sabato 30 gennaio 2021

Maggie O’Farrell, “Nel nome del figlio” ed. 2021

                               Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

   biografia romanzata

   romanzo storico

Maggie O’Farrell, “Nel nome del figlio”

Ed. Guanda, trad. S. De Franco, pagg. 275, Euro 19,00

   Hamnet. Hamlet. Soltanto una consonante che li differenzia, anche se in realtà, nei registri parrocchiali dell’epoca, risulta che fossero lo stesso nome. Per Hamnet, il figlio del Bardo che morì a 11 anni nel 1596, e per Hamlet, il protagonista di una delle più famose tragedie di Shakespeare,

    Il titolo originale del romanzo di Maggie O’Farrell è proprio “Hamnet” e la dedica è ‘a Will’. C’è un solo ‘Will’, non c’è bisogno del cognome. Nel libro, però, che inizia con la corsa disperata del bambino in cerca della madre, della nonna, del dottore, di qualcuno che venga a visitare Judith, la sua gemella che sta molto male, non è Hamnet il personaggio principale, e neppure il grande poeta. È Agnes Hathaway, la donna che Shakespeare sposò quando lui aveva solo diciotto anni e lei ventisei ed era incinta di tre mesi. È Agnes e il suo rapporto con Will (mai nominato), come il dolore per la perdita di un figlio abbia cambiato lei, abbia influenzato la scrittura di lui, abbia segnato una svolta nel loro amore, che sono il soggetto del romanzo.

    Maggie O’Farrell non aveva molto materiale su cui lavorare. Di Hamnet si sa pochissimo, sembra probabile che sia morto di peste. Della vita privata di Shakespeare sappiamo che era nato a Stratford-on-Avon nel 1564, figlio di un guantaio che aveva avuto una carica ufficiale nella cittadina ma che poi si era riempito di debiti. Sappiamo che insegnava e non voleva continuare a fare il lavoro del padre. La tradizione vuole che Agnes lo abbia ‘incastrato’, che lui fosse andato a Londra per allontanarsi da un matrimonio infelice. La scrittrice ribalta tutto ciò. La sua Agnes è una giovane donna affascinante perché un poco selvaggia, che ha addomesticato un gheppio, che sa riconoscere le erbe e preparare pozioni curative, che ha delle premonizioni per il futuro. C’è passione tra Agnes e Will.I loro tre figli, Susanna e i gemelli Hamnet e Judith, erano i figli dell’amore. E c’è amore anche nel sostegno che Agnes dà al marito perché vada a Londra, per realizzare se stesso e per allontanarsi da un padre padrone che lo disprezza perché quel figlio che scribacchia gli sembra un fannullone.

Stratford-on-Avon

    La narrazione di Maggie O’Farrell segue un doppio binario di passato e presente- il presente che incomincia con la malattia di Judith e la morte di Hamnet, con il padre che si affretta a tornare da Londra interrompendo uno spettacolo, che si rallegra perché la bimba è guarita, che piomba nel dolore quando gli dicono che è morto invece il gemello, con la madre che si macera nel senso di colpa per non essere stata capace di salvare il figlio, e il passato che è illuminato dalla gloria dell’amore e della scoperta reciproca prima che sopravvenga l’irrequietezza di Will che si rintana in soffitta a scrivere.

    Non abbondano i dialoghi nel romanzo, la scrittrice evita il pericolo di mettere parole stonate in bocca ai suoi personaggi, riesce piuttosto nel piccolo miracolo di evocare protagonisti e ambienti delle opere a noi note.


In Agnes vediamo Ofelia che si aggira con fasci di fiori in mano, scorgiamo Caterina con le sue impennate bizzarre, nella specularità di Hamnet e Judith riconosciamo i gemelli Viola e Sebastian che si scambiano gli abiti, nel dolore del poeta sentiamo il grido straziato di re Lear, quel ‘no’ che rifiuta la morte dell’amata Cordelia, ed infine, nel “Ricordami” del fantasma del re Hamlet, leggiamo l’imperativo dolente di un bambino morto troppo presto.

Perché è lì che tende il romanzo, alla tragedia di cui Agnes fraintende il titolo, pensando sia uno sfregio al loro bambino e capisce poi che è, invece, un messaggio accorato. Per non dimenticare.

    Maggie O’ Farrell ha vinto il Women’s Prize for Fiction 2020 con questo romanzo. Bellissimo.

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mercoledì 27 gennaio 2021

Norbert Scheuer, “Le api d’inverno” ed. 2021

                                            Voci da mondi diversi. Area germanica

seconda guerra mondiale

Norbert Scheuer, “Le api d’inverno”

Ed. Neri Pozza, trad. Chiara Ujka, pagg. 239, Euro 18,00

    Germania 1944, un paesino vicino al confine del Belgio. È per l’assenza degli uomini che si avverte la guerra. La gente guarda male Egidius Arimond che non veste la divisa, pensa che sia un imboscato. Perché Egidius ha tenuto nascosto il suo segreto- soffre di epilessia.

Se non fosse per suo fratello che è un eroe, un acclamato pilota della Luftwaffe, Egidius sarebbe stato eliminato secondo il programma di eutanasia Aktion T4 che prevede la soppressione delle persone afflitte da malattie genetiche o mentali. Egidius era stato ‘soltanto’ sterilizzato e licenziato dall’incarico di insegnante di latino.

Se non fosse per suo fratello che riesce a procurargli le medicine, non potrebbe tenere a bada gli attacchi che lo lasciano stremato. Vive facendo l’apicoltore, come suo padre prima di lui.

   Due diari, uno dentro l’altro. Quello di Egidius, che inizia nel gennaio del 1944 e termina in un giorno di maggio del 1945, e frammenti di quello del suo antenato, il monaco Ambrosius che, alla fine del 1400, aveva portato dall’Italia l’Apis mellifera carnica, un tipo di ape più resistente. Quel monaco Ambrosius che aveva abbandonato il monastero perché si era innamorato di una contadina e con lei aveva dato origine alla stirpe degli Arimond.

    Il diario di Egidius inizia con la notizia di un aereo americano abbattuto, come a smentire l’atmosfera di pace e  le idilliache descrizioni della vita delle api. Gli aerei e le api- bella questa contrapposizione di immagini degli occupanti del cielo (i disegni di aerei disseminati nelle pagine del romanzo sono opera del figlio dello scrittore). Guerra e pace, anche se impareremo che anche le api hanno una fase in cui sono in guerra, quando le api operaie uccidono i fuchi dopo che questi hanno fecondato la regina.

   Egidius racconta della sua vita quotidiana, delle api, degli incontri con la donna il cui marito è al fronte, delle richieste inutili al farmacista per avere le medicine. Ci svela lo straordinario mondo delle api che, sospettiamo, ha molto in comune con quello degli uomini. Forse io non possiedo affatto le api, ma sono loro a possedere me; forse siamo tutti, api comprese, parte di un misterioso organismo immortale e spietato. E ci dice qualcos’altro, minimizzando, quasi nascondendosi dietro le sue api, proprio come nasconde le persone che trasporta verso la salvezza. Perché Egidius, quando va nei pascoli dove tiene una parte delle arnie vicino al confine, nasconde sul carro, in cassette fatte apposta per apparire simili a quelle in cui sono le api, degli ebrei. Il metodo che ha escogitato per ingannare i controlli è ingegnoso- lo scoprirete. Egidius non fa mistero del suo odio per Hitler e tuttavia non è solo per buon cuore che porta della gente in salvo. Ha bisogno di soldi per le medicine.

   Il diario del monaco del secolo XV ci racconta un’altra storia avventurosa, di un altro salvataggio che aveva cambiato la vita di Ambrosius. Dopo aver ripescato da un lago ghiacciato la cassetta con il cuore del cardinale Cusano e aver suggerito di usare le api per impedirne la putrefazione, il giovane Ambrosius aveva seguito il segretario del cardinale fino a Cusa, era entrato nell’ordine dei benedettini e aveva potuto studiare.

    L’arte della scrittura di Norbert Scheuer si chiama discrezione. Non c’è niente di esagerato nella sua narrazione, c’è senso della misura nel prospettarci sempre una doppia visuale- Egidius che fa l’apicoltore al riparo dalla guerra e suo fratello Alfons che ha abbattuto più di 1000 aerei, il mondo delle bombe (la guerra è poi arrivata anche là, quasi tutte le case sono in macerie) e quello delle api e della biblioteca in cui Egidius si rifugia a tradurre i frammenti di Ambrosius, gli ebrei in fuga e il pilota americano che è un’ombra che fugge lungo tutto il libro, il rombo dei motori degli aerei che Egidius sa identificare allo stesso modo in cui interpreta il ronzio delle amate api. A un certo punto la vita delle api si mescolerà con la mia, e la loro e la mia non saranno più distinguibili; farà buio come in un alveare d’inverno.

   Un romanzo molto bello, per tutto quello che dice con le parole, per quello che dice senza dirlo, per il miracolo del ciclo delle api cui ci fa prendere parte. Perché lo sappiamo- non importa quello che succederà a Egidio o a noi stessi, è nelle api la salvezza del mondo.

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lunedì 25 gennaio 2021

Nguyễn Phan Quế Mai, "Quando le montagne cantano" Intervista 2021

 


    Sono parecchie le coincidenze che mi hanno colpito, leggendo “Quando le montagne cantano”, il romanzo di Nguyễn Phan Quế Mai. Ritrovare il fior di loto, uno dei simboli che ho ‘adottato’ in un anno con disavventure da cui non volevo lasciarmi abbattere, leggere una frase di Huong, la principale voce narrante, Mi ero convinta che, se le persone avessero incominciato a leggere e a scoprire le culture degli altri popoli, non ci sarebbero più state guerre, che mi è sembrato significasse quello che io amavo ripetere, “i libri salveranno il mondo”. E sono stata felice che Nguyễn Phan Quế Mai   acconsentisse a rispondere alle mie domande.

Ho letto che è nata nel 1973, il che vuol dire che è passata attraverso la guerra nei suoi primi due anni di vita. Di certo era troppo giovane per aver conservato qualche ricordo della guerra, ma deve ricordare che cosa ha significato crescere dopo la guerra. Quale è stata la sua esperienza?

     Avevo sei anni quando, in una notte d’estate, mi ritrovai seduta su un carro trainato da un bufalo d’acqua, fra mucchi dei nostri pochi vestiti, pentole, ciotole e bacchette per mangiare. Qualche giorno prima i miei genitori mi avevano detto che avevano deciso che saremmo andati al Sud. A Bac Lieu, un paesino all’estremità Sud del delta del Mekong, le tempeste non avrebbero rovinato i nostri raccolti come succedeva a Ninh Binh. Avremmo avuto abbastanza da mangiare e, soprattutto, i miei fratelli ed io avremmo avuto la possibilità di studiare e, un giorno, andare all’università. In quel viaggio che mi portava a mille chilometri di distanza, verso Sud, vedevo buio e luce, dolore e speranza, con gli occhi ingenui di una bambina- nei crateri delle bombe che la guerra aveva scavato nella terra, nei campi di smeraldo punteggiati dai bufali e dai contadini con le schiene curve sul riso, nelle montagne maestose e nelle spiagge lungo l’oceano blu.


Una volta arrivati al Sud, mi aspettavano il riso, i fagiolini e i semi di sesamo nel pezzo di terra che i miei genitori coltivavano e che era stato il poligono di tiro dei soldati dell’esercito della Repubblica. Toccavo la guerra e la morte nel metallo freddo delle pallottole e delle granate non esplose che tiravo fuori dalla terra e che vendevo per ricavarne soldi per mangiare e per pagare le tasse della nostra scuola.

Di quegli anni ricordo la madre che si era suicidata perché i due figli non erano tornati dalla guerra, ricordo le donne che aspettavano il ritorno dei loro uomini dai campi di rieducazione dove erano stati mandati perché avevano combattuto a fianco degli americani, i compagni di scuola che scomparivano per affrontare l’oceano che li avrebbe portati ad una vita migliore, gli uomini che bruciavano banconote quando il governo lanciava una campagna contro i capitalisti. Tutti questi ricordi hanno ispirato il mio romanzo e mi hanno aiutato a ricordare come i vietnamiti abbiano superato innumerevoli calamità grazie alla loro determinazione, alla capacità di lavorare insieme, alla speranza e alla gentilezza.

Pagoda a Bac Lieu

Quanto c’è della storia della Sua famiglia in quella dei Tran?

     “Quando le montagne cantano” è una storia inventata, ma è ispirata alle esperienze della mia famiglia e dalle persone che conosco. Mia nonna fu uccisa in un campo di granturco durante la Carestia, mio nonno morì a causa della Riforma Agraria e mio zio perse la giovinezza nella guerra. Per cercare di capire quello che avevano passato io ho scritto “Quando le montagne cantano”. Una volta il poeta Ocean Vuong ha detto che ci si aspetta che gli scrittori di colore siano un ponte che permette ai lettori di entrare nei loro mondi, ma noi siamo più che dei ponti, noi possiamo essere costruttori di mondi. Ho costruito il mondo di “Quando le montagne cantano” con la mia immaginazione. La base di quel mondo sono la mia ricerca e le storie vere che ho raccolto, e la chiave per aprire quel mondo è l’immaginazione dei lettori.

A volte è difficile reggere al dolore che è presente nelle pagine del libro. Il trauma di un intero paese è rappresentato nel trauma fisico e spirituale dei personaggi. Come si può riuscire ad aiutare delle persone che sono state così profondamente ferite?


      Scrivere di un trauma significa vivere nuovamente quel trauma e si possono immaginare le lacrime che ho versato e il dolore che ho sofferto nei sette anni in cui ho lavorato a questo libro. Provavo io stessa il dolore dei miei personaggi e quel dolore non mi abbandonato. Quel dolore si è inciso dentro di me così che mi sembra di aver vissuto molte altre vite, così che mi è prezioso il valore della pace di oggi. Scrivere del trauma è anche il processo di condividerlo, di modo che chi lo ha sofferto sa di non essere solo, che ci siamo dentro insieme e che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Andare verso l’altro, ascoltarlo e condividere le storie è il processo per guarire.

Nel libro non troviamo sentimenti di odio. C’è odio solo nei confronti del vietnamita Spirito Malvagio che ha ucciso la bisnonna di Huong. Si odia la guerra ma non gli americani. La dottrina del Budda ha qualcosa da fare con questo?

    Io ho scritto il libro per vendicarmi, vendicarmi dell’uomo che aveva ucciso mia nonna nel campo di granturco, l’uomo che nel libro ho chiamato Spirito Malvagio. Alla fine del romanzo, invece di trovare vendetta, ho trovato invece il perdono. Penso che questo mondo abbia più bisogno di perdono che di odio. L’odio porta alla guerra e il perdono è la base della pace.

Qualcosa che mi ha colpito fin dall’inizio, dalle parole in apertura “mia nonna diceva sempre che quando i nostri antenati muoiono non scompaiono davvero ma continuano a vegliare su di noi”, ed è il culto dei morti. È ancora presente, questo ricordo costante, nel Vietnam di oggi?


     I vietnamiti hanno il culto degli antenati. Troverete un altare per gli antenati in ogni casa vietnamita. Preghiamo per i nostri antenati, offriamo loro cibo e li invitiamo in casa in festività speciali come il Nuovo Anno vietnamita o l’anniversario della loro morte. In realtà non lo chiamerei ‘culto’ ma una pratica tradizionale, un rituale prezioso nella vita vietnamita. Le famiglie vietnamite spesso hanno un libro di famiglia dove registrano i nomi degli antenati per generazioni. Credo che sia necessario sapere da dove veniamo perché senza gli antenati noi non saremmo qui. “Quando le montagne cantano” è soprattutto l’omaggio reso da Huong ai suoi antenati- ecco perché brucia l’incenso all’inizio e alla fine del libro.

Ho visitato il Museo di Saigon e sono rimasta inorridita e scioccata dalle fotografie che mostrano le conseguenze dell’Agente Arancio. E sono inorridita ancora di più quando ho letto del tentativo di minimizzare queste conseguenze attribuendone la colpa agli insetticidi usati dai contadini nei campi. C’è stato un risarcimento per le vittime? O delle scuse ufficiali?

Museo della Storia del Vietnam- Ho Chi Minh City

  Ho sottolineato le conseguenze dell’Agente Arancio perché penso non sia stato fatto abbastanza per le vittime. Negli anni in cui ho lavorato ad Hanoi, ho fondato un’organizzazione volontaria per aiutare I bambini disabili a causa dell’Agente Arancio. Se si visitano degli orfanotrofi in Vietnam, se ne incontrano molti. Ci sono centinaia di migliaia di persone che devono convivere con le conseguenze dell’Agente Arancio. Non c’è stato nessun risarcimento per le vittime. L’esercito Americano e i produttori delle sostanze chimiche dell’Agente Arancio hanno negato la loro responsabilità anche se hanno invece pagato il risarcimento ai veterani americani. Per quanto ne so, non c’è stata nessuna scusa per le vittime vietnamite. Ci sono stati dei procedimenti penali ma non credo che le vittime abbiano ancora avuto qualche risultato.

Huong è una grande lettrice e suppongo che anche Lei lo sia. Huong spiega perché il romanzo di Laura Ingalls Wilder l’abbia influenzata, ma io sono stata colpita di più dal fatto che abbia ricevuto in regalo “Pinocchio”. Era possibile trovare una traduzione in vietnamita di Pinocchio negli anni ‘80? Era un libro popolare tra i bambini?

   

la mia copia di Pinocchio-1919

Ero un vero topo di biblioteca- e lo sono ancora. La mia famiglia era povera ma era ricca di libri: i miei genitori, che erano insegnanti e contadini, compravano tanti libri con i pochi soldi che avevano. E io li leggevo così tante volte che le pagine finivano per staccarsi. Allora mio padre, con le sue mani d’oro, li rilegava con il filo e li copriva con copertine di cartone. A Saigon, nella casa dei miei genitori, abbiamo ancora alcuni di quei libri. Crescendo negli anni ‘80 nel Vietnam del Sud, uno dei miei libri preferiti era “Pinocchio”. Con quel libro potevo viaggiare in Italia per la prima volta e mi piaceva molto (sono tornata spesso in Italia e ne ho scritto nel mio libro di racconti di viaggio intitolato “From the snow to the sun”). Per ora il libro si trova solo in lingua vietnamita.

Uno dei motivi per cui molti vietnamiti erano affascinati da Pinocchio è che noi abbiamo un naso piatto ed avere un naso pronunciato è segno di bellezza. Siamo affascinati dai nasi ed è una grande esperienza leggere le avventure birichine di un ragazzetto con un naso molto lungo. Ho letto quel libro proprio quando ci eravamo appena trasferiti dal Vietnam del Nord a quello del Sud e, in un certo modo, mi sentivo come Pinocchio- un’estranea. Inoltre Pinocchio ha dovuto superare molte situazioni difficili che erano una sfida per lui, eppure è rimasto gentile verso gli altri e ha sempre amato il padre Geppetto, il falegname. Ricordo che leggevo il libro quando avevo molta fame e pure Pinocchio era in cerca di cibo. Saranno passati quarant’anni da quando l’ho letto, ma ricordo ancora che Pinocchio mangiava una cipolla e io avevo così tanta fame che ne annusavo il profumo mentre lo sentivo sgranocchiare. Era qualcosa di magico, il potere dell’immaginazione che Carlo Collodi suscitò in me.


Dopo la guerra, molti vietnamiti diventarono avidi lettori e circolavano molte traduzioni. Uno dei miei libri preferiti di letteratura infantile tradotta in vietnamita, di cui non ho parlato in “Quando le montagne cantano”, è “Le mille e una notte”. È il libro che mi ha fatto capire che le storie possono salvare noi stessi e gli altri, e la capacità di immaginare, di credere, di viaggiare con le storie è una magia della vita stessa.

Come è stato accolto il romanzo in Vietnam? Si può parlare apertamente degli errori della Riforma Agraria o c’è la censura?

    Nei prossimi anni tradurrò io stessa il mio romanzo in vietnamita. Per ora quelli che in Vietnam sanno leggere in inglese lo hanno accolto in una maniera stupefacente. La Riforma Agraria è un argomento doloroso e ci sono molti libri su di questo. Ho visto di recente dei romanzi che affrontano direttamente il tema degli errori della Riforma. Tuttavia c’è ancora la censura e spesso gli scrittori devono tagliare alcune parti dei loro romanzi. Spero che ci sarà un progresso.

Ho letto il Suo libro di poesie “The secret of Hoa Sen”. Le poesie sono bellissime: sembra di leggere il romanzo in versi. Mi incanta la simbologia del fior di loto, hoa sen: sbaglio nel vederlo come un simbolo per il Vietnam?

    Il fior di loto è il mio fiore preferito ed è anche il fiore del Vietnam. È il simbolo della purezza, della bellezza e della forza, perché cresce dal fango senza esserne sporcato. Qualche anno fa ero al lancio di un mio libro ad Hanoi e, sapendo quanto io ami i fiori di loto, i miei amici sono andati al West Lake alle cinque del mattino e hanno comprato centinaia di fiori di loto per riempire il luogo dove si sarebbe tenuto l’evento. Leggevo le mie poesie avvolta nel profumo dei fiori di loto, non lo dimenticherò mai.

Huong si chiede se i fantasmi della guerra scompariranno mai. Sono scomparsi 45, quasi 46 anni, dopo la fine della guerra? O è ancora troppo presto?

  


  Viet Thanh Nguyen, l’autore de “Il simpatizzante”, nel suo libro “Niente muore mai” ha scritto: “Tutte le guerre si combattono due volte, la prima volta sul campo di battaglia e la seconda nella memoria.” Le guerre nella nostra memoria sono più crudeli e durano più a lungo delle guerre fisiche. Parenti di milioni di persone che sono morte o furono date per disperse, vittime dell’Agente Arancio, orfani di guerra, devo combattere ogni giorno contro i fantasmi della guerra. Temo che quei fantasmi non scompariranno molto presto. Con “Quando le montagne cantano” voglio mostrare che le guerre non solo uccidono e feriscono le persone, ma dividono le famiglie e le comunità, distruggono la natura così come la cultura e il tessuto stesso della società. Per questo si dovrebbero ad ogni costo evitare le guerre e tutti noi dovremmo contribuire di più alla pace.

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domenica 24 gennaio 2021

Amanda Gorman, "The hill we climb" 20 gennaio 2021

 


     Ho notato i colori, per prima cosa, delle tre figure femminili che salivano la scalinata di Capitol Hill il 20 gennaio 2021, Inauguration Day, un giorno che resterà nella Storia. Blu laguna per Jill Biden, viola con un tocco di pervinca per Kamala Harris e giallo per la giovane poetessa Amanda Gorman che doveva imporsi alla nostra attenzione con la poesia che avrebbe recitato, “The hill we climb”. Mi è sembrato che quei tre colori così ben armonizzati fossero un segnale di speranza e di fiducia nella democrazia, un messaggio per cancellare la scena dei disordini su quella stessa scalinata presa d’assalto una quindicina di giorni prima. Che fossero i tre colori di una bandiera sventolata da queste tre donne, di età, origini e ruoli diversi, pronte ad essere loro stesse luce, come dicono i versi finali della poesia che qui potete leggere, nel testo originale e nella traduzione.

Amanda Gorman, nata a Los Angeles il 7 marzo 1998, ha pubblicato il suo primo libro di poesie nel 2015 e nel 2017 ha vinto il titolo di National Youth Poet Laureate, che premia il migliore giovane talento nel campo della poesia negli Stati Uniti. È stata scelta per leggere una sua poesia durante la cerimonia di insediamento del nuovo Presidente, Joe Biden.

THE HILL WE CLIMB

When day comes, we ask ourselves where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry, a sea we must wade.
We’ve braved the belly of the beast.
We’ve learned that quiet isn’t always peace,
and the norms and notions of what “just” is isn’t always justice.
And yet, the dawn is ours before we knew it.
Somehow we do it.
Somehow we’ve weathered and witnessed a nation that isn’t broken,
but simply unfinished.
We, the successors of a country and a time where a skinny Black girl descended from slaves and raised by a single mother can dream of becoming president, only to find herself reciting for one.

And yes, we are far from polished, far from pristine,
but that doesn’t mean we are striving to form a union that is perfect.
We are striving to forge our union with purpose.
To compose a country committed to all cultures, colors, characters, and conditions of man.
And so we lift our gazes not to what stands between us, but what stands before us.
We close the divide because we know, to put our future first, we must first put our differences aside.
We lay down our arms so we can reach out our arms to one another.
We seek harm to none and harmony for all.
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew.
That even as we hurt, we hoped.
That even as we tired, we tried.
That we’ll forever be tied together, victorious.
Not because we will never again know defeat, but because we will never again sow division.

Scripture tells us to envision that everyone shall sit under their own vine and fig tree and no one shall make them afraid.
If we’re to live up to our own time, then victory won’t lie in the blade, but in all the bridges we’ve made.
That is the promise to glade, the hill we climb, if only we dare.
It’s because being American is more than a pride we inherit.
It’s the past we step into and how we repair it.
We’ve seen a force that would shatter our nation rather than share it.
Would destroy our country if it meant delaying democracy.
This effort very nearly succeeded.
But while democracy can be periodically delayed,
it can never be permanently defeated.
In this truth, in this faith, we trust,
for while we have our eyes on the future, history has its eyes on us.
This is the era of just redemption.
We feared it at its inception.
We did not feel prepared to be the heirs of such a terrifying hour,
but within it, we found the power to author a new chapter, to offer hope and laughter to ourselves.
So while once we asked, ‘How could we possibly prevail over catastrophe?’ now we assert, ‘How could catastrophe possibly prevail over us?’

We will not march back to what was, but move to what shall be:
A country that is bruised but whole, benevolent but bold, fierce and free.
We will not be turned around or interrupted by intimidation because we know our inaction and inertia will be the inheritance of the next generation.
Our blunders become their burdens.
But one thing is certain:
If we merge mercy with might, and might with right, then love becomes our legacy and change, our children’s birthright.

So let us leave behind a country better than the one we were left.
With every breath from my bronze-pounded chest, we will raise this wounded world into a wondrous one.
We will rise from the golden hills of the west.
We will rise from the wind-swept north-east where our forefathers first realized revolution.
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states.
We will rise from the sun-baked south.
We will rebuild, reconcile, and recover.
In every known nook of our nation, in every corner called our country,
our people, diverse and beautiful, will emerge, battered and beautiful.
When day comes, we step out of the shade, aflame and unafraid.
The new dawn blooms as we free it.
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it.
If only we’re brave enough to be it.

LA COLLINA CHE SCALIAMO

Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine?
La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo guadare.
Noi abbiamo sfidato la pancia della bestia.
Noi abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,
e le norme e le nozioni di quel che «semplicemente» è non sono sempre giustizia.
Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgersene.
In qualche modo, ce l’abbiamo fatta.
In qualche modo, abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa nazione non sia rotta,
ma, semplicemente, incompiuta.
Noi, gli eredi di un Paese e di un’epoca in cui una magra ragazza afroamericana, discendente dagli schiavi e cresciuta da una madre single, può sognare di diventare presidente, per sorprendersi poi a recitare all’insediamento di un altro.

Certo, siamo lontani dall’essere raffinati, puri,
ma ciò non significa che il nostro impegno sia teso a formare un’unione perfetta.
Noi ci stiamo sforzando di plasmare un’unione che abbia uno scopo.
(Ci stiamo sforzando) di dar vita ad un Paese che sia devoto ad ogni cultura, colore, carattere e condizione sociale.
E così alziamo il nostro sguardo non per cercare quel che ci divide, ma per catturare quel che abbiamo davanti.
Colmiamo il divario, perché sappiamo che, per poter mettere il nostro futuro al primo posto, dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze.
Abbandoniamo le braccia ai fianchi così da poterci sfiorare l’uno con l’altro.
Non cerchiamo di ferire il prossimo, ma cerchiamo un’armonia che sia per tutti.
Lasciamo che il mondo, se non altri, ci dica che è vero:
Che anche nel lutto, possiamo crescere.
Che nel dolore, possiamo trovare speranza.
Che nella stanchezza, avremo la consapevolezza di averci provato.
Che saremo legati per l’eternità, l’uno all’altro, vittoriosi.
Non perché ci saremo liberati della sconfitta, ma perché non dovremo più essere testimoni di divisioni.

Le Scritture ci dicono di immaginare che ciascuno possa sedere sotto la propria vite e il proprio albero di fico e lì non essere spaventato.
Se vorremo essere all’altezza del nostro tempo, non dovremo cercare la vittoria nella lama di un’arma, ma nei ponti che avremo costruito.
Questa è la promessa con la quale arrivare in una radura, questa è la collina da scalare, se avremo il coraggio di farlo.  
Essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo.
È il passato in cui entriamo ed è il modo in cui lo ripariamo.
Abbiamo visto una forza che avrebbe scosso il nostro Paese anziché tenerlo insieme.
Lo avrebbe distrutto, se avesse rinviato la democrazia.
Questo sforzo è quasi riuscito.
Ma se può essere periodicamente rinviata,
la democrazia non può mai essere permanentemente distrutta.
In questa verità, in questa fede, noi crediamo,
Finché avremo gli occhi sul futuro, la storia avrà gli occhi su di noi.
Questa è l’era della redenzione.
Ne abbiamo avuto paura, ne abbiamo temuto l’inizio.
Non eravamo pronti ad essere gli eredi di un lascito tanto orribile,
Ma, all’interno di questo orrore, abbiamo trovato la forza di scrivere un nuovo capitolo, di offrire speranza e risate a noi stessi.
Una volta ci siamo chiesti: “Come possiamo avere la meglio sulla catastrofe?”. Oggi ci chiediamo: “Come può la catastrofe avere la meglio su di noi?”.

Non marceremo indietro per ritrovare quel che è stato, ma marceremo verso quello che dovrebbe essere:
Un Paese che sia ferito, ma intero, caritatevole, ma coraggioso, fiero e libero.
Non saremo capovolti o interrotti da alcuna intimidazione, perché noi sappiamo che la nostra immobilità, la nostra inerzia andrebbero in lascito alla prossima generazione.
I nostri errori diventerebbero i loro errori.
E una cosa è certa:
Se useremo la misericordia insieme al potere, e il potere insieme al diritto, allora l’amore sarà il nostro solo lascito e il cambiamento, un diritto di nascita per i nostri figli.

Perciò, fateci vivere in un Paese che sia migliore di quello che abbiamo lasciato.
Con ogni respiro di cui il mio petto martellato in bronzo sia capace, trasformeremo questo mondo ferito in un luogo meraviglioso.
Risorgeremo dalle colline dorate dell’Ovest.
Risorgeremo dal Nord-Est spazzato dal vento, in cui i nostri antenati, per primi, fecero la rivoluzione.
Risorgeremo dalle città circondate dai laghi, negli stati del Midwest.
Risorgeremo dal Sud baciato dal sole.
Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo.
In ogni nicchia nota della nostra nazione, in ogni angolo chiamato Paese,
La nostra gente, diversa e bella, si farà avanti, malconcia eppure stupenda.
Quando il giorno arriverà, faremo un passo fuori dall’ombra, in fiamme e senza paura.
Una nuova alba sboccerà, mentre noi la renderemo libera.
Perché ci sarà sempre luce,
Finché saremo coraggiosi abbastanza da vederla.
Finché saremo coraggiosi abbastanza da essere noi stessi luce.



 

sabato 23 gennaio 2021

Erik Larson, “Splendore e viltà” ed. 2020

                            Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

seconda guerra mondiale

Erik Larson, “Splendore e viltà”

Ed. Neri Pozza, trad. Raffaella Vitangeli, pagg. 698, Euro 22,00

   10 maggio 1940-10 maggio 1941. È l’arco di tempo coperto da “Splendori e viltà”, il nuovo libro di Erik Larson incentrato sulla figura di Winston Churchill nel suo esordio in qualità di primo ministro inglese in quel primo anno drammatico e scioccante di guerra.

    Il primo settembre 1939 Hitler aveva invaso la Polonia, la risposta dell’Inghilterra era stata immediata- il 3 settembre aveva dichiarato guerra alla Germania e si preparava al peggio. Era stato ordinato l’oscuramento, trentacinque milioni di maschere antigas erano state distribuite ai civili, i segnali stradali erano stati smontati, le campane delle chiese avrebbero suonato solo in caso di allarme e nessuno aveva mai rivolto così spesso lo sguardo alla luna- era quasi certo che i bombardieri avrebbero attaccato  quando la luce lunare rendeva gli obiettivi più facilmente individuabili.  

È in questo clima che fu eletto, non senza molte incertezze, Winston Churchill. Fu l’uomo giusto nel momento giusto.

     C’è ancora qualcosa da dire o da scrivere su Winston Churchill? Forse no, dipende però da come si parla di lui. E la narrativa di Erik Larson che già conosciamo da altri suoi grandi libri, “Il giardino delle bestie” e “L’ultimo viaggio della Lusitania”, per citarne due che ho amato molto, si differenzia da quella di altri romanzi storici. Erik Larson riesce a fondere perfettamente il pubblico e il privato, a fornirci i dettagli storici e i pettegolezzi, che poi non sono neppure ‘pettegolezzi’- una nutrita bibliografia a fine libro è la prova che tutto quello che Larson scrive ha la sua fonte in lettere, diari, testimonianze. E allora la Storia diventa viva. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, mese dopo mese, seguiamo quello che succede in Inghilterra con uno sguardo a quello che succede pure in Germania, dove Hitler dava per scontato che il suo nemico sarebbe stato messo fuori gioco in pochi giorni. Non era preparato, Hitler, ad avere un oppositore così caparbio, tanto che ad un certo punto sembrava quasi che Churchill fosse il nemico, che si dovesse eliminare lui per vincere.

    Churchill aveva un innegabile carisma- è questo che Larson vuole mostrare. Con le sue grandezze e le sue debolezze. Seguiamo Churchill con l’immancabile bastone dal pomolo d’argento che cammina tra le macerie dopo i bombardamenti e che, con la sua sola presenza, riesce ad infondere coraggio e fiducia nella gente comune, lo ascoltiamo nei discorsi di cui alcune frasi sono entrate nella leggenda, “non ho altro da offrire che sangue, fatica, lacrime e sudore” (il 13 maggio 1940), “Non falliremo e non vacilleremo; non conosceremo debolezza o fatica” (10 febbraio 1940) perché Hitler non avrebbe prevalso, “la potenza dell’intero mondo di lingua inglese era sulle sue tracce, armata della spada della giustizia”, lo vediamo sui tetti ad osservare i bombardieri e poi nelle stanze private, con stravaganti vestaglie di seta, mentre detta seduto sul letto con l’eterno sigaro in bocca, quando reclama un bagno anche se le condutture sono state bombardate oppure quando, senza alcun imbarazzo, riceve nudo l’inviato americano.

Conosciamo in queste pagine anche Churchill come marito e padre, in dissidio con il figlio Randolph, protettivo nei confronti della figlia minore Mary.

Mary Churchill

Le vicende di Mary, testimoniate nel suo diario, sono un piccolo romanzo di sapore Austiniano dentro questo romanzo storico. La diciottenne Mary aveva voglia di vivere, di ballare, di innamorarsi- anche sotto le bombe. Al contrario delle ragazze Bennet, Mary non ha necessità di accasarsi- i suoi genitori non videro affatto di buon occhio quel suo primo affrettato fidanzamento con un bellimbusto senza carattere e riuscirono a dissuaderla. Leggiamo nell’epilogo che “il topolino” di casa diventò poi un mitragliere assegnato alla batteria pesante di Hyde Park.

Chequers- casa Churchill 

    Sono queste pagine intime, da famiglia normale, che rendono la Storia di quell’anno (che culmina con l’ingresso in guerra dell’America) così godibile, così facile da leggere, quasi fosse un romanzo. In cui risaltano anche due personaggi così tipicamente da romanzo inglese- le due case di campagna in cui Churchill passava il fine settimana, un momento di relax (relativo) di cui non poteva fare a meno.

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giovedì 21 gennaio 2021

Miljenko Jergović, “Il padre”

                                    Voci da mondi diversi. Penisola balcanica              

                                                    biografia romanzata


Miljenko Jergović, “Il padre”

Ed. Bottega Errante, trad. E. Copetti, pagg. 192, Euro 17,00

   Mio padre è morto. Inizia così il libro di memorie dello scrittore bosniaco Miljenko Jergović, il tentativo di ricostruire la figura paterna in un quadro che finisce, inevitabilmente, per essere non solo la storia di Dobro Jergović, ma quella travagliata della Bosnia.

    Suo padre era nato a Sarajevo nel 1928 e aveva avuto quel figlio tardi, quando aveva già 38 anni. Era medico, specializzato nella cura della leucemia, ma era prima di tutto un ‘vero’ medico, di quelli che curavano tutti gli ammalati che lo chiamassero al loro capezzale. Forse era per quello, per tutta la gente che aveva con lui debiti di gratitudine, che si era salvato, anche quando gli era stato consigliato di lasciare Sarajevo, di rifugiarsi a Zagabria, come già aveva fatto suo figlio. Aveva superato la sessantina, all’epoca della guerra, per lui non aveva senso sradicarsi dalla sua città.


     Il libro di Miljenko Jergović mi è capitato tra le mani poco dopo aver terminato di leggere “Abbandonare un gatto”, la breve biografia che Haruki Murakami scrive del suo proprio padre. La coincidenza mi ha colpito, così come mi hanno colpito altre somiglianze nel rapporto dell’uno e dell’altro scrittore con il proprio padre. Le vicende storiche di due paesi lontanissimi avevano portato sia Dobro Jergović sia Chiaki Murakami a combattere quando erano giovanissimi. Per Dobro la situazione era più complicata- aveva combattuto con i partigiani. Ma, proprio come accade allo scrittore giapponese, anche Miljenko Jergović si interroga sul passato di combattente di suo padre. A nessuno dei due (a nessuno in assoluto, dopo tutto) piace immaginare il proprio padre che uccide degli uomini. E né il padre di Jergović né quello di Murakami hanno mai parlato delle loro esperienze di guerra- era stato qualcosa da cancellare, da dimenticare, forse da rimediare. Un altro dettaglio in comune nel rapporto padre-figlio è quello degli anni di silenzio, dell’allontanamento, quasi che sia impossibile condividere il loro vissuto, che non si possa aspettare comprensione dall’altro.

    Quella di Jergović era una famiglia numerosa, divisa da schieramenti opposti di simpatie politiche- la nonna e una zia di Miljenko furono condannate ai lavori forzati in quanto simpatizzanti di Ante Pavelić, il fondatore del movimento nazionalista ustascia.

I ricordi di questa nonna severa, che non accettava la nuora solo perché era bionda e quindi doveva essere una prostituta, si mescolano con altri delle visite settimanali che Miljenko bambino faceva al padre in ospedale, a quelli delle rare gitarelle con tanto di plaid da distendere sull’erba e quella prelibatezza che era l’Eurocrem, la cioccolata spalmabile.

Suo padre, un uomo mite, si era separato molto presto dalla moglie bionda, la madre di Miljenko. E la granata che gli era piombata in stanza, nel secondo anno di guerra, lo aveva lasciato bianco di polvere e di paura. Era una guerra in cui sembrava non raccapezzarsi, lui, il medico che aveva curato serbi e bosniaci, musulmani e cattolici.  


    Fisicamente Miljenko assomiglia a suo padre, è un punto d’orgoglio, in Bosnia, che la paternità sia così visivamente innegabile. Dobro aveva anche raccontato al figlio dove era stato concepito, in un luogo iconico come il vecchio albergo Panorama, a Pale. In quell’albergo aveva dormito re Petar nel 1941, prima di andare in esilio. In quello stesso albergo, cinquant’anni dopo, nel 1992, avrà sede il governo di Karadzić e verranno prese le decisioni operative per l’assedio di Sarajevo. Senza Karadzić, Miljenko Jergović non sarebbe finito a Zagabria.

   In tedesco ‘patria’ è ‘ Vaterland’, la terra del padre. E questo libro non può essere altro che la storia del padre inestricabilmente collegata alla storia della sua terra.



mercoledì 20 gennaio 2021

"Quẚng Trị"- una poesia di Nguyễn Phan Quế Mai, autrice di "Quando le montagne cantano"

 

                                                           Voci da mondi diversi. Vietnam

         guerra del Vietnam

  L’Offensiva di Pasqua del 1972: durante la guerra del Vietnam si combatté da fine marzo a settembre a Quẚng Trị, sul confine della Zona Smilitarizzata lungo il 17° parallelo a 55 km. dall’antica capitale di Hue. Ancora oggi la provincia di Quẚng Trị è una delle aree dove è più alta la concentrazione di ordigni inesplosi.

La poesia Quẚng Trị, nella raccolta intitolata “The secret of the hoa sen” della scrittrice vietnamita Nguyễn Phan Quế Mai, autrice del romanzo “Quando le montagne cantano”, ha un impatto straordinario nella sua scarna liricità. Suscita in noi un sentimento di orrore per la guerra come quello che proviamo di fronte al quadro “Guernica” di Picasso. 

È l’orrore della guerra.

    Nel libro si trova la versione originale in vietnamita e la traduzione in inglese di Bruce Weigl. Su permesso della scrittrice questa traduzione in italiano è la mia.

 

 

Quẚng Trị.

 

La madre corre verso di noi,

le orbite colme dei nomi dei suoi figli.

Grida “Dove sono i miei figli?”

 

La madre corre verso di noi,

il nome del marito le incide un foro nel petto.

Grida “Restituitemi mio marito.”

 

Il tempo scolora le sue spalle.

 

I suoi capelli laceri avvizziscono.

Il cielo diffonde la luce del sole, trascinandomi lungo le strade

rivestite da un tappeto di crateri di bombe come occhi di morti,

spalancati in uno sguardo fisso.

I campi secchi, spaccati, lottano per cercare il respiro.

 

Fiori fiammeggianti spargono il loro sangue per la strada.

Ancora così profonde le ferite, Quẚng Trị.