sabato 29 agosto 2015

Robin Black, “Ritratto di un matrimonio” ed. 2015

                                         Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
            FRESCO DI LETTURA


Robin Black, “Ritratto di un matrimonio”
Ed. Neri Pozza, trad. C. Brovelli, pagg 255, Euro 14,03


        Il titolo, “Ritratto di un matrimonio”, è banale. L’inizio, “Gli ultimi giorni prima della sua morte, mio marito Owen fece visita ad Alison ogni pomeriggio.”, non lo è. Perché ci anticipa la fine, perché mette subito in chiaro che non si richiede a noi lettori di leggere con la curiosità di sapere che cosa succederà, piuttosto che dobbiamo fare attenzione alle sfumature, ai movimenti dell’anima dei personaggi. Altre anticipazioni: “Owen non fu sepolto. Sapevo fin dal giorno in cui lo conobbi che voleva essere cremato.” E poco dopo ci viene detto che erano giovanissimi all’epoca del primo incontro. Così giovani da poter parlare della morte senza crederci veramente. Sembrava ad entrambi impensabile di morire, anche se l’io narrante- Augusta, chiamata Gus- aveva perso la madre quando era una bambina, e poi l’amata sorella maggiore. “Ma Owen era Owen. Owen era me. Io ero lui.” E allora, qual è la storia che ci deve raccontare Gus, pittrice, che ha appena perso il suo uomo, Owen, scrittore?

      Erano una coppia moderna, anticonvenzionale. Poco più che ventenni all’inizio del loro amore, si erano sposati da poco (Gus ha quarantasette anni)- il matrimonio, la festa del Ringraziamento, le candele dello Shabbat, i bambini, erano tutte cose che non facevano per loro, tutte convenzioni inutili. Le candele le accendevano il mercoledì, niente tacchino e niente feste di famiglia per il Ringraziamento, per carità. Quanto ai bambini, quando, ad un certo punto, avevano cambiato idea, avevano scoperto che Owen non ne poteva avere. E che Gus adesso li desiderava moltissimo. Sul matrimonio avevano cambiato idea così tardi in seguito al tradimento di Gus: tutto era già finito quando aveva confessato a Owen di aver avuto una breve relazione con il padre della ragazza a cui aveva dato lezioni di pittura. Avevano deciso di cambiare vita ed era stato possibile grazie all’eredità di una zia: avevano acquistato una fattoria. Dalle strade affollate della città alla solitudine totale. Lei dipingeva in casa, lui aveva il suo studio nel granaio. Lei aveva avuto uno slancio creativo dopo la storia d’amore, lui soffriva della paralisi dello scrittore. C’era una leggera corrente di gelosia tra di loro.

    Ed ecco che succede qualcosa. Il sasso gettato nello stagno. Una donna, capelli argento, occhi chiari, pure lei pittrice, prende in affitto una casa vicino alla fattoria di Owen e Gus. Si insinua tra i due con garbatezza ma anche con una certa sfacciataggine e insistenza. Diventa amica di Gus. Owen ne è geloso: non sono sempre bastati uno all’altra, loro due? Gus finisce per ammirarla, le fa delle confidenze. Forse la invidia anche un poco, perché Alison ha una figlia con cui ha un’intesa perfetta. Le fa pena perché è appena uscita da un matrimonio con un marito violento.
   Quando incominciamo a domandarci se la storia si evolverà in quella di un tipico triangolo, entrano in scena altri due personaggi- solo di sfuggita la figlia dell’ex amante di Gus (una figlia di ‘elezione’ per Gus) e, più stabilmente e in maniera più preoccupante, la figlia di Alison, aspirante scrittrice in adorazione di Owen. Una quasi la controparte dell’altra. Se “Ritratto di un matrimonio” è la storia di un triangolo amoroso, lo diventa in maniera del tutto insolita.


   Robin Black scrive con garbo e sottigliezza psicologica la storia di un amore come tanti, senza esagerate illusioni. Un amore che è consapevole di dover lottare perché niente è mai scontato, perché siamo tutti fragili e le difficoltà della vita- la perdita di una persona cara, l’assistere impotenti al dissolversi della figura paterna che abbiamo conosciuto, un fallimento sul lavoro, il desiderio di maternità frustrato- possono far deviare i nostri sentimenti nella speranza inconsapevole che l’ebbrezza della novità faccia accelerare i battiti del cuore, dandoci nuove possibilità.  


venerdì 28 agosto 2015

Arthur Phillips, “Praga” ed. 2005

                                      Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
           il libro ritrovato


Arthur Phillips, “Praga”
Ed. Rizzoli, pagg. 515, Euro 18,50

E’ il 1990. Quattro giovani americani e un canadese si incontrano a Budapest. Ognuno ha una storia diversa alle spalle ed una occupazione differente- l’unica ragazza è segretaria dell’ambasciatore, uno dei ragazzi è uno studioso di storia, un altro insegna inglese e suo fratello fa il giornalista, uno, di origini ungheresi, è un venture capitalist in cerca di investimenti redditizi. Il caffè Gerbeaud diventa luogo di incontri, di discussioni, di inizi di storie d’amore, punto di partenza per esplorare i locali della città, per aggirarsi nelle sue vie, respirandone la storia travagliata. L’acquisto e la vendita di una gloriosa casa editrice ungherese diventano il fulcro di tutte le storie, emblema della trasformazione imposta dal capitalismo occidentale.

INTERVISTA AD ARTHUR PHILLIPS, autore di “Praga”

E’ il caporedattore del quotidiano di lingua inglese di Budapest che, illustrando all’aspirante giornalista John Price che tipo di articoli voglia da lui, cita Hemingway e Fitzgerald, “Ricordati che di futuri Hemingway e Fitzgerald in questo paese ne arrivano continuamente, trasportati su aerei da carico e paracadutati giù di notte in tutti i migliori locali”. E’ il 1990, sono passati pochi mesi dalla caduta del muro di Berlino e nella Parigi sul Danubio i cinque giovani sono la nuova “generazione perduta” in cerca di ideali, di una vita più vera, di un passato anche se non è il loro, di un futuro pur incerto nel fermento di rinnovamento che percorre la città. Ed ognuno di loro compie questa ricerca in maniera personale, più o meno pragmatica, più o meno interessata, più o meno idealista. E tutti abbandonano Budapest alla fine.

      Il percorso del canadese Mark segue le tracce della nostalgia ed è quello che, forse, ci comunica di più la malia decadente della città che gronda della tragicità del suo passato. Per raccogliere materiale per la sua tesi sulla nostalgia, per tracciare un grafico della nostalgia andando indietro all’infinito ad un tempo sempre nostalgico di un altro tempo, Mark gira per antiquari, ascoltando storie di guerre, di rimpianto dell’epoca in cui si combatteva per la “Magyarország”, la patria ungherese, e non per un esercito invasore, di carri armati e di campi di lavoro. Scott, l’insegnante di inglese, verifica che una lingua straniera si impara a letto e sposa un’ungherese. Emily, l’incarnazione delle solide virtù americane, la ragazza tutta di un pezzo di cui John si innamora perdutamente, rivela una personalità e delle tendenze sessuali insospettate. Il buffo, tenero, divertente John, giornalista esordiente, assume ad un certo punto il ruolo di personaggio principale, quello che partecipa di più del presente della città, che si lascia conquistare dalla figura di Imre Horváth, la cui storia è quasi un romanzo dentro il romanzo.
il caffé Gerbeaud
     Perché le traversie della famiglia Horváth, proprietaria della casa editrice Horváth dal 1818, sono quelle dell’Ungheria e il loro nome diventa il simbolo di un’entità nazionale che è sopravvissuta in clandestinità sotto il regime comunista. Quello che John prova per Imre Horváth è il sentimento a cui nessuno degli “expatriates” a Budapest riesce a sottrarsi: l’invidia verso chi “si è messo alla prova nell’esame definitivo della sua epoca e ne è risultato degno”. Ciò che manca alla generazione perduta è proprio questo, la conferma di essere all’altezza del confronto in una situazione estrema, l’aspirazione ad un mondo in cui esistono ancora gli eroi. E in questa luce ci delude un poco il “tradimento” finale di Charles Gábor che vende ad un australiano la casa editrice che era stata, per una scelta consapevole e difficile, la memoria del popolo ungherese per 150 anni. Stilos ha intervistato Arthur Phillips.

Il titolo, prima di tutto: perché “Praga”? perché Praga rappresenta l’irraggiungibile, l’eterna speranza di qualcosa di diverso e di migliore? È una specie di miraggio?

     Uno dei temi del romanzo è certamente l’idea dell’altro luogo, dell’altra vita, dell’altro lavoro, l’altro appartamento, l’altro passato, l’altro amante: se solo fossi stato là…se avessi fatto quello…scelto questo…allora tutto sarebbe diverso. Nel caso della città, Praga, uno dei personaggi è convinto che laggiù sarebbe più felice. Questa idea strana- che sarebbe più felice in una città di cui non sa nulla, in confronto a Budapest, una città differente di cui pure non sa nulla- viene in realtà da un contesto preciso. Per gli americani che vivevano nell’Europa dell’Est dopo la guerra fredda, Praga divenne nota come il posto giusto per la crescita artistica, opportunità di fare affari, storie romantiche…, anche se a me, che ho vissuto a Budapest, pare una fama ingiustificata. Conoscevo persone che abitavano a Budapest e che erano convinte di perdersi la scena vera, che era laggiù, a Praga. In seguito ho incontrato degli americani che avevano vissuto a Praga e che, naturalmente, erano convinti di essersi persi le cose più importanti, che erano successe a Budapest.

Il libro inizia con il Gioco della Sincerità: la sincerità e il suo opposto, la falsità o la mendacia, sono tra i temi principali del romanzo?
     Forse non la falsità, ma un certo tipo di ironia diventa uno dei temi ricorrenti del romanzo. Ironia come tendenza a non lasciare che niente venga discusso o venga preso seriamente, l’ironia della commedia televisiva adottata da un certo tipo di persone.

Ha detto di aver vissuto a Budapest: che cosa l’ha portata a Budapest? Quanto tempo ci ha vissuto? E qual è stata la prima impressione che ha avuto della città e della sua atmosfera?
     Ho passato due anni a Budapest, dal 1990 al 1992, subito dopo il college. Sono andato a Budapest perché volevo vedere succedere la Storia e dopo il 1989 la Storia succedeva nell’Europa centrale e in quella dell’Est. Non avevo parenti in Europa, e neppure una conoscenza storica o linguistica. Desideravo solo vedere l’Europa mentre cambiava. Le mie prime impressioni furono di una terra così estranea per me da non essere neppure in grado di leggere i cartelli stradali. Mi sembrava di essere dentro un vecchio film, nei miei sogni sull’Europa, nel passato.


C’è qualcosa di lei in ognuno dei personaggi, o soprattutto in uno di loro, oppure in nessuno?
    Sapevo per certo di non voler scrivere qualcosa di autobiografico, perciò non c’è assolutamente nessun personaggio che mi rappresenti- tranne forse il cattivo sassofonista, ecco, quello sono io. In tutti loro si rispecchiano i miei interessi, ma sono personaggi di pura invenzione.

John, l’ultimo ad arrivare a Budapest, diventa il personaggio principale del romanzo ed è, forse, il più simpatico: aveva già in mente fin dall’inizio di farlo emergere tra gli altri?
     No, mentre “giocavo” con i miei personaggi, i comportamenti e il lavoro di John sembrava lo rendessero la scelta più congeniale per farne il protagonista principale. Vorrei aggiungere che anche altri- come lei- lo hanno trovato simpatico, ma non è stata la reazione di tutti. E a me fa molto piacere che tutti i personaggi abbiano dei lettori che li hanno preferiti e altri che li hanno odiati.

Ho fatto fatica ad accettare il tradimento di Charles: come mai proprio lui, l’unico ungherese del gruppo, è anche il meno idealista, il più pragmatico, il più “americano”?
     Perché “tradimento”? Charles è un uomo d’affari, che ha fatto dei buoni contratti, ha salvato quello che si poteva salvare, facendo arricchire molte persone e tagliando via con dispiacere tutte quelle parti dell’impresa che avevano solo valore sentimentale. Lui fa dell’ironia su tutto questo, ma è certamente così che illustrerebbe il suo operato.

La nostalgia è un tratto del carattere di Mark e anche il soggetto della sua tesi, un tema affascinante, dopo tutto è anche un modo per conservare la memoria del passato. E tuttavia, non porta ad una lieve follia, il vivere con lo sguardo girato indietro?
     Non saprei se porta ad una lieve follia. Suppongo che possa portare ad un’accettazione consolatoria del presente. “Retros”- il termine che usa Mark-, il guardarsi indietro, è un bisogno di tutti noi, più o meno forte. E con esso dobbiamo lottare e cercare di tenerlo a bada, proprio come dobbiamo fare con Eros e Thanatos.

Pensa che sia una caratteristica dell’Europa, andare avanti con la testa girata indietro verso il passato?
     In genere sono molto cauto nel fare delle generalizzazioni nazionali o continentali. Però, avendo vissuto a Budapest e a Parigi, direi che gli europei non sono particolarmente più nostalgici degli americani. Di fatto, rispetto ai turisti americani, paiono essere meno impressionati e sopraffatti dalla bellezza e dall’antichità di quello che li circonda.

Il paragone più ovvio, all’inizio del libro, è con la Parigi degli “expatriates” degli anni ‘20. Quello che ha portato questi giovani a Budapest è lo stesso sentimento che ha portato Hemingway e Fitzgerald a Parigi? O c’è una motivazione più fortemente politica in loro?

     Non sono del tutto certo di che cosa abbia spinto Hemingway e Fitzgerald a Parigi, penso che fosse per vedere il mondo, fare dell’arte, sentire l’influenza di qualcosa lontano da casa, per ricrearsi in una nuova atmosfera. In breve, niente di molto diverso da quello che ha spinto migliaia di giovani americani a Praga, Budapest, Sofia, Mosca, dopo il 1989.

Nel romanzo ci sono continue allusioni ad una generazione “intenzionalmente perduta”, o anche “sperduta”: perché intenzionalmente perduta?
     Perché in effetti questi giovani non possono reclamare un trauma che li abbia disorientati. Cioè non sono cresciuti in situazione di povertà o sotto un regime dittatoriale o con una guerra in corso nel loro paese. Non hanno vissuto nelle trincee della prima guerra mondiale. Sono nati in epoca di pace, di ricchezza, in cui bastava allungare la mano per prendere tutto, eppure sentono di dover andare in cerca di qualcosa.

Qual è la radice dell’attrazione che gli americani provano per l’Europa? Si potrebbe pensare che sia il passato, ma ormai anche gli americani hanno un loro proprio ricco passato. E’ qualcosa di simile alla nostalgia di Mark?
     Be’, certamente io amo l’Europa, per la sua storia e la sua architettura, ma anche per i piaceri del presente che offre. Essere in Europa dà una sensazione diversa dall’essere in America, è ovvio. E ci si sente diversi ad essere uno straniero e non uno del posto.

Il capitolo della storia della famiglia Horváth è un romanzo dentro il romanzo. Quando iniziamo a leggerlo, subito proviamo una leggera irritazione per l’interruzione e poi, invece, ci rendiamo conto di quanto sia importante e di come si inserisca perfettamente nel romanzo: perché ne ha fatto un capitolo separato dal resto della storia?
    Mi sembrava che il romanzo sarebbe stato, in parte, sull’incontro tra persone che sentivano di vivere fuori della storia, che avvertivano che la storia non aveva una rilevanza giornaliera per loro. Dall’altra parte c’erano persone che annegavano nella storia, persone le cui scelte erano dettate dalla storia, persone che vivevano dentro la loro famiglia e dentro la loro storia nazionale. E allora, dato questo confronto, volevo che quella storia fosse chiara, volevo mostrare come si ripercuotesse su qualcuno che viveva nel 1990. Ecco da dove ha avuto origine la Parte Seconda: era necessaria.

Il suo secondo romanzo “L’archeologo” è del tutto diverso da “Praga” e ci incuriosisce questo cambiamento: qual è stata la spinta a scrivere un romanzo ambientato in tempi e luoghi così lontani, Australia, Egitto, Inghilterra, Boston?
     Mi piace divertirmi quando scrivo: ci vogliono due, tre o quattro anni per scrivere un romanzo e non voglio annoiarmi. Altrimenti mi cercherei un vero e proprio lavoro. E così seguo le idee che mi vengono in mente- in questo caso si trattava dell’idea di un’orrenda fine per una spedizione archeologica- e vedo se riesco a divertirmi. D’accordo, non è un’ambizione molto artistica, solo la sensazione di che cosa si dovrebbe provare scrivendo.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                   

mercoledì 26 agosto 2015

Jovan Divjak, “Sarajevo, mon amour” ed. 2007

                                     Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
                                                   guerra dei Balcani
     FRESCO DI LETTURA

Jovan Divjak, “Sarajevo, mon amour”
Intervistato da Florence La Bruyère
Ed. Infinito, trad. Gianluca Paciucci, prefazione di Paolo Rumiz, pagg.226, Euro 18,00


    Jovan Divjak è un mito. Lo è in tutta la Bosnia. Lo è in particolar modo a Sarajevo, la sua città che subì l’assedio più lungo della storia moderna, più lungo ancora di quello di Leningrado- dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Alla fine dell’assedio la popolazione della città era il 64% di quella che era prima della guerra. 12.000 i morti, 50.000 i feriti, l’85% tra i civili: a volte i numeri sono necessari per rendere chiara l’immagine di una tragedia. La popolarità di Jovan Divjak è dovuta in primo luogo alla sua scelta di combattere- lui, appartenente ad una famiglia serba ortodossa- nelle file dell’esercito della Bosnia. Si è trovato quindi nella posizione difficile- come tutti coloro che condivisero questa scelta e non passarono al versante della Repubblica Srpska- di essere accusato di tradimento dai serbi e di poter essere sospettato dai bosniaci. E pagò caro la sua scelta anche sul piano strettamente personale- un mese di carcere per motivi non chiari, il ricatto dell’arresto di un figlio, minacce da più parti, un attentato rivolto a lui. Il suo amore per la Bosnia Erzegovina non può essere messo in discussione, e neppure il suo comportamento e la sua partecipazione in prima persona alla guerra. Si vedono ancora le sue fotografie nei luoghi pubblici a Sarajevo. La gente lo ammira e lo rispetta, per il suo passato e per il suo presente- un aiuto costruttivo agli orfani di guerra.

   Quando ho preso tra le mani “Sarajevo, mon amour”, ho provato una punta di delusione, perché mi aspettavo tutt’altro. Non avevo badato alla scritta in alto sulla copertina in cui, sotto il nome di Jovan Divjak, c’era ‘intervistato da Florence La Bruyère’. Temevo qualcosa di frammentario che non avrebbe soddisfatto il mio desiderio di sapere. E invece “Sarajevo, mon amour” è il libro più illuminante che abbia letto- finora- sulla storia dei Balcani. Una storia complicata che è iniziata da un solo Stato, la Jugoslavia, che si è frantumato dopo la morte di Tito (per inciso, l’immagine di Tito nelle parole di Divjak- ma anche di chi ne parla tuttora in Bosnia- è ben diversa da quella che ci veniva presentata in Italia all’epoca). Ma la giornalista Florence La Bruyère impone un ordine alla Storia organizzando le domande in uno schema ammirevole che troviamo nell’indice: sembrano quasi i dati di un problema matematico che debba essere risolto alla fine.
Incomincia con la premessa, “Nell’ombra di Tito”, segue con “La guerra”, la messa a punto sulle condizioni dell’esercito (ben misero), “L’Armija”, l’assedio interminabile e le sofferenze dei civili nel mirino degli sniper a Sarajevo (“I civili nella guerra”), per mettere a fuoco infine “I protagonisti” (Milošević, Karadžić, Mladić, Tudman, Izetbegović e i Caschi Blu), e concludere con “La pace imperfetta”. Se l’uniformità delle pagine di un testo di Storia può scoraggiare e a volte annoiare i non specialisti, il ritmo delle domande della La Bruyère e delle risposte di Divjak mantiene sempre desta l’attenzione. La Storia è viva (pur con il rischio di essere di parte), appassionante. Ci sembra persino di riuscire ad orizzontarci tra bosgnacchi e bosniaci (attenzione, non sono la stessa cosa), tra serbi di Serbia e serbi bosniaci, tra croati, cetnici e ustascia, tra eserciti regolari e le Tigri di Arkan. Di Jovan Divjak ammiriamo lo sforzo di equità e chiarezza, il tentativo di essere super partes e di soffocare odi e risentimenti, la sua generosità, il suo amore per Sarajevo.
La Rosa di Sarajevo: così sono indicati, per terra, i luoghi dove più di otto persone sono morte sotto il fuoco dei cecchini

     “Sarajevo, mon amour”: il titolo è un omaggio ad un altro grande uomo innamorato di questa città che non abbandonò neppure durante l’assedio, Kemal Monteno, il cantante figlio di un italiano di Monfalcone che aveva combattuto in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale e non era più tornato in Italia dopo aver sposato una donna di Sarajevo (lasciando peraltro una moglie e una figlia a Monfalcone). Kemal Monteno, voce romantica dal timbro italiano, è morto nel gennaio del 2015 (“è come se fosse caduto un grande albero”, hanno detto di lui). Ricordiamolo con la canzone che amo molto, “Sarajevo, ljubavi moja”. Cliccando su youtube scorrono le immagini della città amata, martoriata, risorta.

Jovan Divjak





Kemal Monteno - Sarajevo ljubavi moja



                                                   Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
                                                                 guerra dei Balcani
                                                                 musica per un libro

Il cantante da poco scomparso, Kemal Monteno, canta "Sarajevo, amore mio", la canzone che ha dato il titolo al libro del generale Jovan Divjak.



martedì 25 agosto 2015

Wang Gang, “English”

                                                    Voci da mondi diversi. Asia
           il libro ritrovato


Wang Gang, “English”
Ed. Neri Pozza, trad. Maria Gottardo e Monica Morzenti, pagg. 384, Euro 18,00

    C’è un tempo fisiologico per elaborare ogni esperienza e ci volevano quasi trent’anni perché la Cina riuscisse a riguardare e rielaborare sotto forma di romanzi l’epoca della dittatura del Grande Timoniere, quel grande sconvolgimento che andò sotto il nome di Rivoluzione Culturale. “Balzac e la piccola sarta cinese” di Dai Sije ci aveva svelato per primo la sete di conoscenza dei giovani mandati a lavorare nei campi; di recente Wei Wei, nel suo “La ragazza che leggeva il francese”, ci ha narrato dell’esaltante scoperta di un nuovo mondo rivelato dallo studio di una lingua straniera. Ci giunge ora “English” di Wang Gang, un drammatico romanzo di formazione velato di ironia che, ancora una volta, tratta del paradosso di una Rivoluzione Culturale che ha distrutto la cultura e di una generazione di studenti che, nell’impossibilità di studiare, ambivano studiare, privati dei libri di testo, li desideravano più di ogni altra cosa.
    La vicenda di “English” è ambientata ad Urumqi, una cittadina ai confini della Mongolia- e potrebbe essere ai confini del mondo, tanto è lontana dalle città mitiche di Pechino o Shanghai, vagheggiata quest’ultima come il centro della modernità. E il professore Wang Yajun viene da Shanghai. E insegnerà inglese! Sono sufficienti queste due cose per giustificare l’aura quasi magica intorno a lui? Wang Yajun è sempre vestito in maniera inappuntabile, sempre perfettamente rasato e- dettaglio veramente inaudito- usa il profumo! Perché poi ci sia un professore di inglese, piuttosto che di russo, in sostituzione dell’insegnante di urumqi, la bella Ajitai, resta un mistero.
L’io narrante è il ragazzino Liu Ai, figlio di due architetti che devono espiare la colpa di essere intellettuali- in una delle scene iniziali il padre di Liu Ai dipinge un gigantesco ritratto di Mao. E viene schiaffeggiato per punizione, perché ha messo un solo orecchio sul faccione del Presidente: ma di che prospettiva parla? Questa è un’offesa!

Nel mondo degli adulti ci sono i genitori, dunque, i due professori, Wang Yajun e Ajitai, e altri personaggi (il preside, il responsabile Fan) che rappresentano le forze dell’ordine; in quello dei ragazzi gli attori sono Liu Ai, una compagna di classe, e Li Mondezza, il cui soprannome rivela tutto sull’ambiente della sua famiglia. L’arrivo del professore mette in moto una serie di eventi che nascono da rivalità e invidie, perché Liu Ai contende alla ragazzina il ruolo di “preferita” del professore. E il grosso volume del dizionario di inglese diventa il simbolo di questa rivalità, oggetto ambito come una coppa premio.
Oltre ad essere uno scrigno dei tesori, interprete di un’altra realtà a loro sconosciuta, cancello che si spalanca su un altro universo. Che è quello di un gentleman con le scarpe lucide come quelle del professore. Si è pronti a tutto, anche a mentire, anche a lasciare che si diffondano calunnie sulla moralità del professore, pur di avere il privilegio di portare il suo giradischi in aula. O- meta suprema- poter sfogliare il dizionario.

    Se per un verso “English” è la storia di una soggezione culturale, del fascino esercitato da un insegnante attraverso quella straordinaria forma di potere che è la cultura, dall’altro, come in tutti i romanzi di formazione, è anche la storia della scoperta dell’amore e del sesso. E la rivalità non è solo quella di primeggiare nella pronuncia inglese, ma anche quella di contendersi l’oggetto del desiderio: la bambina è infatuata del professore che, a sua volta, spasima dietro la professoressa Ajitai, le cui belle forme sono concupite pure dal giovane Liu Ai, il cui nome, Ai, significa Amore, e che è il più confuso tra i personaggi. Roso dal dubbio su chi sia il vero padre (è perché non ammira più il suo, troppo obbediente al regime?), diviso tra le lusinghe del professore, l’attrazione per la compagna di scuola e il desiderio per Ajitai. Certo è che anche qui, come negli altri romanzi di formazione, si diventa grandi dopo l’esperienza della morte. E c’è una serie di morti in “English”, con valenze diverse, di significato politico o personale, sempre tragiche. Che cambiano la vita per sempre.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


domenica 23 agosto 2015

Antonio Scurati, “Il tempo migliore della nostra vita” ed. 2015

                                                                         Casa Nostra. Qui Italia
          biografia romanzata
          seconda guerra mondiale
          FRESCO DI LETTURA


Antonio Scurati, “Il tempo migliore della nostra vita”
Ed. Bompiani, pagg. 267, Euro 15,30, e-book 9,99


    L’8 gennaio del 1934 Leone Ginzburg fece ‘il gran rifiuto’. Disse ‘No’, che non avrebbe giurato fedeltà al regime fascista. E non ‘per viltade’ come il papa Celestino di Dante. Quello di Leone Ginzburg, non ancora venticinquenne, fu un atto di grande coraggio perché sapeva perfettamente quello a cui andava incontro. L’arresto, poco dopo, la prigione a cui, nel corso degli anni, sarebbero seguiti periodi di libertà vigilata, altri arresti, altri imprigionamenti, il confino, fino all’ultimo arresto- questa volta ad opera dei tedeschi con cui Leone si rifiutò di collaborare. Lo torturarono, i tedeschi. Leone Ginzburg morì di quelle torture nel febbraio del 1944, pochi giorni prima del sesto anniversario di matrimonio con Natalia Levi da cui aveva avuto tre figli. Dal carcere fece a tempo a scrivere alla moglie una lettera in cui rifulge la sua personalità- solo un cenno alle sue sofferenze, la volontà di non cedere alla tentazione dell’autocompassione, la generosità grande del suo amore, il testamento di tutta una vita.

     Antonio Scurati ci racconta la vita di Leone Ginzburg nel suo nuovo romanzo “Il tempo migliore della nostra vita”, con un titolo preso da un racconto di Natalia Ginzburg Levi- parole di accorata nostalgia per un passato irto di difficoltà ma che era “il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.” Inizia dal tempo lontano, nel 1905, in cui il padre di Leone, originario di Vilnius ma trasferitosi ad Odessa, ottenne il permesso dello zar di cambiare il nome, dallo yiddish Tanchun al russo Fëdor, e ne segue le vicende: l’Italia era nel destino di Leone se, a quanto pare, era il frutto di una scappatella di sua madre durante una vacanza a Viareggio e il suo vero padre era Renzo Segré. Passò anche l’infanzia in Italia, Leone- la madre lo aveva affidato, in quegli anni di sovvertimenti in Russia, a Maria Segré, sorella del padre naturale di Leone.
Tappa dopo tappa Scurati fa luce su Leone Ginzburg, il giovane straordinariamente promettente che fu obbligato a scegliere altrimenti dalla cattedra universitaria che gli sarebbe spettata di diritto e che altri non si fecero scrupolo di accettare. Parlare di Leone Ginzburg significa anche parlare del mondo culturale italiano, di Cesare Pavese e dei fratelli Levi, dei due Rosselli e di Einaudi e degli albori della casa editrice con il marchio dello struzzo. Per ampliare il quadro, ha un senso che, parallelamente alla storia di Leone, e poi di Leone insieme a Natalia, Antonio Scurati ci racconti anche la storia della sua famiglia, degli Scurati e dei Ferrieri, dei nonni paterni e di quelli materni, gente della Lombardia e della Campania, persone comuni e coraggiose dalle mille risorse e dalle molteplici avventure, fino alla nascita dello scrittore stesso. E la Storia d’Italia sullo sfondo, come grandi pannelli su cui scorrono titoli e notizie degli anni che precedono la guerra e segnano l’avvento del fascismo, i trionfi di Hitler e l’entrata in guerra dell’Italia, le sconfitte, i morti, i bombardamenti, l’armistizio.


     La prima parte del romanzo di Scurati è molto avvincente perché Leone Ginzburg è un gigante, perché vorremmo poterci identificare con lui, perché ci chiediamo se saremmo stati capaci di fare come lui, perché- come dice Scurati, abbiamo nostalgia di un tempo di grandi ideali che non abbiamo vissuto e che è lontano anni luce dal grigiore odierno. Proseguendo la lettura, tuttavia, avvertiamo un certo disagio, ci manca qualcosa. Ci manca l’anima. Sappiamo tutto, adesso, di Leone. Tutto quello- ampliato, certo, con citazioni da lettere o da documenti- che potremmo trovare anche su internet. Ma non rivive per noi. E tutta la carrellata di avvenimenti della grande Storia, il susseguirsi delle date che li puntualizzano- resta arida, sembra di leggere uno di quei manuali scolastici riassuntivi per gli studenti che volevano una scorciatoia. E a noi non basta. 


Javier Moro, “Il sari rosso” ed. 2009

                                                 Voci da mondi diversi. Penisola iberica
                                                                       biografia romanzata
        il libro ritrovato


Javier Moro, “Il sari rosso”
Ed. il Saggiatore, trad. Giuliana Carraio e Eleonora Mogavero, pagg. 578, Euro 18,50

   Tre donne della famiglia Gandhi hanno indossato, nel giorno delle nozze, il sari rosso fatto con il cotone filato da Jawaharlal Nehru in prigione: Indira Nehru che andò in sposa a Feroze Gandhi (nessuna parentela con il Mahatma), l’italiana Sonia Maino che sposò Rajiv Gandhi, figlio primogenito di Indira, e Priyanka Gandhi, figlia di Rajiv e di Sonia, così simile alla nonna Indira da domandarsi se non sia la sua reincarnazione. Tre donne che si sposavano per amore, con una decisione contrastata: né il padre di Indira, né quello di Sonia erano contenti della scelta delle figlie. Proprio come, anni più tardi, Sonia non avrebbe approvato il matrimonio di Priyanka. E’ già un indice del loro carattere, la fermezza delle loro scelte?

    “Il sari rosso” è la storia della vita di Sonia Maino, la ragazza di Orbassano che  a diciotto anni si innamorò di Rajiv Gandhi e lo sposò, seguendolo in India. Non ci sarebbe poi molto da dire su Sonia per quasi trent’anni, ma non è proprio possibile parlare di lei senza parlare di Indira e di tutta la famiglia Gandhi, e, a questo punto, non si può parlare dei Gandhi senza parlare dell’India. Come ha detto Priyanka dopo le ultime elezioni che hanno visto Sonia portare il partito del Congresso alla vittoria, “Non siamo mai stati padroni della nostra famiglia. L’abbiamo sempre condivisa con il paese.” Come a dire che i Gandhi sono l’India e l’India è i Gandhi.
E allora Javier Moro, con un metodo narrativo che richiama quello di Lapierre e Collins nella loro famosa serie di libri in parte romanzi, in parte storia, in parte inchiesta giornalistica, ci offre un romanzo appassionante e vibrante di ideali e di passioni, politiche e famigliari, palpitante di voci diverse, ricco di profumi che ci sono venuti a noia, tanto sono stati arieggiati in romanzi sciropposi quanto i film di Bollywood, se non fosse che Javier Moro li mescola ai rumori della Storia, con un occhio altrettanto attento al dettaglio dei colori dei sari indossati da Indira e da Sonia nelle varie occasioni quanto a quello delle problematiche economiche e militari dell’India.
     Dalle pagine de “Il sari rosso” balza fuori l’immagine della timida italiana che fece un salto nel buio, quando arrivò a Nuova Delhi nel gennaio del 1968 per sposare Rajiv un mese dopo.
In un’epoca in cui tutto era difficile- viaggiare, telefonare, scrivere lettere che impiegavano anche settimane ad arrivare-, la distanza dell’Italia dall’India era come dall’Italia alla luna oggigiorno. Sonia amava Rajiv. Sonia rimase nell’ombra fino alla morte di Indira e poi di Rajiv, ma in un’ombra necessaria, senza la quale non si potrebbe stare al sole. Il libro di Moro ci racconta delle difficoltà incontrate da Sonia (non ultima quella di abituarsi al clima, lei che soffriva di asma), dell’amicizia con la suocera, dell’ostilità nei suoi confronti da parte della moglie di Sanjay, fratello minore di Rajiv. E, insieme, delle campagne elettorali di Indira, dei suoi nemici, degli errori, del terribile periodo dell’Emergenza, della guerra con il Pakistan, del dolore straziante per la morte di Sanjay, il figlio prediletto che tanto aveva nuociuto alla sua immagine, e di come Rajiv, che avrebbe amato continuare a fare il pilota di aerei, aveva dovuto entrare in politica.
Sanjay e Indira


     A mano a mano che procediamo nella lettura, mentre la morte falcia uno dopo l’altro i membri della famiglia Gandhi, noi ammiriamo sempre più la figura di Sonia, la donna spezzata in due dalla morte di Rajiv che infine decide di accettare la candidatura che il partito del Congresso le offre perché non siano state inutili le morti del marito e della suocera, perché l’India democratica e laica non piombi indietro nell’oscurantismo e nelle lotte di religione.
E pensiamo anche che bisognerebbe parlare di più di donne come lei, che sarebbero un esempio di gran lunga migliore delle ‘sciacquette’ che troppo spesso occupano le prime pagine dei nostri giornali.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


venerdì 21 agosto 2015

Paolo Casadio, “La quarta estate” ed. 2015

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
         seconda guerra mondiale
         FRESCO DI LETTURA

Paolo Casadio, “La quarta estate”
Ed. Piemme, pagg. 224, Euro 15,50

     1943. E’ la quarta estate di guerra. Un giovane medico accetta l’incarico di assistere i bambini della colonia estiva di Marina di Ravenna. Il medico ha sempre vissuto sulle sponde del lago di Garda- il viaggio in treno sotto la minaccia delle bombe, contrattare un passaggio fino alla colonia, la vista del mare, tutto è una scoperta.
     Le suore di san Dalmazia (‘le dalmatine’) dirigono la colonia, si aspettavano un uomo al posto della dottoressa Andrea Dalvina Zanardelli. Aspettativa più che giustificata, visto il nome della dottoressa. E poi, nel 1943, quante erano le donne ad aver studiato medicina, ad aver frequentato l’università? Diffidenza iniziale, presto superata. Il dottore che aveva preceduto Dalvina (preferisce la si chiami così) è ricoverato in una casa di cura- è una figura patetica, grottesca, simbolica in questo romanzo, “La quarta estate”, di Paolo Casadio che riesce a dirci ancora qualcosa sulla guerra che ha segnato il nostro paese ormai più di settanta anni fa. Con lievità e delicatezza. Con un tocco di umorismo e con grande umanità. Il dottor Davide Frega è impazzito nel corso della guerra: crede di essere- attenzione, non Napoleone come spesso leggiamo in ritratti macchiettistici di matti- il Duce. E assomiglia anche al Duce, chissà se per qualche arcano processo di osmosi, come avviene fra due sposi di lunga data. Non ci sfugge l’ironia di questo alias del Duce impazzito che continua a emanare ordini e farnetica su una vittoria assai improbabile.
Comunque Dalvina prende il suo posto e si conquisterà il cuore di tutti. Dei bambini, prima di tutto, che arrivano in condizioni penose. Dalvina non ne sapeva nulla- sono quasi un centinaio di orfani-, non sapeva nulla neppure della malattia per cui vengono in questa colonia marina per trarre giovamento dai bagni: hanno la scrofola, nome tremendo che evoca immagini tremende. E’ l’adenite tubercolare, un ingrossamento delle ghiandole linfatiche che imbruttisce i bambini rendendoli simili a piccoli mostri.
    Da giugno a settembre, tanto dura la cura, seguiamo la vita delle dalmatine, di Dalvina, dei pescatori di Marina, mentre le notizie della guerra giungono sulle onde della radio che le suore ascoltano di nascosto (è Dalvina a scoprire l’apparecchio, nascosto sotto i pizzi dell’altare). Hanno tutte nomi strani, le dalmatine, e ognuna ha un tratto singolare nel suo carattere- una è una bravissima infermiera, due fanno miracoli in cucina, una li fa alla macchina da cucire, un’altra ha delle premonizioni sul futuro (e non osa rivelarle), una ha attitudini al comando.
E’ quella che è un poco gelosa di Dalvina e il perché lo scopriremo alla fine. Le dalmatine sono suore così fuori dal comune che ci riconciliano con gli ordini ecclesiastici, hanno dedicato la loro vita a Cristo ma sono anche donne capaci di provare sentimenti che confessano con pudore e forse con un filo di vergogna, ma pur sempre hanno il coraggio di ammetterli. C’è tanto amore nascosto, nel romanzo di Paolo Casadio. Da parte delle suore, da parte di un pescatore che non osa farsi avanti con quella bella dottoressa dai capelli colore albicocca, da parte di Dalvina che prende sotto le sue ali uno dei bambini, che paga di tasca sua per avere del pescato in più per nutrire i malatini, come paga per comprare gli occhiali ad una bimba di Marina il cui padre è disperso in Russia, da parte di tutti i bambini che ricambiano l’affetto di chi si dà così generosamente a loro, da parte dell’intero paese di pescatori.
    E’ come se la colonia fosse un’isola felice in un mare di guerra. Come se fosse il luogo dove, mentre intorno divampano odi e si sparge sangue, la vita ha ancora un valore, per quanto piccola, per quanto imperfetta. E l’amore è come le erbe selvatiche che le suore raccolgono per farne minestre e frittate, perché si sono accorte di un miglioramento nelle condizioni dei bambini e ne attribuiscono il motivo a quel cibo povero di guerra.
La voce del mare, così eternamente suadente, fa da controcanto al rombo dell’aereo ‘Pippo’ in perlustrazione notturna, la luce interna dei personaggi ha la meglio sull’oscuramento delle finestre. Anche dopo che tutto va a rotoli, dopo l’8 settembre, dopo che il treno su cui Dalvina ritorna a casa viene bombardato.




giovedì 20 agosto 2015

Eshkol Nevo, “Soli e perduti” ed. 2015

                                                    Voci da mondi diversi. Medio Oriente
              FRESCO DI LETTURA


Eshkol Nevo, “Soli e perduti”
Ed. Neri Pozza, trad. Ofra Bannet e Raffaella Scardi, pagg. 264, Euro 17,50
Titolo originale: Ha’mikveh ha’acharon beSibir


   Preferirei che tu aspettassi a sbandierarlo ai quattro venti, lo prega. Io…ammetto di provare un po’ di disagio per quello che abbiamo fatto. O meglio, non provo disagio per quello che abbiamo fatto. Ma per il posto in cui l’abbiamo fatto. Insomma non è un caso se in quel posto donne e uomini stanno separati. Ho un vago ricordo…la mia bisnonna…non sono sicura…forse non si tratta proprio di un banja, forse è un luogo…un luogo sacro…e noi, senza saperlo offendiamo qualcuno…la tradizione…

   Geremia Mendelshtorm è rimasto vedovo dopo quarant’anni di matrimonio. Lui e la moglie vivevano nel New Jersey e l’America non è come Israele, in America ‘le famiglie sono come i cocci di un vaso, non come i pezzi di un puzzle’. E Geremia rimpiange la moglie, si sente terribilmente solo. Pensa di fare qualcosa perché il nome di lei sia ricordato per sempre: finanzierà la costruzione di un mikveh, un bagno rituale, nella Città dei Giusti in Israele, dove si sarebbero dovuti recare in viaggio entrambi, se il destino non avesse deciso altrimenti.
    Su questo pretesto narrativo Eshkol Nevo ha costruito il suo nuovo romanzo, “Soli e perduti”, interamente percorso da una vena di ironia mescolata però ad una certa tristezza- quasi tutti i personaggi del libro sono persone sole, o persone che hanno trovato un compagno o una compagna cercando di fuggire dalla solitudine, persone spaesate perché costrette a lasciare il paese d’origine, incapaci di inserirsi pienamente in una nuova terra di cui non conoscono la lingua e difficilmente la impareranno.
Non è possibile costruire un altro mikveh nella Città dei Giusti. Ce ne sono già troppi. Tuttavia il sindaco non vuole proprio rinunciare a quel generoso lascito. Si farà così: il mikveh sarà costruito in Siberia, il quartiere dove nessun israeliano voleva andare ad abitare perché circolava una voce sullo spirito di uno dei Giusti che protestava su quelle abitazioni costruite sopra le tombe ed allora era stato destinato a degli immigrati russi che non capivano l’ebraico, non sospettavano nulla, ancora grazie che avevano delle case in cui vivere. E però non sapevano neppure che cosa fosse e a che cosa servisse un mikveh. Incomincia così un gioco degli equivoci che suscita un riso condito di amarezza, perché, se da una parte ci diverte l’errore causato dall’incomunicabilità- i russi sono convinti che venga costruito per loro un circolo in cui riunirsi per giocare a scacchi, con tutte le conseguenze di questo equivoco- dall’altra ci dà pena leggere dell’operaio arabo, appassionato ornitologo, che viene arrestato e sottoposto ad interrogatori perché confessi che stava spiando la base segreta con il suo binocolo. Prevale tuttavia il divertimento, soprattutto nel finale, quando- sempre grazie all’incomprensione linguistica che poi è anche incomprensione culturale, un abisso difficile a superare per ebrei provenienti da luoghi così disparati- il mikveh è usato, sì, ma per tutt’altro. Somma ironia in senso letterale, visto che quello che dovrebbe essere un bagno di purificazione diventa un bagno di giocosa lussuria. E intanto abbiamo seguito le storie dei vari personaggi, dell’amore del segretario del sindaco per una donna che lui ha deluso ed è scomparsa per riapparire adesso nell’improbabile veste della donna che riceve all’ingresso chi si reca al bagno, dell’impotenza del non-ebreo russo che ha seguito la donna che ama in Israele, dello stesso Geremia Mendelshtorm che si è consolato abbastanza presto del dolore per la perdita della moglie.



     I personaggi del romanzo di Eshkol Nevo sono per lo più “Assoli perduti”, “Lost solos”, come vengono chiamati gli uccelli solitari che appaiono inaspettatamente lontano dalla loro rotta migratoria, in una parte del mondo dove non dovrebbero stare. L’immagine è bella, ma il significato pare leggermente forzato nel contesto. Le storie sono un poco sfilacciate e non sempre i personaggi ci convincono. Anche l’unico arabo, il lavoratore Naim che, in un altro gioco di equivoci, lascia che tutti lo chiamino con un nome ebraico, Noam, viene allontanato in maniera alquanto superficiale, lui stesso un ennesimo assolo perduto, uno degli uccelli che ama osservare.

la recensione sarà pubblicata su www.wuz.it