin Guarino, pagg. 415, Euro 19,00

Comunica una sensazione strana, un libro che ci arriva dal passato. Siamo abituati alle voci sempre presenti dei grandi scrittori che ci hanno accompagnato per secoli con le loro parole, ma un tono mai sentito in precedenza, così distinto, chiaro e forte, crea l’impressione di una presenza vicino a noi e insieme lontana, che ci fa vivere nel suo tempo che è diverso dal nostro. Una storia straordinaria dietro ad un libro straordinario, la “Suite francese” di Irène Némirovsky, nata a Kiev da famiglia ebraica nel 1903, fuggita con i genitori nel 1918 prima in Finlandia, poi in Svezia e infine in Francia, dove sposò Michel Epstein nel 1926. Durante la guerra Irène Némirovsky fu deportata prima a Pithivier e poi ad Auschwitz, dove morì nel 1942. Le sue due bambine riuscirono a salvarsi, anche se sempre in fuga, nascoste da persone compassionevoli. Non abbandonarono mai la valigia in cui la madre aveva messo i suoi manoscritti, senza avere però la forza di leggerli, meno che mai quando la guerra finì e loro iniziarono ad aspettare ogni giorno un ritorno impossibile, sui marciapiedi dei treni che scaricavano pallide ombre.
     Solo mezzo secolo dopo avrebbero letto, con la lente di ingrandimento, quelle carte, decifrando i caratteri che parevano file di formiche sui fogli. Si trattava dei due primi romanzi di quella che doveva essere come una sinfonia in cinque parti, “Tempesta di giugno” e “Dolce”, in cui Irene Némirovsky racconta la guerra in Francia. Non la guerra dei soldati, non i retroscena politici della guerra, ma la guerra vissuta dalla gente comune che si trova a fronteggiare situazioni nuove ed estreme, ed ognuno reagisce secondo la sua natura, tirando fuori il meglio o (forse più spesso) il peggio di sé. O semplicemente mostrandosi semplicemente come è.

     La “Tempesta di giugno” è lo sconvolgimento provocato dall’occupazione di Parigi da parte dei tedeschi: i parigini fuggono, in un esodo che ricorda quello dei moscoviti in “Guerra e Pace” che abbandonano la città in mano di Napoleone. E non è un caso che proprio Tolstoj venga spesso nominato nelle annotazioni che la Némirovsky faceva nelle pagine a fianco di quelle in cui scriveva il testo del romanzo e che sono riportate in appendice, “rileggere Tolstoj. Indispensabili le descrizioni, ma non storiche”, perché “la guerra finirà e tutta la parte storica sbiadirà”. Una massa di persone che si muove come un fiume in piena, e l’attenzione della scrittrice si ferma su alcuni personaggi, i Péricand, ricchi borghesi che mettono in salvo mobili, argenteria, biancheria e partono con il seguito di domestici, il collezionista a cui importano solo i suoi preziosi oggetti, lo scrittore Corte e i suoi manoscritti, il banchiere e la sua amante. 
                                                                               

Ma le strade sono ugualmente intasate per tutti, manca la benzina, gli alloggi per riposarsi lungo il percorso della fuga sono pieni, gli alimentari scarseggiano. Non c’è scampo allo sguardo attento e impietosamente rivelatore della Némirovsky che ritrae meschinità ed egoismi. C’è solo la coppia di impiegati, i Michaud, che mantiene la propria dignità e umanità e riappare in un ruolo secondario nel secondo romanzo, “Dolce”: una storia più intima e circoscritta, l’amore tra la francese Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua casa. Un rapporto mai consumato in cui prevale la dolcezza, appunto, un’intesa di sentimenti e di inclinazioni, un’affinità spirituale che induce a dimenticare che il tedesco è il nemico di oggi e di ieri. Non possiamo che rimpiangere che Irène Némirovsky non abbia potuto scrivere gli altri tre romanzi che aveva in mente e che avrebbero completato la sinfonia letteraria.


la scrittrice Irène Némirovsky   

                                                           

Irène Némirovsky, "David Golder"- 2006

                                                                                                        il libro ritrovato


Irène Némirovsky, “David Golder”
Ed. Adelphi, trad. Margherita Belardetti, pagg. 180, Euro 16,00


    Già nel delizioso romanzo breve “Il ballo” avevamo incontrato un personaggio simile al David Golder di questo romanzo di Irène Némirovsky, dato alle stampe per la prima volta nel 1929 e appena ripubblicato adesso da Adelphi. Un neo-ricco, un uomo che si è fatto da sé. E dietro di lui una famiglia vampiresca, assetata di soldi, smaniosa di vivere in un mondo luccicante, in mezzo a gente che spesso ha uno splendido nome ma è senza soldi e vive alle spalle degli allocchi che si beano nella loro luce riflessa.
   “David Golder” è, tuttavia, un romanzo più articolato de “Il ballo”, e l’attenzione è focalizzata sul protagonista stesso, piuttosto che sulla moglie o sulla figlia. La trama è lineare, la storia è quella di una morte annunciata, perché David Golder ha un primo infarto all’inizio del libro. Resta a vedere chi la spunterà nella duplice lotta dell’anziano leone, contro il mondo degli affari dove la sua fortuna è altalenante e molto spesso vicina all’abisso, e contro la sua famiglia. David Golder (un nome che tintinna di denaro) ha una moglie, Gloria (ma quando era una povera ragazza ebrea si chiamava Havké), e una figlia diciottenne, Joyce, che lui chiama “Joy”, la gioia della sua vita. Finché la moglie gli dice- e Golder va indietro al passato e le crede immediatamente- che la sua Joy è figlia di un altro.         
    Sono gli splendidi anni ‘20, in America c’è il proibizionismo ma in Francia l’alcol scorre, la villa a Biarritz dei Golder è piena di gente, Gloria e Joy sfoggiano abiti di seta, gioielli, Joy vuole una Bugatti, vuole sposare un nipote dello zar: lei ci metterà i soldi, lui il suo titolo oltre alla sua scostumatezza, ma è giovane e bello. E il medico non può dire che David Golder deve smettere di lavorare se ci tiene alla sua vita, i soldi comprano anche un verdetto diverso dal dottore.                                                                      

   Il quadro che Irène Némirovsky ci dipinge è accurato, con i riflettori sulle donne false e vacue, l’una maturamente cattiva, l’altra giovanilmente egoista e civetta, mentre David Golder è un personaggio tanto più affascinante nella sua cupezza, che la scrittrice scandaglia in ogni sua piega. E’ la parabola dell’ebreo errante che è circondato da amici finché ha qualcosa da dare e poi si ritrova solo, dell’uomo di cui la moglie spietatamente osserva- accentuandola come in una caricatura grottesca- la fisionomia da usuraio ebreo e che però è capace di ultimi grandi attimi di generosità con quel viaggio che si carica di simboli, riportandolo nei luoghi dove è iniziata la sua vita. E dove terminerà, su un mare che è come i flutti dell’Acheronte, accanto ad un giovane che sta per iniziare una ripetizione della sua avventura e che sogna la ricchezza e l’America. “Alla fine si crepa,” lo avverte Golder, “soli come cani, così come si è vissuti…”

    Non sono grande letteratura, i romanzi della Némirovsky. Hanno le caratteristiche dei feuilleton, ma sono dei bellissimi feuilleton.

la scrittrice Irène Némirovsky
                                                      

Irène Némirovsky, "Jezabel"- 2007


                                                                                                        il libro ritrovato

Irène Némirovsky, “Jezabel”
Ed. Adelphi, trad. Laura Frausin Guarino, pagg. 194, Euro 16,50

      C’è sempre qualcosa di rapace nelle donne dei romanzi brevi di Irène Némirovsky, la scrittrice ebrea francese riscoperta di recente. C’è un’avidità di denaro o di vita o di successo mondano. Così era per la madre ne “Il ballo”, o per la figlia di David Golder nel romanzo con questo titolo. Così è per Gladys Eysenach, la protagonista di “Jezabel”. Ed il titolo anticipa la fame del personaggio: Jezabel, la seduttrice dei testi sacri, diventata la donna “cattiva” per antonomasia, mangiatrice di uomini, mai paga delle conquiste maschili. C’è qualcos’altro ancora in Gladys Eysenach, perché il potere di seduzione che esercita è solo una costante riprova della sua bellezza e del suo fascino, e Gladys ha bisogno di questa prova perché Gladys è come Narciso, innamorata solo di se stessa. Legare a sé un uomo, vederlo ai suoi piedi, è per Gladys secondario: la cosa più importante è vedersi riflessa in tutto il suo splendore negli occhi dell’uomo.

  Gladys aveva della propria bellezza una consapevolezza profonda, che non l’abbandonava mai e le dava una pace interiore in ogni momento della giornata. La sua vita era semplice: vestirsi, piacere, incontrare un uomo innamorato, e poi ancora vestirsi, piacere…

     Il romanzo inizia dalla fine, dall’aula di tribunale a Parigi in cui si svolge il processo a Gladys Eysenach, accusata di aver ucciso il giovane Bernard Martin. E’ inutile che la difesa si sforzi di trovare delle attenuanti, non serve che l’accusa martelli di domande Gladys, diafana e sempre bella nonostante la reclusione, per capire quale fosse il suo rapporto con l’uomo a cui ha sparato. E mentre i testimoni sfilano accumulando dettagli sulla vita della donna- cresciuta con la madre, ospite di una cugina a Londra per un breve periodo, andata sposa giovanissima, una figlia morta, un secondo matrimonio, viaggi in tutto il mondo, di recente un amante italiano che aveva però rifiutato di sposare, visite in una casa di appuntamenti, e poi questo ragazzo che lei si recava a trovare anche se il letto non appariva mai sfatto-, Gladys tace. Riconosce soltanto di aver sparato a Bernard Martin, e che sia finito tutto presto.       
A questo punto la storia si riavvolge su se stessa e incomincia dall’inizio, dando un ordine a tutte le dicerie, mettendo insieme i pezzi del puzzle. La Gladys che appare assomiglia un poco alla indimenticabile Fanny (persino i nomi hanno una certa somiglianza) del romanzo “Mr. Skeffington” di Elizabeth von Arnim: entrambe donne bellissime che non tollerano il pensiero di invecchiare, che si tolgono gli anni in una finzione a cui finiscono loro stesse per credere. Ma in Gladys non c’è quell’umana capitolazione che abbiamo visto in Fanny, Gladys è capace di fermare anche l’età della figlia in un’eterna fanciullezza purché nessuno sappia che lei è madre di una giovane in età da marito. Quanto poi alla possibilità di diventare nonna…no, è escluso. E’ una sorta di patto faustiano, quello che Gladys stringe con il diavolo. Come il dottor Faustus di Marlowe, la ritroviamo ad invocare una manciata di anni di finta giovinezza, no, le bastano dei mesi, ma che non si sappia la sua età, intanto nessuno potrebbe mai indovinarla. Finché appare sulla scena il giovane Bernard Martin, e qui non diciamo altro sulla trama del libro.
    Si è già detto altrove che i romanzi della Némirovsky hanno del feuilleton, ricamano storie che non contengono nulla di nuovo di per sé, ma l’abilità e la finezza con cui tratteggia i suoi personaggi, la sospensione leggera che inserisce nelle vicende per farle terminare con un finale sorprendente, la padronanza e la sottigliezza del linguaggio fanno di lei una grande e godibilissima scrittrice. Sempre un grande piacere leggerla.

la scrittrice Irène Némirovsky       
                                                   

                                                                         

domenica 27 aprile 2014

Tew Bunnag, "Cortina di pioggia" ed. 2014

                                                     Voci da mondi diversi. Asia
                  fresco di lettura


Tew Bunnag, “Cortina di pioggia”
Ed. Metropoli d’Asia, trad. M. Martignoni, pagg. 184, Euro 14,50
   

Una città, Bangkok. Uno scrittore, Tarrin Wandee. I personaggi del suo libro, Sompop, un importante uomo politico, Taew, che è stata l’amante di Tarrin e poi la moglie di Khun Prayat, Mae Jom, che faceva la cameriera quando, negli anni ‘70, è rimasta incinta di un soldato americano, Nai Pot, prima autista di Sompop e poi di Prayat. Una donna inglese, Clare, direttore editoriale che si trovava a Bangkok nel 1972. Il tempo che passa e che cambia luoghi e persone. L’acqua, infine, che avanza, dal cielo o dalla terra, minacciosa e distruttrice, lungo il corso del libro “Cortina di pioggia” di Tew Bunnag. Sono questi gli ingredienti del romanzo- molto bello- dello scrittore tailandese.

   Forse è proprio l’acqua il filo connettore delle tre parti in cui è diviso il libro. L’inizio è a Londra- è il gennaio 2005 e Clare osserva sul televisore le immagini dello tsunami. La casa editrice per cui Clare lavora è interessata all’opera di Tarrin Wandee e, ad un certo punto, Clare, a cui è stato diagnosticato un Alzheimer precoce, parte per Bangkok- ci sono delle cose che deve chiedere a Tarrin, perché lei, Clare, si è riconosciuta nella donna farang che compare nella scena di un litigio tra soldati americani nel libro di Tarrin Wandee che ha ricevuto in lettura. E’ questo l’aggancio tra Occidente e Oriente ed è anche un esempio della tecnica narrativa di Tew Bunnag. I suoi personaggi si muovono dentro e fuori le storie, c’è dapprima una sorta di romanzo breve in cui Tarrin Wandee è lui stesso protagonista nelle vesti di un giornalista che lavora per un ex uomo politico conduttore di un talk show dal titolo “Diciamo la verità”- peccato che il famoso conduttore si riveli essere una menzogna vivente (anzi, una menzogna ormai morta, perché lui, l’omofobo, viene assassinato dal suo amante). E Tarrin si innamora di Taew che poi lo abbandona all’improvviso. Ma Taew riappare dopo, in “Cortina di pioggia”, il romanzo di Tarrin Wandee che sembra essere un romanzo dentro un romanzo, con Tarrin- l’occhio esterno del narratore- che è alcolizzato e che osserva il livello dell’acqua che si alza nelle strade nella peggiore alluvione che Bangkok abbia sperimentato negli ultimi 50 anni (è il 2011).

    Fuori piove ininterrottamente, come del resto sta facendo da settimane. La strada bagnata riflette le luci scintillanti delle insegne al neon dei negozi e dei cartelloni; i fari delle auto si offuscano dietro gli scrosci d’acqua che cadono dal cielo. Un giorno la città sarà sicuramente sommersa dall’acqua.

  C’è tanta amarezza, e c’è voglia di lanciare un allarme, nel libro di Tew Bunnag, così come in quello di Tarrin Wandee. Perché Bangkok è una delle nove città a rischio di scomparire (la nostra Venezia è un’altra, insieme a Miami, New Orleans, Shanghai, per citarne alcune), perché tutta la Thailandia corre il rischio di scomparire- almeno, la Thailandia del passato dove i valori fondamentali erano dignità, generosità e bontà. Tew Bunnag, con la penna di Tarrin Wandee, denuncia l’immoralità ad ogni livello della società thailandese. La Thailandia sta diventando il parco giochi di turisti affamati di sesso, i thailandesi non avranno altra identità che quella di essere oggetto di piacere per gli stranieri. E allora acquistano un significato profondo le storie simultanee delle due donne che non si conoscono, nel 1972 quando la guerra del Vietnam sta per finire rovinosamente per gli americani- Mae Jom che darà alla luce una figlia dal sangue misto e Clare la cui vita cambierà del tutto dopo aver visto il ragazzo che amava e per cui era venuta a Bangkok in un atteggiamento che la sconvolge.
Tutti questi personaggi, Clare, Mae Jom, lo stesso Tarrin, ritornano a Bangkok, in momenti diversi, dopo esserne stati lontani a lungo, e non la riconoscono, e non gli piace quello che vedono. Ugualmente- e per contrasto- l’autista Nai Pot, che non riusciva ad immaginare di vivere altrove, finisce per lasciare Bangkok e tornare nell’Isan, da dove ha origine la sua famiglia e di cui sente nostalgia perfino per la musica che un tempo giudicava primitiva.
    Non sono lineari le storie e non è lineare neppure lo scorrere del tempo in “Cortina di pioggia”. Capita che un personaggio legga della morte di un famoso scrittore e che, però, noi continuiamo a leggere del suddetto scrittore ancora in vita. Capita che Nai Pot accompagni Mae Jom a trovare la figlia molto prima che noi sappiamo alcunché della figlia di Mae Jom.

Il romanzo di Tew Bunnag è un’affascinante esplorazione dell’interazione di thailandesi appartenenti a diverse classi sociali, a tratti graffiante, a tratti nostalgico. Di una complessità intrigante. Da leggere.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net

Tew Bunnag

Tew Bunnag, musica dell'Isan (Isan, My Home) per "Cortina di pioggia"



                                                             Voci da mondi diversi. Asia
                                                              Musica per un libro

Nai Pot, uno dei personaggi del bel libro di Tew Bunnag, "Cortina di pioggia", sente nostalgia 'perfino' della musica dell'Isan, la regione nel Nord-est della Thailandia da cui proviene sua madre. Mi sono incuriosita e sono andata a cercarla.

                                                                                                                

sabato 26 aprile 2014

Zhu Xiao-Mei, "La rivière et son secret" ed. 2013

Voci da mondi diversi. Cina
fresco di lettura


Zhu Xiao-Mei, “La rivière et son secret”
Ed. Laffont, pagg 330, Euro 7,82, ed. 2013
  
    Ho acquistato “La rivière et son secret” di Zhu Xiao-Mei perché era citato da Raul Marcobi, uno dei protagonisti dello splendido libro di Massimo Galluppi, “Il cerchio dell’odio”, che ha rinnovato la mia curiosità nei confronti della Cina. E, di curiosità in curiosità, ho poi cercato- e ascoltato- le Variazioni Goldberg di Bach per la cui esecuzione al pianoforte è famosa Zhu Xiao-Mei. Non si può non restare colpiti dalla perseveranza e dalla forza vitale di questa donna che è passata attraverso dure prove senza perdere di vista quello che più voleva, quello che dava un senso alla sua esistenza- suonare il pianoforte, esprimersi attraverso la musica. Perché Zhu Xiao-Mei, nata a Shanghai nel 1949, riuscì a dare il suo primo concerto, a Parigi, nel 1994: la sua vita era stata travolta dalla Rivoluzione Culturale ed era stata mandata in un campo di rieducazione per uscirne cinque anni dopo. Zhu Xiao-Mei fa parte di quella che lei stessa chiama, nel libro che è la sua autobiografia, la ‘generazione perduta’ della Cina di Mao- la generazione colta nel fiore della giovinezza dal vento della rivoluzione, troppo immaturi per discernere, per non lasciarsi trascinare dall’entusiasmo di quello che sembrava l’inizio di un nuovo mondo, per capire quale enorme perdita si sarebbe lasciata dietro la distruzione di ciò che veniva bollato come ‘vecchio’ o ‘borghese’ ed invece era cultura, era arte, era bellezza.

   Zhu Xiao-Mei aveva incominciato a suonare il pianoforte e a prendere lezioni di musica quando era bambina, sarebbe venuto il giorno in cui era pericoloso possedere un pianoforte, in cui sarebbe stato necessario incriminarlo con un dazibao di denuncia, rinunciare alla musica (anche perché tutti gli spartiti sarebbero stati dati alle fiamme, così come i libri). D’altra parte tradire un pianoforte era meno grave che tradire la propria famiglia o i propri amici in quella incitazione alla denuncia che era la prassi nel regime maoista. E’ proprio dei regimi totalitari plagiare i cittadini per asservirli- Zhu Xiao-Mei era partita per il primo campo di rieducazione (ne avrebbe cambiato parecchi) convinta che fosse necessario e che sarebbe stata un’esperienza positiva. Invece fu un’esperienza orrenda e segnò l’inizio del suo ripensamento. E poi, in una qualche maniera che aveva del miracoloso, Xiao-Mei riuscì a farsi mandare il pianoforte al campo, a nasconderlo in un’abitazione vicina, a suonarlo.

   Il libro “Balzac e la piccola sarta cinese” di Dai Sije ci aveva fatto conoscere lo struggente desiderio di lettura di un gruppetto di studenti condannati alla rieducazione. Leggere per vivere, per continuare a sperare. “La rivière et son secret” sostituisce i libri con la musica- la differenza è solo negli strumenti di espressione, parole e note per far librare lo spirito. Pagine e spartiti per spronare i giovani a resistere, a credere che usciranno da quei recinti, che ci sarà di nuovo un giorno in cui non sarà più un crimine leggere e fare musica. Quello di cui Xiao-Mei si rammaricherà sempre- negli anni difficili che seguiranno, durante il soggiorno negli Stati Uniti prima e poi in Francia- sarà il tempo perduto, la mancanza di istruzione, la privazione delle conoscenze della letteratura, della pittura, di tutte le arti del borghese mondo occidentale.

Il libro non è stato tradotto in italiano. C'è un'edizione in inglese, oltre a quella in francese.

Zhu Xiao-Mei

   
  

    

Zhu Xiao-Mei suona le Variazioni Goldberg di Bach



                                                                  musica per un libro
                                                                  Voci da mondi diversi. Cina

Leggevo l'autobiografia di Zhu Xiao-Mei, "La rivière et son secret", e non mi è stato possibile resistere alla curiosità di 'vederla' e 'sentirla' suonare Bach al pianoforte. Non penso sia possibile a nessuno, dopo aver letto il libro, dimenticare che cosa ci sia dietro la sua musica cristallina.

Andrea Molesini

                                                                               un autore



Andrea Molesini vive a Venezia, dove è nato. Insegna Letterature comparate all'Università di Padova. Con il romanzo "Non tutti i bastardi sono di Vienna" (Sellerio 2010), in corso di traduzione nei paesi di lingua inglese, francese, tedesca, spagnola, olandese, norvegese, slovena, danese e ungherese, nel 2011 ha vinto il Premio Campiello, il Premio Comisso, il Premio Città di Cuneo Primo Romanzo, il Premio Latisana. Nel 1999 vinse il Premio Andersen alla carriera e nel 2008 il Premio Monselice per la Traduzione letteraria. Nel 2013 Sellerio  ha pubblicato il suo secondo romanzo, "La primavera del lupo", in corso di traduzione in francese e tedesco.

Andrea Molesini, "La primavera del lupo" ed. 2013

                                                          seconda guerra mondiale
                                                          il libro ritrovato

                                   

Andrea Molesini, “La primavera del lupo”
Ed. Sellerio, pagg. 295, Euro 14,00

    E all’improvviso non ci sono più le cose che scoppiano, gli spari, e sento il fiato del lupo sulla faccia. Mi giro verso Dario. Sono ancora vivo, dice, e detto da un muto vale di più.
   Karl mette la Luger in tasca e il caldo fiato del mio lupo sparisce così com’era venuto, forse è tornato nel bosco dove nessuno spara a nessuno.
  Sento la mano di Karl che mi solleva che adesso sono in piedi. Le gambe però mi tremano come ranocchie quando fanno rumore nei fossi. Dario mi fa caldo alla faccia con il suo fiato che per fortuna non puzza come quello di Karl che sa di fumo spento.

      “I dieci anni li ho compiuti già da tre giorni e si sa che con il numero 10 si comincia a ragionare come i grandi”: è la voce di Pietro, protagonista de “La primavera del lupo”, il romanzo con cui Andrea Molesini torna a parlarci di guerra, dopo il bellissimo “Non tutti i bastardi sono di Vienna” (vincitore del Premio Campiello 2011), sullo sfondo di quella regione veneta che lui, nato a Venezia, conosce molto bene. La guerra vissuta da Pietro è la seconda guerra mondiale e il grosso interrogativo che gli si presenta è perché mai i tedeschi o le camicie nere debbano avercela con il suo amico Dario che è ebreo e con le sorelle Jesi che per lui fanno un’unica persona che chiama Mauriziada: come è possibile che Maurizia e Ada siano cattive e che abbiano ucciso Gesù- come dice don Rino- se invece sono così buone e aiutano tutti? Quanto a Dario, be’, “se uno deve proprio farla una cosa così grossa come uccidere Gesù mica può essere così scemo da nascere con le orecchie a sventola come due porte aperte perché così non si nasconde.” Pietro, Dario, le due Jesi e una giovane suora sono nascosti nel convento di San Francesco del Deserto, una piccola isola della laguna. Ma è il marzo del 1945, è incredibile che, dopo cinque anni di guerra e milioni di morti, si perda tempo a dare la caccia a donne e bambini, eppure è così- il minuscolo gruppo deve scappare.

    Inizia per loro un viaggio del tutto insolito, una fuga avventurosa che può essere eccitante soltanto, e soltanto in alcuni momenti, per dei bambini, piena com’è di insidie, di pericoli, di trabocchetti e di sorprese. Gli occhi di Pietro vedono il mondo in bianco e nero: ci sono i buoni e ci sono i cattivi. Sono buoni i suoi compagni di fuga, è buono il pescatore dalle mani grandi e i capelli color albicocca (Pietro lo chiama Lirlandese ‘perché Lirlanda è un’isola dove tutti hanno i capelli come le albicocche’) che li fa salire sulla sua barca, è buono Frate Ernesto che non esita a rispondere aspramente ‘agli uomini di A-H’ (che è Hitler nel linguaggio di Pietro mentre noi immaginiamo il frate un po’ come il frate Tuck di Robin Hood). Sono cattivi tutti quelli che vogliono fermarli accanendosi contro di loro. Quando appare sulla scena un tedesco che si unisce al gruppo, dapprima Pietro è perplesso: dei tedeschi non ci si può fidare, hanno voci ‘da porcospino’ e sempre un’arma in mano. Anche questo tedesco ha una Luger ma, in qualche modo, è diverso. O si comporta in maniera diversa perché anche lui è in fuga- ha disertato. Per Pietro e Dario diventerà ‘zio Karl’ e finiranno per volergli molto bene.

   La voce di Pietro- il bambino fantasioso che, per farsi coraggio, elegge un lupo ad amico invisibile- non è la sola a raccontarci della fuga negli ultimi convulsi due mesi di guerra. Suor Elvira (Pietro ha capito subito che non può essere una vera suora, lo sa anche lui che le suore non hanno lunghi capelli rossi sotto il velo) scrive una sorta di diario fatto di appunti di viaggio, riflessioni sui suoi compagni, confessione del suo segreto, il motivo perché indossa quell’improbabile abito. Sono due voci diverse e complementari, sono le voci di chi subisce la violenza della guerra: ci sarebbero le guerre in un mondo popolato da donne e bambini? I bambini- Pietro e Dario in ‘questa’ storia- sono quelli che danno la forza di resistere e di andare avanti, perché il mondo deve essere salvato per loro. E’ per i bambini che bisogna reagire e imporsi un sorriso, fingendo che le patate crude siano buone, che sia divertente nascondersi e scappare. Nel viaggio di questo piccolo romanzo di formazione i bambini e la donna passeranno attraverso le dure prove della vita, capiranno che a volte il nemico può essere amico e viceversa, incontreranno la morte (troppo spesso, troppo brutale), conosceranno l’amore (amore o sesso, poco importa quando esprime il disperato bisogno di calore umano) e l’odio che detta la vendetta. E quando Dario, il bambino che è di quelli che hanno ucciso Gesù e che non parla mai, punta il dito contro chi ha appena sparato dicendo, ‘Sei come loro’, è più cristiano di quelli che hanno sterminato la sua gente, è l’innocenza e la giustezza dell’infanzia, è la speranza nel futuro di pace.

    Non ci si stanca di leggere Molesini. Perché ci diverte la buffa voce di Pietro, ci entusiasma il sapore dell’avventura anche se punteggiata da tristi eventi, ci incanta l’atmosfera della laguna e la violenza subita da Elvira ci ricorda la vulnerabilità delle donne durante tutte le guerre e in tutti i paesi.  

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


La Canzone del Piave per il romanzo di Andrea Molesini


                                                                              musica per un libro
                                                                              prima guerra mondiale
A partire dal novembre 1917, dopo la ritirata di Caporetto, il Piave divenne la linea di difesa contro le truppe austro-ungariche e tedesche. Nonostante i sanguinosi combattimenti per cui il Piave divenne noto come 'il fiume sacro alla Patria', questa linea di difesa resistette fino all'ottobre 1918 quando, dopo la battaglia di Vittorio Veneto, gli avversari furono sconfitti e si giunse all'armistizio.

                              


Andrea Molesini, "Non tutti i bastardi sono di Vienna" ed. 2010


                                                           prima guerra mondiale
                    il libro ritrovato

Andrea Molesini, “Non tutti i bastardi sono di Vienna”
Ed. Sellerio, pagg. 361, Euro 14,00

    “La verità è che tutti i soldati meritano un monumento, una canzone funebre. Ci dovrebbe essere un giorno dedicato alla memoria di ciascuno di loro, solo perché sono stati soldati, perché erano lì a fare quello che si chiedeva loro di fare. Ma i giorni sono pochi, troppi i morti.”

   Un ragazzo di diciassette anni. Il nonno e la nonna. La zia Maria. Giulia, ventitreenne, fuggita da Venezia per uno scandalo. La cuoca Teresa e sua figlia Loretta. Il custode Renato. E la casa, una villa signorile nella campagna veneta al di là del Piave. Il 24 ottobre 1917 l’esercito italiano veniva sconfitto a Caporetto e la vicenda del bel romanzo di Andrea Molesini, “Non tutti i bastardi sono di Vienna”, ha inizio nei giorni subito dopo la ritirata. Quando il capitano austriaco Korpium si presenta a Villa Spada e requisisce la casa. E’ la voce del vincitore, la sua, che non ammette repliche: “Siamo diciotto fra ufficiali e attendenti, ci sistemiamo qui”. E ancora: “Se credete di non poterci accogliere…dovrete sloggiare dalla casa”.            

    Svegliarsi con il nemico in casa. Pranzare con il nemico. Essere ospiti del nemico nella propria casa: esiste una maniera più dura per diventare grandi, tutto di un colpo? La vita non è stata lieve per il giovane Paolo, rimasto orfano di entrambi i genitori. E per fortuna ha i due nonni, ognuno dei quali un personaggio rimarchevole: nonno Guglielmo che finge di essere uno scrittore battendo sui tasti della Underwood che ha ribattezzato Belzebù e nonna Nancy, per metà inglese, altera e inflessibile, con una schiera di ammiratori nonostante l’età. E ha anche la zia Maria, fiera come i cavalli per cui ha una vera passione,e Giulia, che lo risveglia all’amore. Ma c’è ancora molto in serbo per Paolo, in quello che è l’ultimo anno di guerra. Perché si ritrova coinvolto in quella guerra in prima persona- d’altra parte hanno già richiamato ‘i ragazzi del ‘99’, fra poco toccherebbe a lui, e aiutare nel passare informazioni agli inglesi è pericoloso, sì, ma non certo quanto combattere in prima linea.
    C’è un crescendo di violenza- la violenza della guerra che offre un’autogiustificazione- nel romanzo di Molesini. Il primo tremendo episodio, che giunge dopo le schermaglie da minuetto dell’occupazione di Villa Spada, è quello dello stupro delle ragazze in chiesa. Il solito bottino di guerra, come se le donne fossero una merce di cui disporre. Donna Maria vorrebbe la fucilazione dei colpevoli, il capitano Korpium li manda sul Grappa (“c’è l’inferno su quella montagna”). Seguiranno altri drammi, piccoli e grandi, pubblici e privati- bisogna consegnare la campana, la voce del paese e non solo della chiesa, due traditori vengono giustiziati, tedeschi e ungheresi danno il cambio agli austriaci nella villa, i gatti finiscono in pentola (ma Teresa è una cuoca così brava che sembra di mangiare coniglio), Giulia dai capelli rossi stuzzica Paolo, si concede (probabilmente) al custode facendo ingelosire Loretta (e come possa essere letale la gelosia di una donna lo vedremo alla fine), un pilota inglese sorvola troppo spesso Villa Spada per ‘leggere’ i messaggi cifrati della nonna (persiane aperte o chiuse, biancheria stesa. Lui verrà preso, e con lui saranno arrestati il custode, il nonno e Paolo). E intanto le truppe passano dal paese, avanzano, si ritirano, si resiste sul Piave (chi ricorda ancora la canzone che, fino agli anni ‘50, si insegnava ai bambini delle elementari e che diceva “il Piave mormorò, non passa lo straniero!”?). Fino alla battaglia campale che fa trasformare la chiesa in un ospedale, con il sagrato e il prato antistante la villa ricoperto di corpi straziati, donna Maria  e Teresa che si impegnano come crocerossine: sono le pagine più memorabili del libro, in una scena che fa pensare a “Guerra e pace” e che grida col sangue l’insensatezza della guerra.

      E’ un romanzo di guerra, “Non tutti i bastardi sono di Vienna”, un romanzo che mette in luce come la guerra stravolga la vita di ognuno, ed è anche, o forse prima di tutto, un bellissimo romanzo di formazione: se, come ben sappiamo, si diventa grandi quando si passa attraverso un’esperienza di morte, il percorso di Paolo subisce un’accelerazione con la guerra. Quando, dopo aver visto tanta gente morire intorno a lui, diventa lui stesso strumento di morte.

    Il romanzo di Andrea Morosini può trovare posto sullo scaffale dei libri accanto ad “Addio alle armi”-  so benissimo che suonerà blasfemo. E tuttavia penso che “Non tutti i bastardi sono di Vienna” possa reggere un paragone con il romanzo di Hemingway: a suo vantaggio ha una visione della guerra “dall’interno”, molto più sofferta di quella in cui la guerra è una sfida contro se stessi, una galleria di personaggi così varia e così ‘nostra’ (e penso anche al parroco, oltre all’ineffabile Teresa con le sue maledizioni in dialetto), la descrizione di una casa che cede sotto i colpi del nemico che ha bisogno di legna da ardere e ruba tutto quello che può, e manca- infine- della lacrimosa storia d’amore che è il punto debole di “Addio alle armi”. Un libro assolutamente da leggere.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

Andrea Molesini, vincitore del Campiello 2011

giovedì 24 aprile 2014

25 Aprile- Anniversario della Liberazione

                                                                                     Ricorrenze
Un giorno, un paese



Il 25 aprile 1945 finiva la seconda guerra mondiale in Italia. Finiva anche il ventennio fascista, finiva l'occupazione tedesca. La data è stata scelta per la commemorazione annuale perché fu in quel giorno che furono liberate Milano e Torino. Tre giorni dopo Mussolini sarebbe stato raggiunto e fucilato.    



25 Aprile- Anniversario della Liberazione del 1945- la canzone Bella Ciao -



                                                                 ricorrenze, un giorno, un paese
                                                                musica per un libro

Ho scelto questa canzone per ricordare il 25 aprile. Perché è la più famosa, perché il solo sentire le prime note riporta alla mente gli anni ormai lontani della guerra, perché l'ho sentita di recente e in tutto un altro contesto- i primi giorni di giugno 2013, a Istanbul, vicino a piazza Taksim. La cantavano in turco gli studenti in corteo. Ho riconosciuto la musica. Mi sono emozionata.


                                                                 

Nuto Revelli, "La strada del davai" ed. 1966

                                                           seconda guerra mondiale
      testimonianze

Nuto Revelli “La strada del davai”
Ed. Einaudi tascabile, Euro 14,03

   “Avanti, cammina”, è questo il significato della parola davai in russo. Camminare, sollecitandosi l’un l’altro o da se stessi, è quello che hanno fatto per chilometri e chilometri i soldati italiani dopo la disfatta in Russia nel 1943. Andare avanti, con il miraggio della ‘casa’, della famiglia. A 20, 30, 40 gradi sotto zero, nella neve, con scarpe tagliate dietro per far spazio ai piedi gonfi- chi ancora aveva le scarpe. Con i piedi fasciati in stracci o coperte, chi non le aveva più, perse, rubate, ridotte a brandelli. Con la tentazione di lasciarsi andare nella neve, chiudere gli occhi e riposare. Reagendo perché lo sapevano tutti, che se ti addormentavi era finita, non ti svegliavi più, morivi congelato.
   “La strada del davai” di Nuto Revelli è una preziosa raccolta di testimonianze di reduci- di alpini ma anche fanti che hanno combattuto in Russia. Non solo, molti di loro avevano alle spalle già la campagna di Albania o di Grecia, prima di essere mandati sul fronte russo nel 1942. Preziosa come tutto quello che va scomparendo, ed è la memoria collettiva che rischia di scomparire, ed è la Storia che rischia di ripetersi se non lascia alcun insegnamento.
Sono tanti gli uomini che Nuto Revelli ha rintracciato, che parlano con una voce in cui senti ancora il brivido del gelo e della paura, l’ansito dello sforzo di tirare avanti. Quello che raccontano è più o meno uguale, le loro storie si succedono l’una all’altra, precedute dal nome di chi parla, dal luogo di provenienza, data di nascita, studi fatti. E si resta inchiodati al libro, mentre le storie acquistano la forza di una valanga, rovesciandosi su di noi. Erano tutti giovanissimi quando sono partiti, vent’anni o giù di lì, partivano cantando, ubriachi, di mala voglia perché non giravano belle voci sul fronte russo. Loro, poi, manco sapevano dove fosse, la Russia. Sapevano a mala pena perché andavano a combattere. Moltissimi  non avevano neppure il diploma di scuola elementare, erano per lo più contadini o avevano comunque un mestiere di umile lavorante.
   Leggiamo e pensiamo che l’inferno, così come ce lo fanno immaginare nelle lezioni di catechismo, è perfino meglio dell’inferno Russia. Le fiamme dell’inferno cattolico sono meglio degli spari, dei carri armati, del bianco della pianura sterminata in cui non ci si orizzonta, del gelo, dei vagoni chiusi dall’esterno su cui i prigionieri furono trasportati in Siberia, della fame e della sete, delle malattie, della pelle che si stacca dall’arto in cancrena, dell’orrore di condividere lo spazio vitale con i morti.
Sono descrizioni che ritornano in ogni testimonianza, e forse, in tutte, il peggio non è mai l’azione di combattimento, piuttosto tutto il resto, il dopo-combattimento per questi ragazzoni che erano partiti pesando tra i 70 e gli 80 chili e che erano ridotti a scheletri di 35 o 40 chili. Il viaggio delle tradotte è, per ognuno di loro, un ricordo da incubo. E deve ben essere stato un incubo se spesso un decimo di quelli che erano partiti arrivava a destinazione nel campo di lavoro. Un incubo a cui avevano dovuto far l’abitudine, così come si erano abituati a gettare fuori del portellone i cadaveri nella neve, al segnale convenuto. Dopo averli spogliati, perché ogni indumento poteva significare la vita per qualcun altro. La pietà è morta quando gli uomini sono obbligati a dimenticarsi che sono uomini.
   Altre cose coincidono nei loro racconti: concordano tutti che la popolazione russa è stata buona e caritatevole, che le vecchie nelle isbe avevano pietà di loro e gli davano da mangiare quel poco che avevano, che molti sono stati salvati dal buon cuore russo. Che i tedeschi, invece, erano bestiali: tutti i nostri, che nulla sapevano dei campi di concentramento e della soluzione finale, avevano assistito inorriditi a scene di violenza nei confronti dei civili- ebrei, ma anche polacchi- da parte dei nazisti.
   E poi sono tutti d’accordo nel finale- la felicità del rientro ma la difficoltà di inserirsi nuovamente, l’impossibilità di far capire quello che avevano passato e il lungo tempo impiegato per ritrovare, almeno in parte, la salute, la beffa delle irrisorie pensioni di guerra.
    
Basta con le guerre, non se ne parli mai più.

    Leggevo il libro di Revelli e pensavo alla tomba davanti a cui mi fermo sempre, ogni volta che ci passo davanti, quando vado nel cimitero marino dove sono sepolti i miei genitori. Sulla lapide la foto di un ragazzo, con quell'aria già vecchia che avevano i ragazzi in passato. Controllo ogni volta le date- aveva vent'anni appena compiuti. Ogni volta leggo la frase scritta in lacrime di ottone e mi si stringe il cuore- 'Figlio mio, dove sei?'-, sotto, 'disperso in Russia, 1943'. Ogni volta penso allo strazio di quella madre. E spero che il transito attraverso l'inferno di suo figlio sia stato veloce. Almeno quello.

   
Nuto Revelli